NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 29 luglio 2013

Le parole sante di Papa Francesco

Papa Bergoglio ha parlato di recente in Brasile dicendo parole sante.
Voglio riportarne alcune e commentarle per fare, nel mio piccolo, da cassa di risonanza ai miei  lettori  che stanno tornando dalle vacanze e si avvicinano ai fatidici centomila.
“Il futuro esige da noi una visione umanista dell’economia”, ha detto l’onesto Francesco. Onesto e caro perché visione umanista significa “piena di amore per gli uomini, favorevole all’umanità”.
 Un’idea non umanista, quella del capitalismo sregolato, è infatti antiumana.
Non vedere il mondo umanisticamente, significa mettere al primo posto il denaro, il pil, il consumo, il profitto. Vuol dire disprezzare la scuola, la cultura, la paideia, ossia l’ educazione che non è imparaticcio a memoria di date di battaglie con tanto di sbudellamenti , o almeno non solo, non soprattutto questo, ma è innanzitutto rispetto per la vita umana. Quel rispetto che manca quando un macchinista  per u{bri~,  per demente, scellerata arroganza, lancia   un treno pieno di vite a una velocità non consentita, o, quando una compagnia di trasporti non controlla la sicurezza dei suoi veicoli  in modo da escludere che possano finire in fondo a dei  burroni provocando decine di morti. Senza questo tipo di educazione non funziona più niente. Molti uomini con mente folle  sono usciti dall’umano.

Ma torniamo  all’ottimo Bergoglio, al buon Francesco. Il Pontefice auspica “una politica che realizzi sempre più e meglio la partecipazione della gente, eviti gli elitarismi e sradichi la povertà”.
Perché possa partecipare, la gente deve essere informata. Qui a Bologna si sta per commemorare, ancora una volta la strage della stazione. Tutti gli anni una commemorazione retorica, ipocrita, peggio che inutile finché collabora a nascondere la verità a non svelare chi ha commesso, chi ha finanziato, chi ha organizzato questa strage e tutte le altre, a partire da Portella della ginestra in avanti. Il segreto di Stato va tolto. Io so, come sapeva Pasolini, ma come lui non ho le prove, e ho pure un poco di paura.
Gli elitarismi sono attizzati dalla pubblicità che raccomanda cose, località, residenze “esclusive”. Un tale obbrobrio andrebbe vietato. Escludere è peccato, ha ragione il Papa. Un uomo umano si vergogna di escludere gli altri, soprattutto se si tratta di escluderli  con il criterio del denaro.
 La povertà va eliminata come sofferenza per i poveri e come colpa e vergogna per i ricchi.
Ancora Francesco: “A volte sembra che, per alcuni, i rapporti umani siano regolati da “dogmi” moderni: efficienza e pragmatismo. Abbiate il coraggio di andare controcorrente. Essere servitori della comunione e della cultura dell’incontro!”
E’ la mancanza di educazione che porta a seguire i dogmi, ossia i luoghi comuni. I più diffusi sono quelli della pubblicità, la corruttrice  che insegna l’egoismo, il disprezzo della spiritualità, la reificazione con la mercificazione dell’uomo e della donna.
Tutto questo andrebbe abolito.
Quanto alla cultura dell’incontro, questa non è possibile se gli uomini non hanno idee, non hanno parole, non provano sentimenti di simpatia per la vita. Notate quanto è difficile e raro vedere dei giovani che parlano guardandosi in faccia, che si corteggiano, che si accarezzano! Il più delle volte sono chini sulle loro macchinette, tutte brutte allo stesso modo, tutti uguali anche loro, ma ciascuno isolato e chiuso in se stesso.
Bergoglio auspica il dialogo. Per dialogare è necessario il lovgo~, come  patrimonio lessicale e mentale, poi ci vuole interesse, sollecitudine e simpatia per il prossimo e per la natura. Invece l’interesse dei più viene indirizzato prima di tutto al profitto e al consumo vorace. Gli economisti “accreditati”, autorizzati soltanto dalla visibilità loro astutamente concessa, invocano come toccasana la continua crescita dei consumi, quando anche uno digiuno di economia come me, capisce che tale aumento non può essere illimitato. E le persone dotate di mente e di cuore sanno che siffatto sviluppo incapace di progresso etico, anzi fautore di regresso morale, non può dare la felicità.
Il Papa elogia anche la lentezza contro la frenesia e la furia della fretta.
Penso all’automobilista che getta sotto le ruote il pedone che gli “fa perdere tempo”, al pilota frenetico  che, novello Caronte,  batte a abbatte con la motocicletta chiunque s’adagia, cioè osa procedere adagio sulle strisce, magari su una carrozzella, o tastando il terreno con un bastone.  Penso anche al ciccione che si butta sul cibo ancora prima di trovarsi seduto.
“Recuperiamo, cari fratelli, la calma di saper accorciare il passo”.
Infatti: c’è un tempo per le gare di corsa e non biasimo chi le vince, anzi lo elogio, ma ci deve essere anche un tempo per osservare, contemplare, riflettere.
E’ proprio di questo che ha paura la persona male educata dalla pubblicità, dalla televisione, dalla casta dei politici e da quella dei gazzettieri asserviti.  
Hanno paura di guardarsi dentro. Non vogliono vedere il loro vuoto, la propria desolante miseria interiore.
Non mollare, Francesco, non mollare. Hai ragione: facciamo casino!


Giovanni Ghiselli     

venerdì 26 luglio 2013

I dolori del parto. L’invidia e il risentimento dell’uomo.



Piero della Francesca - Madonna del parto
Famosissimi sono questi versi della Medea di Euripide pronunciati dalla stessa protagonista eponima della tragedia:Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli in casa, mentre loro combattono con la lancia, pensando male: poiché io preferirei stare tre volte accanto a uno scudo piuttosto che partorire una volta sola”. (248-251).
Medea afferma di preferire la guerra al parto inaugurando un tovpo" che potrebbe essere condiviso dalle soldatesse di oggi.

Ennio (239-169 a. C.) fa dire alla sua Medea exul: "Nam ter sub armis malim vitam cernere / quam semel parere", infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte, che partorire una volta sola. Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più tremendo della guerra.
Del resto il letto è il mobile più importante della casa e talora è il campo di battaglia della donna.

Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra, quando l’adultera assassina di Agamennone tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì: "oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" (vv. 531-532). Qui, all’opposto di quanto sostiene Apollo nelle Eumenidi, il seminare conta meno del partorire.

Nelle Fenicie di Euripide, la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo: "deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv, / kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata anche troppo con Edipo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell'Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola,  ricordando quale prova terribile sia il parto: "deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga / pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav).
Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il dovere della gratitudine, fa presente che “il nascimento” mette a repentaglio la vita della madre: "hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.
In Anna Karenina c'è il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola: "La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense"[1].

Eppure molti uomini provano invidia per questa facoltà esclusivamente femminile: Nerone recitava anche in ruoli femminili, e una volta, mentre stava interpretando Canace partoriente la quale ebbe un figlio dal fratello Macareo,  chiesero dell’imperatore, e un soldato rispose: “Partorisce”[2].
Altri maschi hanno del risentimento nei confronti di questa creatività femminile.
Sentiamo Giasone nella Medea di Euripide: "Crh'n ga;r a[lloqevn poqen brotou;" / pai'da" teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai  gevno": / cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 573-575), bisognerebbe in effetti che gli uomini da qualche altro luogo / generassero i figli e che la razza delle femmine non esistesse: / e così non esisterebbe nessun male per gli uomini.
Insomma il male è la femmina.

Nell'Ippolito di Euripide, il protagonista, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e terrorizzato dalle donne, ingannevole male per gli uomini ("kivbdhlon ajnqrwvpoi"  kakovn", v. 616), male grande ("kako;n mevga", v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[3] ("ajthrovn[4]... futovn", v. 630), che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane.
Traduco alcune parole del "puro" folle che dà in escandescenze: "O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per gli uomini (kivbhdlon ajnqrwvpoi~ kakovn)? Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere questo dalle donne, ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo la prosperità della casa" (vv. 616-626).

Giovanni Ghiselli





[1] L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720. 
[2] Il soldato rispose - tivktei -, a uno che gli aveva domandato: "tiv poiei' oJ aujtokravtwr;" (Cassio Dione, 63, 10)
[3] L'accecamento mentale, una smisurata forza irrazionale. 
[4] La protagonista dell'Andromaca fa l'ipotesi: "eij  gunaikev~ ejsmen  ajthro;n kakovn" (Andromaca, v. 353), se noi donne siamo un male pernicioso.

giovedì 25 luglio 2013

Matteo Marchesini, "Atti mancati"




Matteo Marchesini, Atti mancati, Voland, Roma 2012

Ho letto il libro dell’autore durante un caldissimo pomeriggio di luglio, senza interrompermi dato l’interesse che suscitava. I suoi pregi sono lo stile accurato ed elevato, cioè dotato nello stesso tempo di chiarezza e di eleganza. E’ una storia piena di sofferenza che si comunica a chi la legge.
Ma non è un pavqo~ fine a se stesso: è una  sofferenza che porta alla comprensione, al mavqo~, secondo la splendida sintesi quasi ossimorica di Eschilo: “tw/` pavqei mavqo~[1], attraverso la sofferenza, la comprensione.
Dico quasi ossimorica poiché spesso la sofferenza rende invece più stupidi e più cattivi.

Faccio un esempio tratto dalla letteratura, ma ne ho visti tanti anche vivendo la mia vita variopinta.
In una novella di Pirandello (Va bene) il protagonista è un uomo cui "i diuturni dolori avevano quasi vestito la mente d'una scorza di stupidità". Costui, dopo avere buttato dalla finestra la moglie infedele, fa una richiesta al figlio malato:"figlio mio, questi occhiali… Strappameli dal naso, bello mio… Così… Bravo! Ora non ti vedo più!".

Nel  presentare questo romanzo farò molte citazioni per antologizzarlo fino alla carne viva e, per commentarlo, ricorrerò spesso  ai miei autori classici. Voglio aggiungerli ai moderni che  vengono non poche volta menzionati e talora citati da Marchesini secondo quel metodo che Eliot chiama mitico e che serve a dare una forma e un significato a questo immenso panorama di futilità e anarchia che è il mondo contemporaneo.

I capitolo
Il protagonista dunque, credo un alter ego dell’autore, nato nel 1979,  si presenta così: “A un certo punto, senza accorgertene, hai trentatrè anni. E non puoi nemmeno dire di non aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi” (p. 9). “In parte” dunque.
Questo giovane, Marco Molinari, è infatti un uomo dimidiato, ossia realizzato a metà:  nel senso che ha lasciato incompiuti  due tentativi importanti: l’amore e un romanzo. Scrive articoli per più di un giornale, fa il ghost writer e svolge altre attività nel campo della parola, ma si sente in qualche modo inconcluso.
Mi viene in mente Guido Gozzano con la sua “trentina- inquietante, torbida d’istinti- moribondi”[2] e con il suo Totò Merumeni, ossia il punitore di se stesso, “tempra sdegnosa,/molto cultura e gusto in opere d’inchiostro”[3]
Una mattina, Molinari riceve l’incarico di andare a intervistare  Bernardo Pagi, un intellettuale e scrittore che gli aveva fatto da maestro.
Alla fine del primo capitolo, fa capolino l’ u{bri~, un termine chiave nella tragedia greca, forse il sostantivo tragico per eccellenza,  una parola dunque che ci preannuncia la tragicità di questo romanzo.
Credo che l’u[bri~ di questo giovane sia la reticenza.
Il romanzo è ambientato prevalentemente a Bologna, nella Bologna dei giovani con aspirazioni o pretese intellettuali, degli studenti, degli aspiranti artisti, insomma non la Bologna dei piccolo borghesi tranquilli, quelli che la sera guardano la televisione.
“Esco nel freddo marzolino di via Castiglione” (p. 11)

II capitolo
L’io narrante ci dice che Bernardo Pagi , frequentato una decina di anni prima, è stato per lui ventenne “qualcosa di assai simile al maestro che al liceo e all’Università mi ero sempre rifiutato di avere” (p. 12).
Un maestro di misura, equilibrio, ironia, antiestremismo, non senza “qualche radice mistica (Simone Weil)”.
Un poco alla volta Molinari aveva preso Pagi come “una specie di guru a cui ispirarsi nella vita quotidiana” (p. 13). Tuttavia il ragazzo utilizzava anche altri modelli, compresi intellettuali estremisti alla Fortini.
C’era una bella differenza di età (30 anni) ma anche di temperamento e pure di aspetto fisico: snello e minuto, siccome inappetente l’attempato, corpulento, alto e vorace il giovane.
Questo era stato paragonato dal maestro a “certi personaggi di Dostoevskij” (p. 13). Quelli la cui vita secondo Bachtin, viene rappresentata in situazioni eccezionali e abnormi, una vita che si svolge “sulla soglia”.
Dostoevskij non fu uno scrittore di ambienti casalinghi o familiar :"Nel vieto spazio interno, lontano dalla soglia, gli uomini vivono una vita biografica in un tempo biografico: nascono, passano l'infanzia e la giovinezza, si sposano, generano figli, invecchiano, muoiono. Anche questo tempo biografico è "saltato" da
Dostoevskij. Sulla soglia e sulla piazza è possibile solo il tempo delle crisi, in cui l'istante  si eguaglia agli anni, ai decenni, anche ai "milioni di anni" (come nel Sogno di un uomo ridicolo )[4].
Il protagonista del romanzo di Marchesini dunque vive spesso questo "tempo della crisi",  sebbene non tanto drammaticamente quanto Raskol’nikov.
Comunque, verso i 28 anni di Molinari, il maestro e l’allievo si erano allontanati, anche spazialmente, forse per la difficoltà del giovane di risolvere il rapporto tra Wille zur Macht e aspirazioni artistiche (p. 14).
Questo concetto nicciano torna spesso a significare credo, l’aspirazione del ragazzo, di estrazione piccolo borghese, quasi campagnola, a inserirsi in posizione non subordinata nell’alta borghesia bolognese intellettuale, o pseudo intellettuale. L’amico alto borghese Ernesto “questi problemi non se li poneva proprio” (p. 14) anche se ne aveva di ben più gravi.
Il maestro forse disapprovava il poligrafismo presenzialista dell’allievo che a ventotto anni aveva avuto “l’ambigua fortuna” di riuscire a campare scrivendo su due o tre giornali a partire dalla redazione bolognese del “Corriere della Sera” (p. 15).
Marco dunque entra nella sala Farnese, dove Pagi viene premiato con il Bolognino d’oro. L’alter ego di Marchesini  ha già confezionato l’incipit del pezzo richiesto dal direttore del suo giornale.

III Capitolo
La cerimonia è solenne “tra assessori e membri del senato accademico, tutti intabarrati e sonnolenti” (p. 16)
Pagi sorride a Molinari “ come se mi regalasse una silenziosa battuta sulle pompose bestialità che senza dubbio stanno uscendo dalla boccuzza tumida del primo cittadino” (p. 16)
Tra il pubblico c’è un altro personaggio importante del libro e della vita di Marco: Lucia che diventa la deuteragonista del romanzo, la vittima sacrificale della tragedia. La ragazza viene presentata come una persona inquietante fin dall’aspetto: Molinari nota qualche cosa di strano, di deforme in questa giovane donna che era stata la sua compagna ed era stata assai bella. “I lineamenti sono come esiliati dal suo centro”. Saprà e sapremo più avanti che Lucia ha un cancro.
Pagi fa un discorso ricordando gli intellettuali scomparsi con i quali discuteva, anche polemicamente, nomi come Giacomo Debenedetti, Paolo Volponi, Fortini, Pasolini (“un disastro riuscito”), Elsa Morante con “la sua conversazione tirannica ma luminosa” (p. 18) L’ultima leva di intellettuali gli sembrano “troppo poco inclini a fare confronti con le più legittime e forti tradizioni del Novecento” (p. 19) Oggi prevale il luogo comune, il culto se vogliamo storicistico del successo, e l’ansia di “buttarsi sul carro del vincitore” (p. 19), cioè sul romanzo.
Ma il romanzo di questi mestieranti non è “il condensato di sapienza antropologica che ci hanno consegnato l’Ottocento e il primo Novecento; non è più insomma un genere letterario… E' un genere editoriale” (p. 19).
Sentiamo come lo genealogizza Nietzsche  “Il dialogo platonico fu per così dire la barca in cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature; stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all’unico timoniere Socrate, entrarono ora in un mondo nuovo…Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo, questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico… Cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressione del demonico Socrate. Qui il pensiero filosofico cresce al di sopra dell’arte, costringendola ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica. Nello schematismo logico si è chiusa in un involucro la tendenza apollinea: così in Euripide abbiamo dovuto constatare qualcosa di corrispondente, e inoltre una traduzione del dionisiaco nella passione naturalistica”[5].
Bachtin individua un collegamento tra satira menippea e romanzo, nella fattispecie quello di Dostoevskij. Il critico russo menziona il Satyricon di Petronio  e l’Asino d’oro di Apuleio[6] che sono in effetti le opere più moderne, e tra le più belle della letteratura latina.
Io credo nella necessità della conoscenza della conoscenza della tradizione letteraria per uno scrittore che non sia uno scribacchiatore o uno scarabocchiatore. Oppure un nano che non è salito sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto[7].
Se lo scrivere egregiamente non è più richiesto a chi scrive, cresce sempre più “il divario tra essere e apparire” (Atti mancati, p. 19) e sui bravi prevalgono i raccomandati, i mediaticamente abili e così via.
Concludo la presentazione di questo terzo capitolo ricordando Platone: l’apparenza talora violenta la verità dice Adimanto, fratello del filosofo citando Simonide: “to; dokei`n kai; ta;n ajlavqeian bia`tai (Repubblica, 365c). La verità, l’ajlhvqeia che dovrebbe essere “non latenza”, viene invece continuamente occultata.

IV Capitolo
Marco e Lucia si trovano seduti all’ex bar di Azio che dopo l’ictus del titolare si è degradato ad “anonima tavola calda per fuorisede”(20). Anche il bar partecipa della decadenza semantica e vitale che investe un poco tutti in questa Bologna e in questa Italia.
Arriva Bernardo per un breve saluto perché deve andare al mangiare con i pezzi grossi al Diana. Li saluta per tornare verso i cerimonieri “che pendono dalle sue labbra come tanti e ottusi Wagner, tanti famuli insomma. Servi, come il famulus attraverso il quale Goethe si burlava dell’illuminismo.
Marco ricorda le parole che Bernardo gli aveva detto quando Lucia l’aveva lasciato: “Il massimo che ci è concesso è prendere da ognuno ciò che ci fa stare bene per un po’. Solo per un po’” (p. 21) E’ una dichiarazione di amor fati, quello che nel capitolo seguente verrà definito “una specie di segreto tao critico” (p. 31). Ma per accettare il destino, ossia se stesso, ci vuole chiarezza e lucidità. Pagi aveva aggiunto: “Ripensa ai fatti. C’è qualcosa di non chiaro, di non limpido. Forse riguarda te, non lei” (p. 22).
I due amanti avevano delle discrepanze di carattere: iperattiva lei, pigro, passivo, chiuso in se stesso lui. Fatto sta che Lucia a un tratto l’aveva lasciato e aveva lasciato Bologna.
I due tengono un dialogo difficile, sospettoso, reticente. Lei ha rinunciato a precedenti ambizioni accademiche e lavora a Roma, a Trastevere per la fondazione di una ricchissima fotografa. Ma c’è qualcosa di inautentico nel loro parlare, o di non detto:
“'Sei dimagrita un po’ troppo mi sembra’. Lei ha alzato di nuovo le spalle” (p, 23)
Viene nominato Ernesto, un fantasma, tra loro due. Lucia ha addosso qualche cosa di stanco,  una spossatezza che la deforma: “E' come se quei tratti si fossero ridisposti secondo un disegno respingente” (p. 24). E’ la deformazione della brutta malattia. Lucia parla di Ernesto, l’amico morto, il convitato di pietra.
La ragazza fa un confronto tra i due: Ernesto era più bravo a parlare, Marco a scrivere. Poi chiede del romanzo.
“Sta là impaludato” (p. 25) risponde lui.
Lucia continua con i ricordi ma il suo fisico mostra che qualche cosa non funziona. Marco cerca di “troncare e sopire” con una battuta insignificante. Poi i due si separano. Lei gli manda un sms per un appuntamento, due giorni dopo, a Porta Saragozza (p. 27).

V Capitolo
Molinari riprende in mano il romanzo che non funziona come lui vorrebbe. L’ispirazione vera è leggibile solo in controluce, in filigrana, sotto quella pubblica che interferisce. E’ come la scrittura più antica di un palinsesto o “come un affresco semicancellato sotto una mano di biacca” (p. 28).
La perdita dell’amico Ernesto e dell’amante Lucia lo avevano messo su una falsa pista (p. 29).
Nel romanzo c’è la famiglia del protagonista, c’è “il mito del progresso indefinito”, c’è  “l’opulenta Emilia rossa che si sfalda insieme a questo mito come un piccolo impero asburgico” (p. 29). Molinari  ha escluso lenocini narrativi temendo di cadere in uno storicismo da alcova (p. 30), ma del resto non è riuscito a raffigurare personaggi interi, a illuminare dall’interno una situazione storica perché non ha capito le quintessenze, non ha trovato il bandolo. Tutto rimane come poco caratterizzato per “mancanza di fede”.
Mancanza di fede significa letteratura alessandrina, da erudito, da bibliotecario , quindi mancanza di passioni, di contenuti politici.
Segue un ritratto di Ernesto, l’amico scomparso in un incidente d’auto. Questo giovane morto ante diem  incarna lo stile dell’aristocratico europeo caratterizzato dall’ ajmevleia, dalla sui neglegentia[8] dalla sprezzatura:
“In Ernesto invece la sobrietà era il frutto naturale di un’aristocrazia della ricchezza e della bellezza. Qui il segno meno, il segno dell’inazione, riguardava tutto ciò che non aveva dovuto conquistarsi con le unghie, tutta la cultura respirata in famiglia e dunque mai presa troppo sul serio, tutto il tempo che non aveva mai avuto l’ansia di capitalizzare con la mia furia piccolo-borghese. Ernesto, o della normalità. La normalità altoborghese di Bologna, intendo. Una normalità fatta dell’assoluta assenza di ossessioni, cioè dell’assenza di pane quotidiano” (p. 31).
Dopo due secoli abbondanti di predominio, l’alta borghesia si è impossessata anche dello stile dell’aristocrazia. Ernesto Mengoli “sapeva fare tutto discretamente, senza strafare mai: dal calcetto alla politica universitaria, dal naturismo ai cultural studies, non c’era niente che non evidenziasse la sua disinvolta medierà” (31). "Viene in mente Saint-Loup dei Guermantes  che appariva di un'eleganza " libera e trascurata"[9].
Ernesto è un amico, un condiscepolo di Marco quale allievo di Pagi, e, sotto sotto, un rivale: i due giovani erano stati in qualche modi i Jules e Jim di Lucia (p. 32). La ragazza poi aveva scelto Molinari che ne era rimasto stupito. Lucia all’epoca era bella assai, eppure Marco non temeva di perderla: “perché non sapevo ancora cosa fosse il dolore, la perdita, il puntiglio trasformato in un’idea fissa” (p. 33). Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~. Lucia era attirata proprio dalla “distrazione o incoscienza” di Marco e da un proprio stato “di presunta soggezione intellettuale” che voleva subire e nello stesso tempo distruggere. La ragazza era incline “ad attaccarsi a tutto ciò che non le risultava subito classificabile, smontabile nei suoi banali elementi primi; ad appropriarsene con tenacia silenziosa, e quindi a svalutarlo” (p. 33).
E’ uno dei tovpoi dell’amore e dell’interesse umano: Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor . (Ovidio, Amores, 2, 20, 36) evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
Riferisco solo un paio tra le altre numerosissime occorrenze:
Nella commedia La locandiera (del 1753), Goldoni fa dire alla protagonista,  Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Sentiamo ancora Proust che esprime lo stesso concetto:"Qualsiasi essere amato-anzi, in una certa misura, qualsiasi essere-è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[10].
Lucia apparteneva alla stessa Bologna di Ernesto con un codice di comportamento abbastanza uniforme per questa classe sociale. Lo riconosco per avere insegnato molto a lungo, 28 anni latino e greco ossia le materie caratterizzanti, nel liceo Galvani di via Castiglione appunto. Lo stile di quell’ambiente oscilla tra la neglegentia di cui ho scritto sopra, e il suo contrario, l’affettazione[11], o addirittura lo snobismo[12], ossia la maleducazione. Con atteggiamenti non ricchi di calore umano, talora perfino poveri di umanità.
“Lucia si era costruita un personaggio stilizzato impermeabile a qualunque sbavatura, coerente come un fumetto” (p. 34). Questo indossare sempre una maschera che a poco a poco risucchia e annulla l’interiorità può essere molto nocivo per la salute. Molte persone che gravitavano sul Galvani non stavano bene.
La mancanza di calore umano può fare male a chi vi rinuncia, ho pensato prima di leggere questo romanzo.
Marco Molinari non apparteneva a quell’ambiente. La sua estrazione era piccolo borghese e catto-comunista.
Le sue origini gli erano “motivo di sottile vergogna e di contemporaneo orgoglio” (p. 35). Quando ero giovane, nel ’68, una dei luoghi comuni dell’epoca era “vivo la mia contraddizione”. Credo che essere “segni di contraddizione” da parte degli altri, come Cristo, sia buona cosa, ma penso pure che le contraddizioni  a noi interne dobbiamo risolverle. La morte di questi due amici della Bologna bene, paradossalmente, aiuterà Marco a farlo.

Giovanni Ghiselli 

[1] Eschilo, Agamennone, v.. 177. 
[2] I colloqui, vv. 10-12) 
[3] Totò Merumeni, v. 18. 
[4] M Bacthin, Dostoevskij , p 222.  
[5] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 95.  
[6] Op. cit., p. 148. 
[7] A questo proposito, cito un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres (Filosofo scolstico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio) :"Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres  che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, comunque sia  non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati  in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca
[8] Petronio elegantiae arbiter , maestro di buon gusto alla corte di Nerone, viene descritto da Tacito con queste parole “habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu.  Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius  in speciem simplicitatis accipiebantur"  (Annales , XVI, 18), ed era considerato non un dissoluto o un dissipatore, come i più tra quelli che sperperano le proprie fortune, ma uomo dalla voluttà raffinata. Le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità.
[9] M. Proust, I Guermantes, p. 96.
[10] M. Proust, La prigioniera, p. 183. 
[11] Baldassarre Castiglione in Il cortegiano  prescrive al gentiluomo di fuggire sopra tutto "la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode" (I, 17). Egli deve schivare "quanto più si pò, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura", ossia una studiata disinvoltura, un’apparenza di naturalezza "che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo  credo io che derivi assai la grazia… " (I, 26). Parimenti la perfetta gentildonna "Non mostri inettamente di sapere quello che non sa, ma con modestia cerchi d'onorarsi di quello che sa, fuggendo, come s'è detto, l'affettazione in ogni cosa" . Infatti "somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la simplicità e la sprezzatura" Quindi la gentildonna non deve mostrare l'artificio: "questi vostri difetti di che io parlo vi levano la grazia, perché d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio d'esser belle" (I, 40). Leopardi trova grande saggezza e verità in queste parole: “Grazia del contrasto. Conte Baldessar Castiglione, il libro del Cortegiano…Ma avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcun altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia” (Zibaldone, 2682). 
[12] Lo snobismo è la quintessenza dell’affettazione, del posare dovuto a mancanza di gusto e a cattiva educazione: nella Ricerca di Proust il personaggio  sine nobilitate è Bloch : “ciò che si chiama la mala educazione era il suo difetto capitale, e quindi il difetto di cui non si accorgeva…Bloch era maleducato, nevrastenico, snob” (All’ombra delle fanciulle in fiore, p.  344). Viceversa  Saint Loup  aveva “un modo di concepire le cose per il quale non si fa più conto di sé, e moltissimo del “popolo”; insomma, tutto l’opposto dell’orgoglio plebeo… Lui, in ogni circostanza, faceva quel che gli riusciva più gradevole, più comodo, ma immediatamente gli snob lo imitavano,  (p. 351).

martedì 23 luglio 2013

La fobia dell’amore e del sesso. Anatemi, calunnie e riabilitazione

scritta su un muro di San Pietroburgo
foto di Polina Oshmyanskaya

 
Contro la fobia dell’amore e del sesso 

L’omofobia è solo una parte, forse  nemmeno la più grande, della fobia che dai tempi antichi ha colpito la sessualità e la colpisce tuttora.
Ti garantisco lettore che la mia eterosessualità praticata senza risparmio, e mai nascosta, mi è costata calunnie e anatemi che tanti colleghi e amici omosessuali non hanno subito. Sul loro conto giravano battute di derisione o compatimento; sul conto mio hanno sempre gravato le feroci maledizioni dei frustrati sessuali, degli impotenti, dei brutti schifati della vita e dalla vita.

Il mio orgoglio di eterosessuale mi è sempre costato caro.
Ma non voglio parlare di me. Dopo avere affermato con forza che pure l’eterosessualità deve essere difesa dopo secoli di esecrazioni e persecuzioni, anche perché negli ultimi tempi si viene riducendo anno dopo anno, riferisco una serie di anatemi  letterari che riguardano il sesso.
Un’infamia per tutte: il priapismo che è solo grazia di Dio, di un dio grande per giunta , viene indicato come una malattia dai malefici avvelenatori della vita. C’è chi viene spinto a curarsi dal priapismo e chi è incoraggiato a prendere il viagra. Io mi vanto della mia eterosessualità e del fatto che mi piacciono molto le donne.
In conclusione presenterò  una doverosa  riabilitazione di Eros.

La Medea di Euripide, la donna vilipesa e abbandonata dice: “feu` feu`, brotoi`~ e[rwte~ wJ~ kako;n mevga”, ahi che grande male è l’amore per gli uomini!
E’ una delle tante, troppe calunniose esecrazioni dell’amore presenti nella letteratura europea. Vediamone altre. 
L’antefatto della Medea di Euripide si trova nelle Argonautiche, il poema epico di Apollonio Rodio che nel terzo e penultimo libro descrive la fase iniziale della nipote del sole per Giasone. Ebbene questa storia è piena di anatemi su Eros: il dio quando arriva, mandato dalla madre Afrodite, per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~, Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oi\stro~) che si scaglia sulle giovani vacche[1].
Rapidamente questo dio prese una freccia dolorosa: “poluvstonon ejxevlet  j ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza, come una fiamma (flogi; ei[kelon, v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh'/ de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290). Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto lavqrh/ ou\lo~   [Erw~” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane prestante  viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra l'Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore angoscioso (Argonautiche, 3, vv. 957-961). L'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn  ajlginovei"", IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per  quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso. Ti chiedo, lettore: non sono queste, parole di un’empietà blasfema, assoluta?
Non nasce dall’amore “il bene - il piacer maggiore - che per lo mar dell’essere si trova”[2]
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j  [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn)"[3] 

L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio: “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (Eneide, IV, 412).
Questo è l’amore di Didone, frustra moritura, destinata a morire invano, per Enea che non si comporta meglio di Giasone, come farà notare Ovidio.
Lo vedremo più avanti. 
Nell’Ippolito di Euripide, quando Fedra domanda alla nutrice che cosa è ciò che gli uomini chiamano amore, ella risponde: una cosa dolcissima (h[diston) e nello stesso tempo dolorosa (taujto;n ajlgeinovn q  j a{ma, v. 348).
Poi Fedra le confessa di essere innamorata di Ippolito: allora la nutrice vede il sovvertimento della bellezza e dei valori: “ejcqro;n eijsorw' favo~” (v. 355), odiosa vedo la luce.
Più avanti però la trofov~ consiglia alla pupilla l’ardimento di amare (tovlma d’ ejrw'sa, v. 476) e poco dopo le dice: non di parole decorose hai bisogno tu, ma di quell’uomo (ouj lovgwn eujschmovnwn / dei' s j, ajlla; tajndrov~, vv. 490-491).
La premessa è che Cipride non si può sostenere, quando si avventa con tutta la forza: “Kuvpri~ ga;r ouj forhtov~, h]n pollh; rJuh'/”(v. 443) e gli dèi stessi ne sono stati soggetti, come Zeus che amò Semele. Tu non puoi essere più forte degli dèi: cessa di essere arrogante: “lh'xon d j uJbrivzous j ouj ga;r a[llo plh;n u{bri~  / tavd  j ejstiv, kreivssw daimovnwn ei\nai qevlein” (vv. 474-475), non è altro che arroganza questo, voler essere più forte degli dèi. Dunque: “tovlma d’ ejrw'sa: qeo;~ ejboulhvqh tavde" (v. 476), osa amare,  un dio l’ha voluto!
Ora, aggiunge la nutrice, è giunto il momento dell’"ajgw;n mevga~ / sw'sai bivon sovn" (Ippolito, vv. 496-497) e in questa gara suprema dove si tratta di salvare la vita,  non si possono lesinare o riprovare i mezzi per vincerla.
Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio di questa tragedia: “Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" / qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw (Ippolito,  vv. 1-2), grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.
The Kypris of the Hippolytus is none other than the Venus Genetrix of Lucretius, the Life Force of Schopenhauer, the élan vital of Bergson : a force unthinking, unpityng, but divine. Opposed to her, as the negative to the positive pole of the magnet, stands Artemis, the principle of aloofness, of refusal, ultimately of death. Between these two poles swings the dark and changeful life of Man, the plaything which they exalt for a moment by their companinship, and drop so easily when it is broken: "makra;n de; leivpei~ rJa/divw~ oJmilivan"[4] says Hippolytus bitterly[5], La Cipride dell’Ippolito non è altro che la Venere Genitrice di Lucrezio, la Forza della Vita di Scopenhauer, lo slancio vitale di Bergson: una forza che non pensa, non sente pietà, ma divina. Opposta ad essa, come il polo negativo a quello positivo del magnete, sta Artemide, il principio della freddezza, del distacco, e in definitiva della morte. Tra questi due poli oscilla la scura e cangiante vita dell’Uomo, il giocattolo che essi innalzano per un momento con la loro amicizia, e poi cade così facilmente quando è rotto: "Tu lasci facilmente la nostra lunga compagnia" dice Ippolito amaramente.
Il primo stasimo dell’Ippolito, cantato da donne trezenie invoca Eros come colui che infonde piacere a chi muove guerra (v. 527). Poi le coreute  annunciano con sgomento la necessità di venerare questo dio  che è tiranno degli uomini (tuvrannon ajndrw'n, v. 538) e distrugge (pevrqonta, v. 541) e incede in mezzo a sventure di ogni tipo (dia; pavsa~ / ijovnta sumfora'~, 541-542). La madre Cipride non è da meno: ella uccise la madre di Bacco con folgore fiammeggiante  e dovunque spiri, terribile (deinav), continua a volare come un’ape (mevlissa oi{a, vv. 563-564). Cioè punge[6].

Nella Fedra di Seneca la figlia di Pasife, innamorata del proprio figliastro, cerca di giustificarsi con la nutrice denunciando l’onnipotenza del dio alato, Amore, cui soggiacciono gli stessi dèi maggiori poiché egli ha un potere incontrollato in ogni parte del mondo: “Hic volucer omni pollet in terra impotens" (v. 186) e vola parimenti penoso nel cielo e sulla terra: “Volitat caelo pariter et terra gravis” (v. 194).
Secondo Christa Wolf invece, la negazione della gioia non è implicita nell'amore in sé, ma al contrario deriva dall'odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo monologo ricorda di avere sentito dalla madre dei suoi figli, la quale gli parlava senza essere stata corrotta dal rancore: "Ma tu, ascolta bene quello che ti dico, non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile… Non ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria"[7].
Nella letteratura latina  il sermo amatorius pullula di metafore che  identificano l'amore con il fuoco, le ferite, la peste, il veleno, la follia, addirittura il cancro: "Sed antiquus amor amor cancer est" (Satyricon  42, 7), ma un amore vecchio è un cancro.

Catullo usa la parola pestis  in nesso allitterante con pernicies[8] per definire il proprio amore doloroso dal quale vorrebbe liberarsi, con l'aiuto degli dèi, come da una malattia non meritata (76, 20-22). Nella parola pestis  è già implicita l'idea, oggi terroristicamente conclamata, dell'Aids, chiamata la peste del secolo, quando negli incidenti stradali muoiono, in Italia, ottomila persone all'anno[9], ne restano ferite molte di più, e chissà quante altre  vengono consumate dal cancro, quello vero, dovuto ai gas di scarico. Se i rapporti umani, in primis quelli amorosi, non venissero sporcati, calunniati, annichiliti, gli uomini non comprerebbero tante macchine e altre schifezze nocive, o quanto meno inutili.
Sono le distruzioni e le guerre che spingono a comprare. Il consumare è collegato al distruggere, è una sua metafora. Sono le attività empie, le malattie dello spirito che distolgono dall’amore.
Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il cittadino giusto compiange la città perché gli abitanti non si curano della pace (Acarnesi, v. 27) e pure  odia la vita cittadina, mentre rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per sé. Nella povli" invece è onnipresente l'invito a comprare: "privw"[10], che si tratti di carbone, di aceto o di olio[11] ( vv. 34-36). 
Ecco dunque un altro male deleterio dell’amore oltre la guerra: il consumismo e il mercato che uccide gli affetti. Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich in L'uomo senza qualità: "Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800). 

Qualche anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare. 
"In Apollonio e in Catullo era presenteEneide ci mostra come egli utilizzi e fondi suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea"[12]. Veramente il nesso Giasone-Enea, individuato come seduttore, lo denuncia Ovidio: nell’Ars amatoria il poeta peligno mette il fallax Iason (Ars, III, 33), l’ingannevole Giasone, al primo posto nel terzetto dei  seduttori perfidi: gli altri due sono Teseo[13] e quel “sant’ uomo” del pius Aeneas: "Et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[14] / praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.

La personificazione del tormento amoroso dei mortali nel De rerum natura di Lucrezio è costituita da Tizio: "Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem / quem volucres lacerant atque exest anxius angor" (III, 992-993), ma Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno divora. "La pena di Tizio - il gigante ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso dagli avvoltoi - è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa passione amorosa, la cupido"[15]. 
Ma i versi più dolorosi sull'amore sono quelli dove il termine vulnus, ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga, un ulcus  che potrebbe diventare mortale se non curato: "Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo / inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit, / si non prima novis conturbes vulnera plagis / vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures / aut alio possis animi traducere motus" (De rerum natura, IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non  curi prima, vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.
Il linguaggio erotico lucreziano oscilla tra il tovpo" dell'amore-ferita (il peggiorativo e prosastico ulcus  sostituisce il nobile ed epico vulnus ; cfr. vv. 1048-1055) e il tovpo" dell'amore-follia"[16].

Per quanto riguarda l’amore follia si può ricordare a questo punto il terzo stasimo dell’Antigone di Sofocle, vv. 781-790. Strofe:
"Eros invincibile in battaglia, / Eros che sulle ricchezze ti abbatti, / che nelle morbide guance / della fanciulla trascorri la notte, / vai e vieni tanto sul mare quanto / nelle agresti dimore: / e degli immortali nessuno ti sfugge / né degli uomini effimeri; / ma chi ti possiede è impazzito"
vv. 791-800. Antistrofe:
"Tu anche dei giusti le non più giuste / menti trascini alla rovina: / tu anche questa contesa consanguinea/di uomini hai scatenato; / e vince il desiderio vivace / degli occhi della fidanzata bella nel letto / e siede accanto nella gestione delle grandi / leggi: ineluttabile infatti / gioca la dea Afrodite".

Nel IV libro dell’Eneide Didone “s’ancise amorosa”[17], ma già nelle opere precedenti  Virgilio fa bruciare, soffrire e lottare per amore non solo gli uomini e le donne, ma anche gli animali che sono omologati agli umani nel patimento erotico.
Fanno eccezione le api le quali hanno un costume che desta meraviglia in quanto non si concedono all'accoppiamento né sciolgono neghittose i corpi in Venere né  producono la prole con le doglie: "Quod neque concubitu[18] indulgent nec corpora segnis[19] / in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt" (Georgica IV , vv. 198-199).
Nella II ecloga di Virgilio, il pastore Coridone arde d'amore per il bell'Alessi ("Formosum pastor Corydon ardebat Alexin", 1), che non ha pietà di lui. Fin dalle Bucoliche  Virgilio è il poeta dell'amore infelice e luttuoso, il cantore della passione sulla quale si proietta un'ombra di morte: "O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas? / nihil nostri miserere? Mori me denique coges" (vv. 6-7), o crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi costringerai a morire, sospira l'innamorato ardente.
Coridone non ha tregua dall'ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[20]  perfino i ramarri, riposano al fresco: "Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant / Nunc viridis[21] etiam occultant spineta lacertos" (vv. 8-9), ora anche il bestiame cerca di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i verdi ramarri.
Alla fine della II bucolica, il tramonto raddoppia le ombre ma non concede pausa all'ardore di Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura: "…Trahit sua quemque voluptas... Et sol crescentes decedens duplicat umbras; / me tamen urit amor: quis enim modus adsit amori?" (v.65 e vv. 67-68). Chi è afferrato da Eros ignora la giusta misura siccome l'amore è follia: "A Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!", v. 69. 

Amor omnibus idem 
Nella Georgica III, che tratta l'allevamento del bestiame, la conflagrazione amorosa riguarda, oltre gli umani, anche gli animali: "Carpit enim vires paulatim uritque videndo / femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae / dulcibus illa quidem inlecebris et saepe superbos / cornibus[22] inter se subigit decernere amantis[23]" (v. 215-218) logora infatti le forze a poco a poco e li brucia guardandoli la femmina, e non lascia che si ricordino dei boschi né dell'erba, ma quella certo li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i fieri pretendenti a combattere con le corna.
Tale istinto è uguale per tutte le creature viventi: "Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque / et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres / in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem" (vv. 242-244) così ogni specie sulle terre di uomini e di animali, e la razza marina, il bestiame e gli uccelli colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo stesso per tutti.
Esso accresce la ferocia delle belve: "Tempore non alio catulorum oblita leaena / saevior erravit campis nec funera volgo / tam multa informes ursi stragemque dedere / per silvas; tum saevos aper, tum pessima tigris; / heu, male tum Libyae solis erratur in agris" (vv. 245-249), in nessun altro tempo, dimentica dei cuccioli, la leonessa ha errato più furiosa per le pianure, né tanti lutti e strage sparsero gli orsi orribili per le selve; allora il cinghiale è furioso, allora la tigre è più feroce che mai; ahi allora si vaga con rischio nei campi deserti della Libia.
Nella letteratura italiana,  Boccaccio, in un brano di chiara derivazione virgiliana, fa descrivere l'invasamento erotico e bellicoso degli animali dalla dea Venere che vuole convincere Fiammetta ad assecondare la sua passione amorosa e adulterina: "Ne' boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui[24] li tocca, per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari[25], divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i colli"[26].

Torniamo a Didone la quale, poco dopo avere visto Enea, è già "infelix pesti devota futurae" (Eneide, I, 712), disgraziata, consacrata alla rovina imminente: infatti dopo un altro po’ di tempo lo ama, spiritualmente e carnalmente, quindi muore suicida "misera ante diem" (IV, 697), infelice prima del tempo, maledicendo l’amante e i suoi discendenti.
L’amore spesso ferisce e brucia.
Nel Pervigilium Veneris[27] che celebra l'inizio della primavera e la potenza di Afrodite, Amore è in vacanza ("feriatus est amor", v. 31) perciò gli è stato ordinato di andare inerme, di andare nudo: "neu quid arcu, neu sagitta, neu quid igne laederet" (v. 33), per non ferire qualche creatura con l'arco, con la saetta, con il fuoco. Eppure, avverte l'autore, o l'autrice, "Nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est: / totus est in armis idem quando nudus est amor" (vv. 34-35), guardatevene o Ninfe, poiché Cupido è bello: ed è tutto armato anche quando è nudo Amore.
In Love’ s labour’s lost[28] di Shakespeare, lo spiritoso Berowne che era stato la frusta dell’amore (love’s whip), il fustigatore degli innamorati, si innamora di Rosaline e interpreta questa sua contraddizione come una punizione di Cupido: “It is a plague / That Cupid will impose for my neglect / Of his almight dreadful little might”(III, 1), è una peste che Cupido vuole infliggermi perché ho trascurato il suo onnipotente, tremendo, piccolo potere.

La pessima fama di Eros non è assente dalla prosa. Platone nella Repubblica rappresenta Sofocle come un vecchio[29] pentito del sesso: Cefalo riferisce di essere stato presente quando un tale  domandò al poeta di Colono: "pw'"... e[cei" pro;" tajfrodivsia; e[ti oi|ov" te ei\ gunaiki; suggivgnesqai;" come ti va nelle cose d'amore? sei ancora capace di congiungerti con una donna?
Quindi il tragediografo rispose: "eujfhvmei w\ a[nqrwpe: aJsmenevstata mevntoi aujto; ajpevfugon, w{sper luttw'ntav tina kai; a[grion despovthn ajpodrav"" (Repubblica , 329c), sta' zitto tu, infatti con grandissima gioia me ne sono liberato, come se fossi fuggito da un padrone furente e selvaggio.
La vecchiaia, commenta il padrone di casa, significa dunque un liberarsi da moltissimi tiranni numerosi e pazzi: "despotw'n pavnu pollw'n e[sti kai; mainomevnwn ajphllavcqai" (329d). Tra questi, in primis, Eros. 
Questo anatema di Sofocle viene ripetuto non senza compiacimento da Catone il Vecchio nel De senectute  di Cicerone: "Bene Sophocles, cum ex eo quidam iam affecto aetate quaereret utereturne rebus veneriis: 'Di meliora! inquit; libenter vero istinc sicut ab domino agresti ac furioso profugi'" (14), opportunamente Sofocle quando, già vecchio e fiaccato dagli anni, un tale gli chiedeva se facesse ancora del sesso, disse: dio ne scampi, volentieri invero sono scappato di lì come da un padrone selvaggio e furioso!
Nella stessa opera il piacere dei sensi in generale viene smontato: "Impedit enim consilium voluptas, rationi inimica est, mentis, ut ita dicam, praestringit oculos, nec habet ullum cum virtute commercium" (12), in effetti il piacere impedisce il giudizio, è nemico della ragione, abbaglia, per così dire, gli occhi della mente e non ha alcun rapporto con la virtù.
Di fatto ancora negli anni Cinquanta del Novecento la pretaglia delle parrocchie di Pesaro diceva ai ragazzini che se uno pensava troppo alle femmine umane, fino a “toccarsi”[30], diventava cieco, e non solo di mente. Tutta gente che non aveva più abbastanza corpo per soddisfare l'anima e si rifiutava di ammetterlo.
Il cristianesimo "diede a Eros del veleno da bere: egli non ne morì, ma degenerò in vizio"[31]. Non solo il cristianesimo che è "un platonismo per il popolo"[32].
Leopardi trova che l’essenza del Cristianesimo sia “il fare che l’esistenza non s’impieghi, non serva ad altro che a premunirsi contro l’esistenza: e… Il migliore, anzi l’unico vero e perfetto impiego dell’esistenza si è annullarla quanto è possibile all’ente… Il detto scopo dev’essere la nonesistenza. Assolutamente nell’idea caratteristica del Cristianesimo, l’esistenza ripugna e contraddice per sua natura a se stessa”[33].

Cerchiamo qualche spiegazione di questa congiura contro l’amore, quindi tentiamo una difesa dell'amore e del sesso. 
D. H. Lawrence[34] scrive: "C'è un desiderio incoffessato, implacabile, dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il mistero della bellezza.
tramonto a forma di cuore
foto di M. Roversi
(…) La scienza ha una misteriosa avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso… La sventura della nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[35]. Tutto ciò che è morboso è contro la vita.

Sentiamo una riflessione di Giacomo Casanova, personaggio di La recita di Bolzano:“Ma qual era dunque il morbo? Riflettè. Quindi, solo nella stanza, disse a voce alta: l’egoismo. Dietro ogni mal d’amore si udiva sempre la vocina stridula dell’egoismo, che cercava di salvare quanto poteva e pretendeva tutto ciò che un essere umano può pretendere da un altro, possibilmente senza dover offrire in cambio nulla di autentico e di sostanziale”[36].
Ricordo anche Marcela Serrano[37], una delle nuove voci della narrativa sudamericana: "Sai una cosa? Penso all'amore. Tutto, gira e rigira, ha a che vedere con questo sentimento così comune, fantastico, alienante, sopravvalutato, raro. Ho l'impressione che tutte quante, senza rendercene conto, siamo ferme davanti al nocciolo del dramma di questi tempi, uno dei dilemmi fondamentali di questa fine secolo: la mancanza di un punto d'incontro tra i due sessi… E' tutto molto moderno. Com'è frigida questa modernità… In tutto e per tutto frigida. Al giorno d'oggi il grande sconfitto è l'amore… Il sistema vuole escludere l'amore e il piacere. Allora bisogna abbattere il sistema, Floreana, come vecchi rivoluzionari"[38]. 
Wilhelm Reich considera il terrorismo sessuale inflitto ai bambini come un'arma che ammorba la vita erotica e nello stesso tempo annienta per sempre la loro indipendenza: "L'inibizione morale della sessualità naturale del bambino, la cui ultima tappa è una grave limitazione della sessualità genitale del bambino piccolo, rende quest'ultimo pauroso, timido, timoroso dell'autorità, ubbidiente, 'buono' ed 'educabile' in senso autoritario: l'inibizione morale paralizza, perché ormai ogni impulso libero e vivo è affetto da grave paura e provoca, attraverso la proibizione del pensiero sessuale, una generale inibizione del pensiero e una incapacità critica; in breve il suo obiettivo è la creazione di un suddito che si adatti all'ordine autoritario e lo subisca nonostante la miseria e l'umiliazione"[39]. 

Kritikov" deriva da krivnw, "giudico"; ebbene per giudicare ci vuole esperienza, altrimenti non si tratta di giudizio ma di pregiudizio: è il caso di Demea, il fratello all'antica, catoniano, degli Adelphoe di Terenzio, come viene interpretato da Micione, l'altro fratello, lo zio liberale, politicamente corretto si direbbe oggi: "Homine imperito numquam quicquam iniustiust, / qui nisi quod ipse fecit nil rectum putat" (vv. 98-99), Non c'è mai niente di più ingiusto di un uomo senza esperienza che considera tutto sbagliato tranne quello che ha fatto lui.
Non solo il cristianesimo istituzionalizzato dai Padri della Chiesa  si è adoperato per l'infibulazione mentale delle nostre donne e la castrazione spirituale di noi maschi.
Orwell in 1984 fa un discorso più ampio descrivendo un regime repressivo, tra l'altro, della libertà erotica poiché l'astinenza sessuale  produceva isterismo il quale " si poteva facilmente trasformare nell'infatuazione per la guerra e nell'adorazione dei capi… Il partito cercava con ogni mezzo di annullare l'istinto sessuale, ovvero, nel caso in cui non fosse riuscito ad annullarlo, di pervertirlo e insudiciarlo" (p. 70)
Ma c'è una ragazza, Jiulia, che comprende e si ribella facendo l'amore con gioia, e spiega: “Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo (...) Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate?"[40]. Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p.133). Il  protagonista del romanzo, Winston, vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito (...) un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice:"Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito?"[41].

La fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime. L'odio dell'amore si volge facilmente in amore per la guerra.
Infatti nella Lisistrata[42], che alla vigilia della prima guerra contro l’Iraq dei gruppi di femministe rappresentavano in alcune città americane, la protagonista afferma che se Eros glukuvqumo", delizioso, e Afrodite, spireranno desiderio sui seni e le cosce delle femmine e infonderanno nei maschi una piacevole tensione e turgore di clave (rJopalismouv" ), le donne un giorno tra i Greci saranno chiamate Lisimache (vv. 551-553), ossia dissolvitrici di battaglie. Del resto lo stesso nome parlante della protagonista eponima  significa "colei che dissolve l'esercito". Qui il discorso funziona a rovescio rispetto a quello di Orwell: nel suo romanzo gli umani vengono inibiti sessualmente perché vogliano fare la guerra; nella commedia antica i maschi devono smettere di fare la guerra, se vogliono fare l'amore con le loro donne. La parola d'ordine di Lisistrata è "bisogna astenersi dal bischero!"(v. 124). Una situazione che la guerra rende comunque necessaria: "monokoitu'men  dia; ta;" stratiav" " (v. 592), dormiamo sole a causa delle spedizioni militari, lamenta la stessa Lisistrata, la quale aggiunge che le donne vengono particolarmente penalizzate da queste assenze dovute alla guerra oramai ventennale, poiché per loro il tempo opportuno è breve (th'" de; gunaiko;" mikro;" oJ kairov", v. 596) : l'uomo quando torna, anche se è canuto, sposa una giovinetta, mentre l'attempata nessuno la vuole più, e resta seduta a fare pronostici (vv. 596-597).

La repressione sessuale è funzionale al potere, a qualsiasi potere: "Il padre primigenio vietava ai propri figli il soddisfacimento dei desideri sessuali diretti; li costrinse all'astinenza e perciò a quei legami emotivi con lui stesso e fra loro che potevano scaturire dagli impulsi la cui meta sessuale era inibita…Il capo della massa è ancor sempre il temuto padre primigenio, la massa continua a voler essere dominata da una violenza senza confini, è sempre sommamente avida di autorità, ha, secondo l'espressione di Le Bon, sete di sottomissione…Le pulsioni sessuali inibite nella meta hanno su quelle non inibite un grande vantaggio funzionale. Non essendo propriamente capaci di soddisfacimento completo, risultano particolarmente idonee a creare legami duraturi"[43].
Ora riferisco una riflessione di matrice freudiana ricavata da un film di Woody Allen, Crimes and Misdemeanors, Crimini e misfatti del 1989: "When we fall in love is a very strange paradox. The paradox consists of the fact that, when we fall in love, we are seeking to re-find all, or some, of the people to whom we were attached as children… On the other hand, we ask our beloved to correct all the wrongs that these early parents or siblings inflicted upon us. So the love contains in it the contradiction: the attempt to return to the past and the attempt to undo the past”, quando ci innamoriamo c’è un paradosso molto strano. Il paradosso consiste nel fatto che, quando ci innamoriamo, noi cerchiamo di ri-trovare tutte, o alcune delle persone alle quali eravamo attaccati da bambini… D’altra parte, noi chiediamo al nostro amato di correggere tutti i torti che quegli antichi genitori o fratelli ci hanno inflitto. Così l’amore contiene in esso la contraddizione: tra il tentativo di tornare al passato e il tentativo di disfare il passato.

“In tutte le religioni pessimistiche l’atto generativo viene sentito come per sé cattivo, ma questo non è in alcun modo un sentimento universalmente umano, e neanche in ciò il sentimento di tutti i pessimisti è identico. Empedocle, per esempio, non sa assolutamente nulla del vergognoso, del diabolico e del peccaminoso in tutte le cose erotiche; egli vede, al contrario, sul gran prato del male una sola apparizione piena di salute e di speranza, Afrodite; essa è per lui la garanzia che la contesa non dominerà in eterno, ma che un giorno consegnerà lo scettro a un più mite demone”[44].
Empedocle ricorda un aspetto canonico dell’età dell’oro: l’assenza di conflitti. Nel Poema lustrale (fr. 119) narra che gli uomini della primitiva età felice non avevano un Ares come dio, né il Tumulto della battaglia (“oujdev ti" h\n keivnoisin  [Are" qeo;" oujde; Kudoimov""), né Zeus, né Crono né Poseidone, ma solo Cipride regina (vv. 1-3). Inoltre non si bagnava l'altare con il sangue dei tori, ma si offriva mirra, incenso e miele, poiché per gli uomini era massima contaminazione (muvso~mevgiston, v. 9) divorare le membra staccandone l'anima (vv. 9-10).

In chiusura di scheda voglio mostrare una completa riabilitazione di Amore da tante calunnie attraverso alcune parole di Agatone nel Simposio  platonico: Eros è il più felice, il più bello e il più nobile fra tutti gli dèi. Ed è anche  il più giovane, sicché non derivano da Amore le mutilazioni dei tempi primordiali di cui parlano Esiodo e Parmenide, anzi, se ci fosse stato lui, non sarebbero avvenute quelle ejktomaiv, castrazioni vere e proprie, né incatenamenti reciproci, desmoi; ajllhvlwn, e molte altri prevaricazioni anche violente kai; a[lla polla; kai; bivaia (195c), ma solo amicizia e pace, come ai tempi nostri, da quando Amore regna tra i numi.  Inoltre egli è delicato: aJpalov" , tant'è vero che  cammina e si ferma sulle entità più tenere: infatti ha fondato la sua dimora nei caratteri e nelle anime degli dèi e degli uomini. Anzi ripudia le anime dure e rozze. Inoltre possiede tutte le virtù, compreso il coraggio: infatti neppure Ares tiene testa a Eros (196d) che viceversa tiene in pugno il dio della guerra. Che è poi quanto sosterrà anche l'inno a Venere di Lucrezio (De rerum natura, I, 29-40).
Sulla delicatezza di amore ritorna Shakespeare: “Love’s feeling is more soft and sensible-than are tender horns of cockled snails” (Love’s labour’s lost, IV, 3), il sentimento d’amore è più lieve e sensibile delle tenere antenne di chiocciole increspate.

Giovanni Ghiselli
g.ghiselli@tin.it 

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[1] Si pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo incatenato, tormentata da un assillo appunto (oi\stro~, v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi: “E subito l'aspetto e la mente furono / stravolti: divenni cornigera, come vedete, e punta / da un assillo dall'acuto morso, con salti furibondi / balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere / e alla fonte di Lerna: e il bovaro nato dalla terra / Argo violento nell'ira mi scortava / spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).  
[2] Cfr. Leopardi, Amore e morte, vv. 5-7. 
[3] Argonautiche, IV, vv. 445-449. 
[4] 1441 
[5] Dodds, The ancient concept of progress, p. 87. 
[6] Nel XIX Idillio di Teocrito Eros punto da un’ape si lamenta che una piccola bestia lo abbia ferito. Afrodite gli dice: “i{so~ ejssi; melivssai~”, sei uguale alle api; sei piccolo ma procuri grandi ferite. 
[7] Medea, p. 203. 
[8] "Me miserum aspicite et, si vitam puriter egi, / eripite hanc pestem perniciemque mihi" (76, 19-20), guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire, / strappatemi questa peste e rovina. 
[9] L’automobile è una vera e propria arma terroristica usata contro pedoni e ciclisti in primis, poi contro gli stessi automobilisti che si ammazzano a vicenda come i nati dalla terra e dai denti del drago seminati da Giasone nelle Argonautiche (3, 1372 sgg.). 
[10] Imperativo dell'aoristo III di privamai, "compro". 
[11] Aristofane, Acarnesi, vv. 34-36. 
[12] A. La Penna - C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia, p. 357. 
[13] Tanto perfido questo che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini 
[14] Spada lasciata da Enea (ensem relictumEneide, IV, 507)  e  impiegata  da Didone  per il suicidio: “non hos quaesitum munus in usus”, Eneide, IV, 647, dono richiesto non per questo uso. Didone conclude la VII Epistula scrivendo il proprio epitaffio: “Praebuit Aeneas et causam mortis et ensem; / ipsa sua Dido concidit usa manu” (Heroides, VII, 199-200), Enea offrì il motivo della morte e la spada; Didone morì da sola, uccisa dalla sua mano. 
[15] Lucrezio, La Natura Delle Cose, testo e commento di Ivano Dionigi, p. 320. 
[16] Lucrezio, La Natura Delle Cose, commento di I. Dionigi, p. 408. 
[17] Dante, Inferno, V, 61. 
[18] Concubitu:  forma di dativo che si trova anche nella prosa classica. 
[19] segnis = segnes con funzione predicativa. 
[20] Cfr. VII, Le Talisie , 22. 
[21] = virides. 
[22] In questi versi l'istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris. 
[23] = amantes. 
[24]Amore 
[25] Da confrontare con "tum pessima tigris " e "tum saevos aper" visti sopra (Georgica III , v. 248) 
[26] Elegia di Madonna Fiammetta, (del 343-1344) cap. 1. E' questa una lunga lettera che la protagonista scrive idealmente a tutte le donne innamorate. 
[27] La veglia di Venere, un carme anonimo, compreso nell'Anthologia latina, di novantatré versi (tetrametri trocaici catalettici), di età e attribuzione incerta, dal II secolo d. C., al IV, al VI; da Floro, a Tiberiano, a un'autrice anonima. 
[28] Del 1595. 
[29] La Repubblica di Platone è ambientata al Pireo, in casa del meteco Cefalo, padre di Lisia e Polemarco, nella primavera del 408 a. C. quando Sofocle (497-406 a. C.) aveva quasi novant'anni. L'episodio raccontato risalirà a qualche tempo prima. 
[30] Cfr Amarcord di Fellini 
[31] Nietzsche, Di là dal bene e dal male, trad. it. Mursia, Milano, 1977, p. 96. 
[32]Nietzsche, Di là dal bene e dal male, p. 26. 
[33] Zibaldone, 2384. 
[34] 1885-1930. 
[35] Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul desiderio, l'amore, il piacere, Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d'amore , pp. 427-428. 
[36] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 126 
[37] Nata a Santiago del Cile nel 1951. 
[38] Marcela Serrano, L'albergo delle donne tristi , pp. 75 , 168-169, 192.
[39] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 43. 
[40] G. Orwell, 1984, p. 142. 
[41] G. Orwell, 1984, p. 134. 
[42] Di Aristofane, del 411. 
[43] S. Freud, Psicologia delle masse, in Freud, Opere, vol 9, pp. 312, 315, 325. 
[44] Nietzsche, Umano troppo umano I, 141.