NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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lunedì 30 settembre 2013

La sapienza Silenica

Giuseppe Ducrot, Sileno


 
Parte della lezione che terrò a Pesaro il 9 ottobre alle 18, 30 in viale Trieste 196 (Università dell’età libera)

E’ la triste saggezza del Sileno per il quale non essere nati, o morire appena nati, è meglio che vivere.
Nietzsche in La nascita della tragedia si sofferma su tale aspirazione all'annientamento e la considera caratteristica del greco primitivo che soggiace al terrore dei mostri, all'avvoltoio di Prometeo, al destino spaventoso di Edipo, al matricidio di Oreste, finché non trova la giustificazione estetica dell'esistenza, e l'individuazione positiva, nell'Apollineo che, in termini artistici, è la bellezza e la chiarezza delle immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e psicologici, è il rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo olimpico:
“L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto’… Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo della bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli"[1].

Anche nell'arte figurativa l'apollineo ha un'espressione sicura: si vede con chiarezza nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia[2], dove Febo si erge al di sopra delle passioni malsane e violente, dominando l'ignobile zuffa dei Lapiti e dei Centauri bimembri, e indicando con gesto sicuro la sua misura santa. E pure la nostra vicenda individuale si travaglia in questo conflitto perpetuo tra il caos degli istinti scatenati e il cosmo dei sentimenti forti, e pure delicati, e  costruttivi, siccome inseriti nell'equilibrio governato dalla ragione.
Negli autori classici troviamo varie espressioni della triste saggezza del Sileno: partiamo da Erodoto, il quale narra la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per ricompensare della loro devozione, fece morire ventenni  mostrando come per l'uomo sia meglio essere morto che vivere (dievdexev te ejn touvtoisi oJ qeo;ς wJς a[meinon ei[h ajnqrwvpw/ teqnavnai h] zwvein, I, 31, 3).
Nel quinto libro lo storiografo di Alicarnasso narra lo strano costume  dei Trausi che compiangono il neonato e seppelliscono il morto con manifestazioni di gioia: "Sedendo attorno al neonato i parenti piangono... Enumerando tutte le sofferenze umane; invece scherzando con gioia mettono sotto terra (paivzontev" te kai; hJdovmenoi gh'/ kruvptousi) il morto, spiegando che si trova in completa felicità, liberato da tanti mali"(V, 4, 2).
Traccia di questo uso anomalo si trova in Verga: durante al visita dei compaesani alla casa del nespolo che si era riempita di gente, Don Silvestro fece una battuta: “E tutti si tenevano la pancia dalle risate, ché il proverbio dice: “Né visita di morto senza riso, né sposalizio senza pianto”[3].
Un terzo momento silenico nelle Storie di Erodoto  è quello in cui Serse, invadendo la Grecia, vede l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ  Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou'to ejdavkruse)  per compassione al pensiero di quanto è breve tutta la vita umana: “wJ~ bracu;~ ei[h oJ pa'~ ajnqrwvpino~ bivo~, eij touvtwn ge ejovntwn tosouvtwn oujdei;~ ej~ eJkatosto;n e[to~ perievstai” (VII 46,2), dal momento che di questi che sno tanti nessuno sopravviverà al centesimo anno. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo ("ou{tw" oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46, 4).   

La medesima idea del resto viene espressa  da diversi altri autori. Facciamone una scelta.
Ricordo Teognide il quale deplora una forma di decadenza tumultuosa e caotica che è ciclica evidentemente poiché se ne duole anche Dante: "La gente nova e' subiti guadagni, / orgoglio e dismisura han generata/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni"[4].
Si parva licet componere magnis [5], non pochi opinionisti dei nostri giorni elevano lamenti simili a questo teognidèo: "ajllhvlou" d j ajpatw'sin ejp j ajllhvloisi gelw'nte" / ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t j ajgaqw'n" (Silloge , vv.59-60), si ingannano a vicenda, deridendosi a vicenda, senza criterio del bene e del male. Per la ricaduta nell'oggi, cito, quasi a caso: "Ma come si potrà governare questo meccanismo infernale tenendo i ladri, i corrotti e i corruttori al loro posto? Andate in luogo pubblico, parco, piazza, fiume, mare, montagna il giorno dopo un raduno di cittadini. Questi selvaggi che sporcano e avvelenano tutto...[6]" e così via.
In tale squallore di rapporti umani la conclusione di Teognide è silenica: "La cosa migliore di tutte per quanti vivono sulla terra è non essere nato (mh; fu'nai) / e non vedere i raggi del sole abbagliante, / ma una volta nati, al più presto varcare le porte dell'Ade, / e giacere sepolto sotto gran massa di terra" (Silloge , vv. 425-428).
L'espressione "mh; fu'nai" è usata anche da  Bacchilide che, nell'Epinicio V, fa dire al gagliardo Eracle, uno capace di bonificare la terra dai mostri: "La cosa migliore per i mortali è non essere nati / e non vedere la luce / del sole"(vv.160-162).
Statue di Cleobi e Bitone presso il tempio di Delfi

Sofocle nel suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al coro: "Non essere nati (mh; fu'nai) supera / tutte le condizioni, poi, una volta apparsi, / tornare al più presto là / donde si venne, / è certo il secondo bene. / Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù / che porta follie leggere, / quale travagliosa disfatta resta fuori? / Quale degli affanni non c'è? / Invidia, discordie, contesa, battaglie, / e uccisioni; e sopraggiunge estrema / l'esecrata vecchiaia impotente, / asociale, priva di amici / dove convivono tutti i mali dei mali" (vv.1224-1238). Anche nelle Trachinie  si trova qualche cosa di silenico: Eracle credeva di stare bene, da vivo, in seguito alla liberazione dai travagli che i sacerdoti di Dodona gli avevano predetto, ma non aveva compreso che liberarsi dai mali significa, dopo tutto, morire: "toi'" ga;r qanou'si movcqo" ouj prosgivgnetai" (v. 1173), sui morti infatti non sopraggiunge fatica.

Né manca una riflessione silenica nell'Edipo re il cui quarto Stasimo si apre con questo lamento: "ijw; geneai; brotw'n, / wJ" uJma'" i[sa kai; to; mh / de;n zwvsa" ejnariqmw'" (vv. 1186-1188), Oh generazioni dei mortali / come vi conto uguali al nulla / finché siete vive!
 Questi versi d'altra parte non rappresentano la somma della visione di Sofocle il quale  rimane il poeta della misura: quella delfica del "nulla di troppo" e del "conosci te stesso" ossia , per utilizzare Freud, dell'ingrandimento dell'Io a spese dell'Es, che va bonificato al pari di una palude[7].
Il "sacrilego" Euripide nell'Alcesti fa scattare incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui: "zhlw' fqimevnou", keivnwn e[ramai, / kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein" (vv.865-867), invidio i morti , quelli amo, quelle dimore desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni malignità a Euripide, sostiene, malignamente,  che la resipiscenza di Admeto è fasulla:" Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini piangono, che  lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo"[8].
 L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) espressa da Admeto è silenicamente manifestata anche da Leopardi: "In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei... Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[9].
Il poeta di Recanati, nella Storia del genere umano , non manca di ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie sileniche: "Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll'estinto".
Del resto F. De Sanctis ci fece notare che "Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto"[10]. In effetti nel Dialogo di Plotino e di Porfirio  troviamo un rifiuto del suicidio che è di fatto un dire di sì alla vita: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie".
Questo non toglie che Leopardi senta la vita come male e che anzi tale dolore si possa attenuare attraverso il non sentire la vita: "E un individuo...allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica... Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl'istanti che precedono la morte"[11].
Leopardi usa la massima monostica, e vagamente silenica "o{n oiJ qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei nevo" (fr. 583 Jäkel) di Menandro, definito "principe" della commedia nuova nello Zibaldone (3487). La gnwvmh fa da  epigrafe al Canto Amore e Morte  in questa traduzione:
"Muor giovane colui ch'al cielo è caro".

Non possiamo mancare di fornire a quanti sanno di latino qualche formulazione silenica nella lingua di Roma antica: Lucrezio compiange la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre vagito: "Vagituque locum lugubri complet "[12].
Cicerone ci racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale catturato da Mida,  e poi liberato dal re, non un poveraccio dunque ma un uomo  ricco e potente come Creso, gli diede questo insegnamento: "Non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[13], non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto .
Seneca, per consolare Marzia   che ha perso un figlio ventenne enumera le difficoltà della vita umana, insidiosa e fallace al punto che nessuno l'accetterebbe se non fosse data all'insaputa, e conclude: "Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui"[14], pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, tornare al più presto all'integrità originaria.
Petronio  nel  Satyricon:  dove, se si fanno bene i conti, il naufragio è dappertutto[15] "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est" (115, 17), attribuisce il desiderio di morire alla Sibilla: "Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent - Sivbulla tiv qevlei"; - respondebat illa - ajpoqanei'n qevlw"(48, 8), infatti la Sibilla di certo a Cuma vidi io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli: ‘Sibilla, cosa vuoi?’, rispondeva lei: ‘Morire voglio’".
La profetessa vuole morire poiché la terra è sconciata dall'empietà, dall'impotenza e dalla sterilità: "Itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44, 18), così gli dèi hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I campi giacciono nell'abbandono.
E più avanti(129, 6): "Adulescens, paralysin cave ", giovane, guardati dalla paralisi.
The Waste Land  di T. S. Eliot,  che ripropone molti di questi temi,  utilizza come epigrafe il cupio dissolvi della Sibilla di Petronio: nella terra desolata del Novecento le donne prendono pillole per abortire: "It's them pills I took to bring it off, she said" (v.159); la natura è inquinata: il fiume trasuda olio e catrame (vv.266-267), e non c'è neppure silenzio tra i monti ("There is not even silence in the mountains", v.341). Nei rapporti sessuali, leggiamo in uno dei Poems del 1920[16], manca il desiderio: "Burbank crossed a little bridge / descending at a small hotel; / Princess Volupine arrived, / they were together, and he fell" (vv. 1-4), Burbank attraversò un piccolo ponte per scendere a un hotel da poco; arrivò la principessa Volupine, rimasero insieme e lui cadde.
Infine torniamo, con una specie composizione anulare,  alla Nascita della tragedia: Nietzsche vede “quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza del Sileno"[17] rappresentati nella Trasfigurazione di Raffaello rispettivamente da Cristo che ascende in cielo, e dalla "metà inferiore... Col fanciullo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli". Cristo-Apollo è la "divinizzazione del principium individuationis ... con gesti solenni egli ci mostra, come tutto il mondo dell’affanno sia necessario,  perché da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice... Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la conoscenza di sé. E così accanto alla necessità estetica della bellezza, si fa valere l'esigenza del: "Conosci te stesso" e del: "non  troppo!", mentre l’esaltazione di sé di sé e l'eccesso furono considerati i veri dèmoni ostili della sfera non-apollinea, quindi qualità dell'epoca pre-apollinea, dell'età titanica, e del mondo extra-apollineo, cioè del mondo barbaro"[18]. In conclusione, Edipo, come Prometeo, Creso, e tanti altri, sono portatori di quella dismisura non apollinea che provoca il desiderio di morte: "A causa del suo amore titanico per gli uomini Prometeo dovette essere lacerato dagli avvoltoi; per la sua eccessiva saggezza, che sciolse l’enigma della Sfinge, Edipo dovette precipitare in un travolgente vortice di atrocità: così il dio delfico interpretava il passato greco".
La misura apollinea e omerica dunque costituisce un antidoto a tale pessimismo: Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi qavnaton ge parauvda, Odissea , XI, 488) poiché sarebbe disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che dominare su tutte le ombre svigorite del regno dei morti.

Vediamo quindi  il rovesciamento della sapienza silenica:
Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte "Non consolarmi della morte, splendido Odisseo. / Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro, / presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere, / piuttosto che regnare su tutti i morti consunti" (Odissea , XI, 488-491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[19], Od. XI, 489)"[20].
Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga; r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405-408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[21].
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec… (14 Ottobre 1828)”[22].
Vediamo anche una formulazione dostoevskijana di questa sapienza antisilenica: “Dove ho mai letto - pensò Raskolnikov proseguendo il cammino - dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco” aggiunse subito dopo”[23].

Giovanni Ghiselli

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[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 31 e 32.
[2] 471-456 a. C.
[3] I Malavoglia, p. 87.
[4] Inferno , XVI, 73-75.
[5] Virgilio, Georgica IV, 176, se è consentito rapportare il piccolo al grande.
[6] Giorgio Bocca, in Il Venerdi di Repubblica  del 26 settembre 1997, p. 38.
[7] Freud (Scomposizione della personalità, in Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1979,  vol. XI, p.188 e sgg.) scrive: "Rafforzare l'Io rendendolo più indipendente dal Super Io, ampliare così il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es, è il compito della psicoanalisi: dove era l'Es deve subentrare l'Io. E' un'opera di civiltà, come, ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee".
[8] Mangiare Dio , p. 127.
[9] Dialogo di Tristano e di un amico .
[10] Saggi critici , vol. II, Laterza, Bari, 1965, p. 184.
[11] Zibaldone , 3848.
[12] De rerum natura , V, 225.
[13] Tusculanae  I, 48.
[14] Consolatio ad Marciam ,  22.
[15] "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est", (115, 17)
[16] “Burbank with a Baedeker, Bleinstein with a cigar”.
[17] La nascita della tragedia, p. 36.
[18] La nascita della tragedia, p. 37.
[19]  Infinito atematico con desinenza  -men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che   significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes  era il fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo, p. 39).
[20] F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
[21] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, 2003, p.p. 17-18,
[22] Zibaldone, 4399.
[23] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

venerdì 27 settembre 2013

Il letto è il mobile più importante della casa

Bekim Fehmiu (Ulisse) con Irene Papas (Penelope)
nelle ultime scene dello sceneggiato L'Odissea

Nel XXIII canto dell’Odissea, Penelope aspetta un segno sicuro per potersi fidare del tutto dell’uomo che dice di essere suo marito, tornato a casa dopo venti anni.
Il segno è dato dal letto[1].

Tra Odisseo e Penelope il segno certo (shvmat' ajrifradeva, Odissea , XXIII, 225) di riconoscimento non è, come è avvenuto Euriclea, la cicatrice[2], ma il letto costruito dall'uomo.
“Quel letto compatto, “solidamente fissato nel suolo”, con le radici profondamente immerse nella terra, immobile, irremovibile, sottratto a qualsiasi mutamento e cambiamento, è il centro della sua vita e del poema che il “secondo Omero” gli ha dedicato. Il letto racchiude tutti gli aspetti dell’esistenza di Ulisse: il rapporto religioso con Atena, perché egli l’ha lavorato nell’ulivo; l’identità, l’ostinata irremovibilità del carattere; ricorda il matrimonio con Penelope, la fecondità della moglie, la casa cresciutagli intorno, il suo potere di re; fonda natura e cultura, le radici ancora vive e l’opera delle sue mani artigiane. Il letto è il “grande segno” segreto, che soltanto lui, Penelope e un’ancella conoscono. Forse è sfuggito persino agli dèi mascherati che spiano le sue vicende. Ulisse aveva conosciuto un altro centro, Ogigia, l’ombelico del mare, il centro del mondo mitico. Il letto di ulivo è l’ombelico della realtà: lui aveva preferito una volta per sempre il mondo reale, dove si soffre e si muore, a quello mitico dove non si soffre e non si muore… Ora, mentre marito e moglie stanno finalmente per abbracciarsi, Ulisse descrive con un piacere minuzioso come, più di vent’anni prima, aveva costruito il letto. Anche qui, la tensione narrativa viene rallentata. Ulisse descrive, in primo luogo a se stesso, l’oggetto fondamentale della sua vita, che teme perduto per sempre. Mentre lo descrive, il furore si quieta. Con quale piacere racconta il suo capolavoro di artigianato: come costruì la stanza da letto attorno a un ulivo rigoglioso: la coprì con un tetto, vi appose una porta, recise i rami dell’ulivo, sgrossò il tronco, lo piallò, lo fece diritto col filo, traforò il legno col trapano, piallò il letto, lo placcò d’oro, d’argento e d’avorio, vi tese le cinghie del bue… Con questo letto così amorosamente lavorato, ha inizio la corona di oggetti privilegiati attorno ai quali si svolge la cultura occidentale: la ciotola di Robinson, il profumo di Baudelaire, le marmellate di Tolstoj, la madeleine di Proust, la seggiola di van Gogh; oggetti stabili, “solidamente fissati nel suolo”, ai quali abbiamo donato il nostro cuore. Appena Ulisse rivela il “grande segno”, le ginocchia e il cuore di Penelope si sciolgono, come accade nell’amore, nel sonno e nella morte. Il letto costruito nell’ulivo è il segno sicuro, del quale può fidarsi”[3].

Vediamo dunque altri testi che santificano, o maledicono, il letto, comunque lo considerano un luogo cruciale:
Apollo nelle Eumenidi di Eschilo sentenzia che il letto fatale, per l'uomo e la donna, è più potente del giuramento, siccome sorvegliato dalla giustizia: "eujnh; ga;r ajndri; kai; gunaiki; movrsimo"-o{rkou 'sti; meivzwn th'/ divkh/ frouroumevnh" ( vv. 217-218).
Nelle tragedie di Euripide, particolarmente nell'Alcesti e nella Medea,. il letto è il locus sacer della casa: "nella casa di Alcesti e di Admeto, come nel loro dramma, è il letto il mobile più importante"[4]. Nell'Alcesti, la sposa che muore per salvare il marito si commuove soprattutto davanti al letto: "Poi, gettatasi nel talamo (qavlamon) e sul letto (levco")/ qui scoppiò a piangere e disse così: / o letto (levktron) dove io ebbi sciolta la verginità / da quest'uomo per il quale muoio / addio: infatti non ti odio, poiché tu hai mandato in rovina me / sola: io muoio non volendo tradire te e / lo sposo. Un' altra donna ti possederà, / più casta no, più fortunata forse"(vv.175-182)[5]. Alcesti procede gettandosi sopra il letto e baciandolo (kunei' de; prospivtnousa , pa'n de; devmnion, v. 183.).
Un gesto, un topos gestuale, ripetuto da Didone morente: “Dixit et os impressa toro: Moriemur inultae, / sed moriamur – ait - sic iuvat ire sub umbras (Eneide, IV, vv. 659-660), disse, e, premuta la bocca sul letto, “Moriremo non vendicate, ma dobbiamo morire – disse - così mi va di scendere tra le ombre.
Il letto o la camera nuziale è anche il luogo dove alcune eroine si danno la morte. 
"Deianira[6] vi si precipita come Giocasta[7], Alcesti[8] vi ha versato le sue ultime lacrime prima di affrontare Thanatos e, uscita dalla reggia per morire, sarà ancora verso questo luogo che volgerà i suoi pensieri e i suoi rimpianti… Però, se il thàlamos è nel profondo della dimora, c'è ancora, all'interno del thàlamos, il letto, lékhos, luogo di un piacere che l'istituzione del matrimonio tollera, se è moderato, ma soprattutto luogo della procreazione. E ogni morte femminile passa attraverso il letto: là, e là soltanto. Deianira e Giocasta possono ripetere a se stesse la propria  identità prima di uccidersi[9]. E' proprio là che Deianira muore, in quel letto che essa aveva associato troppo ai piaceri della nymphē: si muore comunque nel proprio letto quando si è donne, anche se ci si uccide come un uomo"[10].
Anche tra gli dèi dell'Olimpo il levktron è un mobile assai importante: infatti nell'Eracle di Euripide, l'eroe dorico critica i numi in generale ed Era in particolare la quale, gunaiko;" ou{neka levktrwn, per i letti di una donna, ossia di Alcmena, gelosa di Zeus, ha mandato in rovina i benefattori della Grecia che non erano in nessun modo colpevoli (vv. 1308-1310). Chi potrebbe pregare una dea del genere dunque?

Nella Medea di Euripide, il letto è un luogo di offesa e dolore.   
Il letto in questa tragedia è un luogo cruciale: già nel prologo il pedagogo dei bambini destinati a essere uccisi dalla madre attribuisce al talamo, a quello della nuova fidanzata, la pur non abbagliante Glauce, la disaffezione di Giasone per i figli della prima moglie.
Alla nutrice, che rileva come il padre si sia rivelato un infame (kakov" , v. 84) verso i figlioli, l'aio risponde con un'espressione di sfiducia generale che comunque vede nel letto il movente principale della malvagità del padrone: "Chi non lo è tra i mortali? Solo ora prendi coscienza di questo, / che ciascuno ama se stesso più del prossimo? / (alcuni magari a ragione, ma altri anche per lucro), / se questi bambini qui per un letto (eujnh'" ou{nek j) il padre non li ha cari?" (vv. 85-88).
Più avanti, nella Parodo, le donne corinzie del Coro domandano a Medea che ha manifestato propositi suicidi: "Quale brama puoi avere tu / del giaciglio orribile (ta'" ajplavtou / koivta" e[ro" ), o demente?!” (vv. 151-152).
Si tratta del letto della morte, un talamo d'amore alternativo a quello di Giasone, il  compagno di letto che ella comunque rimpiange (duromevna eujnavtan, v. 159), il traditore  nel letto, lo sposo infame (to;n ejn levcei prodovtan kakovnumfon, v. 206).
Nel Primo Episodio di questa tragedia la protagonista dice che l'offesa fatta alla femmina umana nel letto, ossia nella sfera sessuale, la rende sanguinaria: la donna, afferma Medea, nelle altre cose è piena di paura, e vile nella lotta e a vedere un'arma; ma quando si trova ad essere offesa nel letto (ej" eujnh;n hjdikhmevnh, v. 265; cfr. v. 26) non c'è altro cuore più sanguinario ( oujk  e[stin frh;n miaifonwtevra, v. 266).
Il "letto" delle donne è motivo di dolore anche alla fine del quinto Stasimo quando la Corifea ricorda un altro delitto di madre contro i propri figli: quello di Ino, la figlia di Cadmo fatta impazzire dagli déi (1283), in particolare dal risentimento di Era: "w\ gunaikw'n levco"[11]-poluvponon, o{sa brotoi'" e[rexa"[12] h[dh kakav" (Medea, vv. 1290-1292a) o letto delle donne pieno di affanni, quanti mali hai procurato già ai mortali!
Sull’argomento "talamo nuziale"  si può aggiungere che nella Medea anche la Divkh divina gravita intorno a questo mobile emblematico: infatti la Corifea nella Parodo chiede alla moglie tradita di non affilare l'ira contro Giasone se onora nuovi letti (kaina; levch ,v. 156), poiché ci penserà Zeus a renderle giustizia per l'offesa subita. Dunque l'abbandonata non deve struggersi troppo nel rimpiangere il compagno di letto (eujnavtan, v. 159).
Nella Medea i due termini eujnhv e levco~ si trovano riuniti in un verso: i due sinonimi si accumulano formando quasi l’impalcatura del delitto: “Dopo avermi generato dei figli , per un letto e un talamo matrimoniale, li hai uccisi (eujnh'" e{kati kai; levcou" ajpwvlesa")”, vv 1337-1338)  dice Giasone alla madre assassina.

L’Andromaca di Euripide sottolinea  un'altra caratteristica della mentalità femminile: la convinzione che l'amore sia tutto nella vita[13]; quando Andromaca domanda a Ermione: "Dunque tu non vuoi soffrire in silenzio per Cipride?", la ragazza risponde: "E perché? Questa per le donne non è assolutamente la prima cosa?" (vv. 240-241). 
Menelao cerca di aiutare la figlia a non perdere il marito: "Io sto dalla parte di mia figlia alleato della figlia, e faccio la guerra con lei: infatti giudico importante questo: essere privata del letto (levcou"[14] stevresqai). Gli altri dolori che una donna può soffrire sono secondari, ma quella che fallisce con il marito, fallisce nella vita" (vv.370-373). 
Più avanti la stessa Ermione denuncia la cattiva influenza delle donne sulle donne: "Mi hanno rovinata le visite delle donne cattive" (v. 930). La mettevano su contro Andromaca e la ragazza fu trascinata da un vento di follia ascoltando “i discorsi di queste Sirene[15] astute, maligne, variopinte, chiacchierone"( Andromaca, v. 937).
Bisogna dire che  le donne possono infuriarsi pure per l'offesa sessuale da loro stesse arrecata, nel letto o fuori dal letto: "Nihil est audacius illis / deprensis: iram atque animos a crimine sumunt”[16], non c’è niente di più sfrontato di quelle colte in flagrante: prendono rabbia e coraggio dalla colpa.
“Bisogna stare attenti con le donne. Sorprendile una volta con le mutande abbassate. Non te la perdonano più"[17].   
 Il letto della madre oltraggiata ricorre nella cagnara che scoppiò durante il banchetto nuziale tra Filippo di Macedonia e la ragazza Cleopatra.
La madre di Alessandro, Olimpiade metteva metteva su il figlio contro il padre. Era una donna connotata dalla durezza (calepovth~), gelosa e collerica  e sobillava il figlio (paroxunouvsh~ ton  j Alevxandron,  Plutarco, Vita di Alessandro, 9, 5).
Attalo, lo zio di Cleopatra, invitò i Macedoni a pregare gli dèi per un legittimo erede del regno; Alessandro gli gettò una coppa addosso chiedendogli se lui fosse un bastardo; Filippo si lanciò contro il figlio con la spada sguainata, ma scivolò e cadde. Allora il principe disse ironicamente: “Costui, signori, che si preparava a passare in Asia, si è ribaltato passando da un letto a un altro (ejpi; klivnhn ajpo; klivnh~ diabaivnwn ajnatetravptai, 9, 11)”.
Klivnh è il letto per dormire e anche il divano per desinare.

Anche l'uomo che aspira al potere del resto dà la massima importanza al letto: l'assassino deforme e  zoppicante, l'esecrabile tiranno segnato dal demonio (“stigmatic”), Riccardo duca di Gloucester, esulta per essersi insinuato nel favore di se stesso (“I am crept in favour with myself”) dopo che Lady Anne, bella donna ancora in gramaglie, della quale egli stesso ha ucciso marito e suocero, ha smesso di rifiutare la sua pretesa di essere adatto non all'inferno ma, viceversa, alla camera da letto di lei (“your bed chamber”).
Questo successo lo rende compiaciuto di sé, al punto che vuole comprarsi uno specchio e intanto chiede al sole, che gli è diventato simpatico, di brillare per poter ammirare la propria ombra mentre cammina: "Shine out, fair sun, till I have bought a glass, / That I may see my shadow as I pass" (Shakespeare, Richard  III [18], 1, 2).

Il letto secondo Mimnermo[19] è il mobile che nella vita umana sostiene l'unico motivo che la giustifichi: quello erotico: "Quale vita, quale piacere, senza l'aurea Afrodite? / Vorrei essere morto, una volta che non mi importi più di questi beni, / l'amore furtivo e i dolci doni e il letto (kruptadivh filovth" kai; meivlica dw'ra kai; eunhvv, v. 3): / che sono i soli fiori fugaci di giovinezza / per gli uomini e per le donne; poi quando sia giunta penosa / la vecchiaia che rende l'uomo turpe e insieme cattivo, / sempre cattivi affanni lo consumano nell'animo, / e non prova piacere neppure alla vista dei raggi del sole, / ma è odioso ai ragazzi, spregevole per le donne; / così tremenda  rese la vecchiaia un dio" (fr. 1D).
"In tutta la poesia greca arcaica il termine eunhv, al pari di levco", è impiegato metaforicamente per designare l'unione che vi si consuma… Dal lato della mitologia il letto è essenzialmente metafora dell'unione coniugale fra due giovani adulti… Solo Deucalione e Pirra, esseri primordiali, possono creare lontano dal lechos  la razza di pietra che è all'origine del genere umano"[20].
Guy de Maupassant in un suo divertente racconto erotico afferma l'importanza capitale del letto: "Tengo più al mio letto che a qualsiasi altra cosa. E' il santuario della vita. Gli affidiamo nuda la carne stanca, perché la rianimi e la riposi nel candore delle lenzuola e nel calduccio delle piume. E' là che troviamo le ore più dolci dell'esistenza, le ore dell'amore e del sonno. Il letto è sacro. Dobbiamo rispettarlo, venerarlo; amarlo come quanto abbiamo di migliore e di più dolce sulla terra"[21].
Oppure: “Il letto è un luogo selvaggio, una foresta vergine fitta di sorprese e di imprevisti, un ambiente torrido, carico degli effluvi micidiali di fiori stranissimi, un groviglio inestricabile di liane, pieno di belve dagli occhi fiammeggianti che strisciano nell’ombra, le fiere del desiderio e della passione, sempre pronte a balzare sulla preda. Il letto è anche questo, in un certo senso. E’ una giungla. E’ penombra. Strani suoni giungono da lontano e tu non sai se è il grido di un essere umano azzannato alla gola da una bestia feroce presso una sorgente o se a urlare è stata la natura stessa, che è al contempo umana, animale, e disumana”[22].
Il letto insomma è uno degli oggetti più carichi di significati, una di quelle presenze "epifaniche", le quali manifestano un'anima e una storia.

Giovanni Ghiselli

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[1] nu'n d j, ejpei; h[dh shvmat' ajrifradeva katevlexa~-eujnh'~ hJmetevrh~peivqei~ dhv meu qumovn, Odissea , XXIII, 225-226, ma ora poiché mi hai detto il segno chiaro del letto nostro…convinci il mio cuore, dice Penelope a Odisseo dopo la diffidenza iniziale.
[2] Odissea, XIX, 391-392 aujtivka d j e[gnw-oujlhvn , subito riconobbe la cicatrice
[3] P. Citati, La mente colorata, p. 272.
[4] J. Kott, Mangiare Dio, p. 120. 
[5] Gli ultimi due versi citati si ritrovano parodiati nei Cavalieri di Aristofane (del 424 a. C.) dove Paflagone, cedendo la corona, simbolo del potere, al salsicciaio che lo ha battuto nella volgarità e nell'impudenza dice: "Ti lascio: un altro ti avrà dopo averti presa, / ladro non più di me, ma forse più fortunato" (vv. 1251-1252).
[6] J. Kott in Mangiare dio (p.120) afferma che"nella casa di Alcesti e di Admeto come nel loro dramma, è il letto il mobile più importante". Una spiegazione di questa mania del letto, la dà Medea  ai vv.265-266: "oJvtan d& ej" eujnh;n hjdikhmevnh kurh'/-oujk e[stin a[llh frh;n miaifonwtevra", ma quando subisce ingiustizia nel letto non c'è altra mente più micidiale (di quella della donna).
[7] Ecco alcuni versi del racconto del messo sulla fine di Giocasta: “Quando infatti, trovandosi in uno stato d'animo sconvolto, entrò / nell'atrio, correva subito verso i letti / nuziali, strappandosi la chioma con ambedue le mani. / E quando fu entrata, sbattuta e chiusa la porta da dentro / invocava Laio morto già da tempo / con il ricordo degli antichi orgasmi, per i quali-egli doveva morire, e lasciare la genitrice / ai suoi figli, per mettere al mondo dei mostri. / E deprecava il letto dove, disgraziata,  dei doppioni / aveva generato: dal marito il marito, e i figli dai figli”, Edipo re, VV. 1241-1250. ndr.: tutte le traduzioni sono mie.
[8] Nelle Trachinie di Sofocle, c'è una presenza quasi ossessiva del talamo nuziale: "ejxaivfnh" sf& oJrw' to;n JHravkleion qavlamon eijsormwmevnhn", subito la vedo lanciarsi sul talamo di Eracle (vv.912-913); "oJrw' de; th;n gunai'ka demnivoi" toi'" JHrakleivoi"", vedo la donna nel letto di Eracle... (v.915-916); "kaqevzetj ejn mevsoisin eujnathrivoi"", sedeva in mezzo al letto coniugale (v.918); "w\ levch te kai; numfei'& ejmav", o letto e mia stanza nuziale(v.920). ndr
[9] Cfr. Sofocle, Trachinie, 918-22, Edipo re, 1242-3, 1249; Euripide, Alcesti, 175, 177, 183, 186-8, 249.
[10] N. Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, p. 26.
[11] Il termine levco"  è formato sulla radice lec-/loc- che si trova sia  in levcomai "sono a letto" sia in lovco", "agguato", "imboscata". Anche levktron (da *lec-tron) si forma sulla medesima radice. In latino abbiamo lectus, in tedesco Liegen, in inglese to lie, "giacere". Moglie è a[loco" formato da aj- copulativo + levco" . C'è dunque una parentela etimologica  tra il letto, la moglie, e l'agguato.
[12] aoristo di rJevzw.  
[13] "La donna ama credere che l'amore possa tutto, ed è questa la sua caratteristica superstizione" F. Nietzsche, Di là dal bene e dal male , p. 200.
[14] Vedremo che nell'Alcesti e nella Medea il letto è il mobile più importante della casa.
[15] Vengono ricordate nell'aria cantata dal Figaro di Mozart-Da Ponte nell'ottava scena del quarto atto: "Aprite un po' quegli occhi uomini incauti e sciocchi, guardate queste femmine, guardate cosa son. Queste chiamate Dèe dagli ingannati sensi a cui tributa incensi la debole ragion, son streghe che incantano per farci penar,Sirene[15] che cantano per farci affogar" (Le nozze di Figaro del 1786).
[16] Giovenale VI, 284-285.
[17] J. Joyce, Ulisse, p. 139.
[18] Composto tra il 1590 e il 1592.
[19] Mimnermo doveva essere contemporaneo di Solone che fiorì nei primi anni del sesto secolo; secondo altre notizie invece sarebbe vissuto nel VII. In effetti sappiamo poco della sua vita, sulla quale abbiamo dati incerti e contraddittori, a cominciare dalla città dove nacque: Smirne o Colofone. Comunque una colonia della costa asiatica, una città di cultura ionica. Ionico è infatti il dialetto delle elegie di Mimnermo. La sua fama è fondata soprattutto sui versi d'amore, tanto che Properzio gli dà la palma della poesia amorosa: "Plus in amore valet Mimnermi versus Homero: / carmina mansuetus lenia quaerit Amor" (I, 9, 11-12), in amore vale più un verso di Mimnermo, di Omero; / Amore è  mite e vuole versi teneri.
[20] C. Calame, I Greci e l'eros, pp. 21 e 26.
[21] Le sorelle Rondoli , in Racconti d'amore, p. 256.
[22] S. Màrai, La donna giusta, p. 234.