Matteo Marchesini,
Atti
mancati, Voland, Roma 2012
Ho letto il libro dell’autore durante un caldissimo
pomeriggio di luglio, senza interrompermi dato l’interesse che suscitava. I
suoi pregi sono lo stile accurato ed elevato, cioè dotato nello stesso tempo di
chiarezza e di eleganza. E’ una storia piena di sofferenza che si comunica a
chi la legge.
Ma non è un
pavqo~
fine a se stesso: è una
sofferenza che
porta alla comprensione, al
mavqo~,
secondo la splendida sintesi quasi ossimorica di Eschilo: “
tw/` pavqei mavqo~”
, attraverso la sofferenza, la
comprensione.
Dico quasi ossimorica poiché spesso la sofferenza rende
invece più stupidi e più cattivi.
Faccio un esempio tratto dalla letteratura, ma ne ho visti
tanti anche vivendo la mia vita variopinta.
In una novella di Pirandello (
Va bene) il protagonista è un uomo cui "i diuturni
dolori avevano quasi vestito la mente d'una scorza di stupidità". Costui,
dopo avere buttato dalla finestra la moglie infedele, fa una richiesta al
figlio malato:"figlio mio, questi occhiali… Strappameli dal naso, bello
mio… Così… Bravo! Ora non ti vedo più!".
Nel
presentare questo romanzo farò molte citazioni
per antologizzarlo fino alla carne viva e, per commentarlo, ricorrerò spesso
ai miei autori classici. Voglio aggiungerli ai
moderni che
vengono non poche volta
menzionati e talora citati da Marchesini secondo quel metodo che Eliot chiama
mitico e che serve a dare una forma e un significato a questo immenso panorama
di futilità e anarchia che è il mondo contemporaneo.
I capitolo
Il protagonista dunque, credo un alter ego dell’autore, nato
nel 1979,
si presenta così: “A un certo
punto, senza accorgertene, hai trentatrè anni. E non puoi nemmeno dire di non
aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi” (p. 9).
“In parte” dunque.
Questo giovane, Marco Molinari, è infatti un uomo dimidiato,
ossia realizzato a metà:
nel senso che
ha lasciato incompiuti
due tentativi
importanti: l’amore e un romanzo. Scrive articoli per più di un giornale, fa il
ghost writer e svolge altre attività
nel campo della parola, ma si sente in qualche modo inconcluso.
Mi viene in mente Guido Gozzano con la sua “trentina-
inquietante, torbida d’istinti- moribondi”
e con
il suo Totò Merumeni, ossia il punitore di se stesso, “tempra sdegnosa,/molto
cultura e gusto in opere d’inchiostro”
Una mattina, Molinari riceve l’incarico di andare a
intervistare
Bernardo Pagi, un
intellettuale e scrittore che gli aveva fatto da maestro.
Alla fine del primo capitolo, fa capolino l’
u{bri~, un termine chiave nella tragedia
greca, forse il sostantivo tragico per eccellenza,
una parola dunque che ci preannuncia la
tragicità di questo romanzo.
Credo che l’
u[bri~ di
questo giovane sia la reticenza.
Il romanzo è ambientato prevalentemente a Bologna, nella
Bologna dei giovani con aspirazioni o pretese intellettuali, degli studenti,
degli aspiranti artisti, insomma non la Bologna dei piccolo borghesi tranquilli,
quelli che la sera guardano la televisione.
“Esco nel freddo marzolino di via Castiglione” (p. 11)
II capitolo
L’io narrante ci dice che Bernardo Pagi , frequentato una
decina di anni prima, è stato per lui ventenne “qualcosa di assai simile al
maestro che al liceo e all’Università mi ero sempre rifiutato di avere” (p.
12).
Un maestro di misura, equilibrio, ironia, antiestremismo,
non senza “qualche radice mistica (Simone Weil)”.
Un poco alla volta Molinari
aveva preso Pagi come “una specie di guru a cui ispirarsi nella vita quotidiana”
(p. 13). Tuttavia il ragazzo utilizzava anche altri modelli, compresi
intellettuali estremisti alla Fortini.
C’era una bella differenza di età (30 anni) ma anche di
temperamento e pure di aspetto fisico:
snello e minuto, siccome inappetente l’attempato, corpulento, alto e
vorace il giovane.
Questo era stato paragonato dal maestro a “certi personaggi
di Dostoevskij” (p. 13). Quelli la cui vita secondo Bachtin, viene rappresentata in
situazioni eccezionali e abnormi, una vita che si svolge “sulla soglia”.
Dostoevskij non fu uno scrittore di ambienti casalinghi o
familiar :"Nel vieto spazio interno, lontano dalla soglia, gli uomini
vivono una vita biografica in un tempo biografico: nascono, passano l'infanzia
e la giovinezza, si sposano, generano figli, invecchiano, muoiono. Anche questo
tempo biografico è "saltato" da
Dostoevskij. Sulla soglia e sulla
piazza è possibile solo il
tempo delle crisi, in cui l'
istante si eguaglia agli anni, ai decenni, anche ai
"milioni di anni" (come nel
Sogno di un uomo ridicolo ).
Il protagonista del
romanzo di Marchesini dunque vive spesso questo "tempo della crisi",
sebbene non tanto drammaticamente quanto
Raskol’nikov.
Comunque, verso i 28
anni di Molinari, il maestro e l’allievo si erano allontanati, anche spazialmente,
forse per la difficoltà del giovane di risolvere il rapporto tra
Wille zur
Macht e aspirazioni artistiche (p. 14).
Questo concetto
nicciano torna spesso a significare credo, l’aspirazione del ragazzo, di
estrazione piccolo borghese, quasi campagnola, a inserirsi in posizione non
subordinata nell’alta borghesia bolognese intellettuale, o pseudo
intellettuale. L’amico alto borghese Ernesto “questi problemi non se li poneva
proprio” (p. 14) anche se ne aveva di ben più gravi.
Il maestro forse disapprovava il poligrafismo presenzialista
dell’allievo che a ventotto anni aveva avuto “l’ambigua fortuna” di riuscire a
campare scrivendo su due o tre giornali a partire dalla redazione bolognese del
“Corriere della Sera” (p. 15).
Marco dunque entra nella sala Farnese, dove Pagi viene
premiato con il Bolognino d’oro. L’alter ego di Marchesini
ha già confezionato l’incipit del pezzo
richiesto dal direttore del suo giornale.
III Capitolo
La cerimonia è solenne “tra assessori e membri del senato
accademico, tutti intabarrati e sonnolenti” (p. 16)
Pagi sorride a Molinari “ come se mi regalasse una
silenziosa battuta sulle pompose bestialità che senza dubbio stanno uscendo
dalla boccuzza tumida del primo cittadino” (p. 16)
Tra il pubblico c’è un altro personaggio importante del
libro e della vita di Marco: Lucia che diventa la deuteragonista del romanzo,
la vittima sacrificale della tragedia.
La ragazza viene
presentata come una persona inquietante fin dall’aspetto: Molinari nota qualche
cosa di strano, di deforme in questa giovane donna che era stata la sua
compagna ed era stata assai bella. “I lineamenti sono come esiliati dal suo centro”. Saprà e sapremo più avanti che Lucia ha un cancro.
Pagi fa un discorso ricordando gli intellettuali scomparsi
con i quali discuteva, anche polemicamente, nomi come Giacomo Debenedetti,
Paolo Volponi, Fortini, Pasolini (“un disastro riuscito”), Elsa Morante con “la
sua conversazione tirannica ma luminosa” (p. 18) L’ultima leva di intellettuali gli sembrano “troppo poco
inclini a fare confronti con le più legittime e forti tradizioni del Novecento”
(p. 19) Oggi prevale il luogo comune, il culto se vogliamo
storicistico del successo, e l’ansia di “buttarsi sul carro del vincitore” (p.
19), cioè sul romanzo.
Ma il romanzo di questi mestieranti non è “il condensato di
sapienza antropologica che ci hanno consegnato l’Ottocento e il primo
Novecento; non è più insomma un genere letterario… E' un genere editoriale” (p.
19).
Sentiamo come lo
genealogizza Nietzsche
“Il dialogo
platonico fu per così dire la barca in cui la poesia antica naufraga si salvò
con tutte le sue creature; stipate in uno stretto spazio e paurosamente
sottomesse all’unico timoniere Socrate, entrarono ora in un mondo nuovo…Realmente
Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte,
il modello del
romanzo, questo
si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la
poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico… Cioè
come
ancilla. Questa fu la nuova
posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressione del
demonico Socrate. Qui il
pensiero
filosofico cresce al di sopra dell’arte, costringendola ad abbarbicarsi
strettamente al tronco della dialettica. Nello schematismo logico si è chiusa
in un involucro la tendenza
apollinea:
così in Euripide abbiamo dovuto constatare qualcosa di corrispondente, e inoltre
una traduzione del
dionisiaco nella
passione naturalistica”
.
Bachtin individua un collegamento tra satira
menippea e romanzo, nella fattispecie quello di Dostoevskij. Il critico russo
menziona il
Satyricon di Petronio
e l’
Asino
d’oro di Apuleio
che sono
in effetti le opere più moderne, e tra le più belle della letteratura latina.
Io credo nella necessità della conoscenza della conoscenza
della tradizione letteraria per uno scrittore che non sia uno scribacchiatore o
uno scarabocchiatore. Oppure un nano che non è salito sulle spalle dei giganti
che ci hanno preceduto
.
Se lo scrivere egregiamente non è più richiesto a chi scrive, cresce sempre più “il divario tra essere e apparire” (
Atti mancati, p. 19) e sui bravi prevalgono i raccomandati, i mediaticamente abili e così via.
Concludo la presentazione di questo terzo capitolo ricordando Platone: l’apparenza talora violenta la verità dice Adimanto, fratello del filosofo citando Simonide: “
to; dokei`n kai; ta;n ajlavqeian bia`tai (
Repubblica, 365c). La verità, l’
ajlhvqeia che dovrebbe essere “non latenza”, viene invece continuamente occultata.
IV Capitolo
Marco e Lucia si trovano seduti all’ex bar di Azio che dopo
l’ictus del titolare si è degradato ad “anonima tavola calda per fuorisede”(20). Anche il bar partecipa della decadenza semantica e vitale
che investe un poco tutti in questa Bologna e in questa Italia.
Arriva Bernardo per un breve saluto perché deve andare al
mangiare con i pezzi grossi al Diana. Li saluta per tornare verso i cerimonieri
“che pendono dalle sue labbra come tanti e ottusi Wagner, tanti
famuli insomma. Servi, come il
famulus
attraverso il quale Goethe si burlava dell’illuminismo.
Marco ricorda le parole che Bernardo gli aveva detto quando
Lucia l’aveva lasciato: “Il massimo che ci è concesso è prendere da ognuno ciò
che ci fa stare bene per un po’. Solo per un po’” (p. 21) E’ una dichiarazione di
amor
fati, quello che nel capitolo seguente verrà definito “una specie di segreto
tao critico” (p. 31). Ma per accettare il destino, ossia se stesso, ci vuole
chiarezza e lucidità. Pagi aveva aggiunto: “Ripensa ai fatti. C’è qualcosa di
non chiaro, di non limpido. Forse riguarda te, non lei” (p. 22).
I due amanti avevano delle discrepanze di carattere:
iperattiva lei, pigro, passivo, chiuso in se stesso lui. Fatto sta che Lucia a un tratto l’aveva lasciato e aveva
lasciato Bologna.
I due tengono un dialogo difficile, sospettoso, reticente. Lei ha rinunciato a precedenti ambizioni accademiche e
lavora a Roma, a Trastevere per la fondazione di una ricchissima fotografa. Ma c’è qualcosa di inautentico nel loro parlare, o di non
detto:
“'Sei dimagrita un po’ troppo mi sembra’. Lei ha alzato di
nuovo le spalle” (p, 23)
Viene nominato Ernesto, un fantasma, tra loro due. Lucia ha
addosso qualche cosa di stanco,
una
spossatezza che la deforma: “E' come se quei tratti si fossero ridisposti
secondo un disegno respingente” (p. 24). E’ la deformazione della brutta malattia. Lucia parla di Ernesto, l’amico morto, il convitato di
pietra.
La ragazza fa un confronto tra i due: Ernesto era più bravo
a parlare, Marco a scrivere. Poi chiede del romanzo.
“Sta là impaludato” (p. 25) risponde lui.
Lucia continua con i ricordi ma il suo fisico mostra che qualche
cosa non funziona. Marco cerca di “troncare e sopire” con una battuta
insignificante. Poi i due si separano.
Lei gli manda un sms per un appuntamento, due giorni dopo, a Porta
Saragozza (p. 27).
V Capitolo
Molinari riprende in mano il romanzo che non funziona come
lui vorrebbe. L’ispirazione vera è leggibile solo in controluce, in filigrana,
sotto quella pubblica che interferisce. E’ come la scrittura più antica di un
palinsesto o “come un affresco semicancellato sotto una mano di biacca” (p. 28).
La perdita dell’amico Ernesto e dell’amante Lucia lo avevano
messo su una falsa pista (p. 29).
Nel romanzo c’è la famiglia del protagonista, c’è “il mito
del progresso indefinito”, c’è “l’opulenta Emilia rossa che si sfalda insieme
a questo mito come un piccolo impero asburgico” (p. 29). Molinari ha escluso lenocini narrativi temendo di
cadere in uno storicismo da alcova (p. 30), ma del resto non è riuscito a
raffigurare personaggi interi, a illuminare dall’interno una situazione storica
perché non ha capito le quintessenze, non ha trovato il bandolo. Tutto rimane
come poco caratterizzato per “mancanza di fede”.
Mancanza di fede significa letteratura alessandrina, da
erudito, da bibliotecario , quindi mancanza di passioni, di contenuti politici.
Segue un ritratto di Ernesto, l’amico scomparso in un
incidente d’auto. Questo giovane morto ante diem
incarna lo stile dell’aristocratico europeo
caratterizzato dall’
ajmevleia,
dalla
sui neglegentia
dalla sprezzatura:
“In Ernesto invece la sobrietà era il frutto naturale di
un’aristocrazia della ricchezza e della bellezza. Qui il segno meno, il segno
dell’inazione, riguardava tutto ciò che non aveva dovuto conquistarsi con le
unghie, tutta la cultura respirata in famiglia e dunque mai presa troppo sul
serio, tutto il tempo che non aveva mai avuto l’ansia di capitalizzare con la
mia furia piccolo-borghese. Ernesto, o della normalità. La normalità altoborghese
di Bologna, intendo. Una normalità fatta dell’assoluta assenza di ossessioni,
cioè dell’assenza di pane quotidiano” (p. 31).
Dopo due secoli abbondanti di predominio, l’alta borghesia
si è impossessata anche dello stile dell’aristocrazia. Ernesto Mengoli “sapeva fare tutto discretamente, senza
strafare mai: dal calcetto alla politica universitaria, dal naturismo ai
cultural studies, non c’era niente che non evidenziasse la sua disinvolta
medierà” (31). "Viene in mente
Saint-Loup dei Guermantes che appariva di un'eleganza " libera e
trascurata"
.
Ernesto è un amico, un condiscepolo di Marco quale allievo di
Pagi, e, sotto sotto, un rivale: i due giovani erano stati in qualche modi i
Jules e Jim di Lucia (p. 32). La ragazza poi aveva scelto Molinari che ne era
rimasto stupito. Lucia all’epoca era bella assai, eppure Marco non temeva di
perderla: “perché non sapevo ancora cosa fosse il dolore, la perdita, il
puntiglio trasformato in un’idea fissa” (p. 33). Di nuovo il
tw`/ pavqei mavqo~. Lucia era attirata proprio dalla “distrazione o incoscienza”
di Marco e da un proprio stato “di presunta soggezione intellettuale” che
voleva subire e nello stesso tempo distruggere. La ragazza era incline “ad
attaccarsi a tutto ciò che non le risultava subito classificabile, smontabile
nei suoi banali elementi primi; ad appropriarsene con tenacia silenziosa, e
quindi a svalutarlo” (p. 33).
E’ uno dei
tovpoi
dell’amore e dell’interesse umano:
Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor
. (Ovidio,
Amores,
2, 20, 36) evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
Riferisco solo un
paio tra le altre numerosissime occorrenze:
Nella commedia
La
locandiera (del 1753), Goldoni fa dire alla protagonista,
Mirandolina, in un monologo."Quei che mi
corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Sentiamo ancora
Proust che esprime lo stesso
concetto:"Qualsiasi essere amato-anzi, in una certa misura, qualsiasi
essere-è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci
attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"
.
Lucia apparteneva alla stessa Bologna di Ernesto con un
codice di comportamento abbastanza uniforme per questa classe sociale. Lo
riconosco per avere insegnato molto a lungo, 28 anni latino e greco ossia le
materie caratterizzanti, nel liceo Galvani di via Castiglione appunto. Lo stile di
quell’ambiente
oscilla tra la
neglegentia
di cui ho scritto sopra, e il suo contrario, l’affettazione
,
o
addirittura lo snobismo
,
ossia la maleducazione. Con atteggiamenti non ricchi di calore umano, talora
perfino poveri di umanità.
“Lucia si era costruita un personaggio stilizzato
impermeabile a qualunque sbavatura, coerente come un fumetto” (p. 34). Questo
indossare sempre una maschera che a poco a poco risucchia e annulla
l’interiorità può essere molto nocivo per la salute. Molte persone che
gravitavano sul Galvani non stavano bene.
La mancanza di calore umano può fare male a chi vi rinuncia,
ho pensato prima di leggere questo romanzo.
Marco Molinari non apparteneva a quell’ambiente. La sua
estrazione era piccolo borghese e catto-comunista.
Le sue origini gli erano “motivo di sottile vergogna e di
contemporaneo orgoglio” (p. 35). Quando ero giovane, nel ’68, una dei luoghi
comuni dell’epoca era “vivo la mia contraddizione”. Credo che essere “segni di
contraddizione” da parte degli altri, come Cristo, sia buona cosa, ma penso
pure che le contraddizioni a noi interne
dobbiamo risolverle. La morte di questi due amici della Bologna bene, paradossalmente,
aiuterà Marco a farlo.
Giovanni Ghiselli