lunedì 16 settembre 2013

Studi di Estetica





Sabato 14 settembre alle 21, nella libreria della Festa dell’Unità di Bologna, è stato presentato il numero
monografico della rivista semestrale Studi di Estetica (Clueb 2013) dedicato a Luciano Anceschi nel centenario della sua nascita. Il sito internet è: http://www2.unibo.it/estetica/home.htm 
Hanno parlato tre allievi del maestro: Roberto Barbolini, Renato Barilli Marco Macciantelli.
La sala si è riempita presto ed è rimasta piena fino al termine, dopo le 23.
E’ stata rievocata la figura di Luciano Anceschi.
La quintessenza del suo pensiero, ha detto il suo allievo più attempato, è l’antidogmatismo.
Poi Barilli ha polemizzato con Vattimo, in quanto il filosofo torinese si è appropriato indebitamente della paternità del pensiero debole che di fatto è un’invenzione della scuola di Anceschi il quale ha voluto liberare il campo del pensiero dai dogmi, non senza indicare del resto le proprie scelte. Quindi ha fatto seguire a una pars destruens una costruttiva, mentre Vattimo si è fermato sull’ajdiavforon negativo: per lui tutti hanno indifferentemente ragione e tutti torto.
Non sono mancate critiche a Umberto Eco che “ha fatto il surf sull’onda della moda”. Quindi si è dato alla semiotica, una forma di neopositivismo.
Ma di Eco oggi nessuno può dire male: è tabù. Ferraris che era con Vattimo, è passato nella confraternita di Eco per avere accesso a “la Repubblica”.
Quando Barilli ha finito il suo lungo intervento non privo di toni polemici, gli ho posto una domanda: gli ho chiesto se i dissoi; lovgoi dei sofisti e “l’uomo misura di tutte le cose”di Protagora[1], e magari anche il relativismo antropologico di Erodoto, possono considerarsi prefigurazioni dell’antidogmatismo di Anceschi.

La logica aperta al contrasto diviene metodica già con i Dissoì lògoi [2], i “Discorsi in contrasto” presenti pure nelle Antilogie perdute di Protagora[3] il quale "fu il primo a sostenere che intorno ad ogni argomento ci sono due asserzioni contrapposte tra loro” come ricorda Diogene Laerzio (9, 51).
Una logica che del resto è già presente nell’Orestea[4] di Eschilo: nel secondo dramma, le Coefore , Oreste proclama: “ [Arh”[Arei xumbalei', Divka/ Divka”(461), Ares si scontrerà con Ares, Giustizia con Giustizia.
Alla fine della trilogia, nelle Eumenidi, c’è un dibattito giudiziario tra le Erinni che difendono l’antica civiltà patriarcale e accusano il matricida Oreste da una parte, e dall’altra c’è Apollo che lo difende e, alleato con la dea vergine Atena, fa prevalere il diritto dei padri su quello delle madri.

Barilli ha confermato e anzi ha aggiunto a questi antecedenti il probabilismo di Cicerone il quale negli Academica[5] tratta il problema della conoscenza, utilizzando le tesi di alcuni esponenti della scuola platonica riformata, in particolare di Filone di Larissa, scolarca della quarta Accademia[6], orientato su posizioni probabilistiche condivise . Non si può pretendere il vero: bisogna accontentarsi del verosimile o del più probabile.
Del resto Cicerone è un eclettico che si è avvalso anche di Aristotele e dei maestri Stoici della media Stoà, ossia di Panezio[7] e Posidonio[8], mentre in ambito politico grande è stata l’influenza dello storiografo Polibio.

Alla fine del dotto dibattito, mi sono procurato il volume in questione, formato da una ventina di parti composte da autori vari tra cui lo stesso Luciano Anceschi naturalmente, poi Marco Macciantelli, Renato Barilli, Fausto Curi, Fernando Bollino.
Voglio commentare alcune parti del colloquio tra Macciantelli e Anceschi, avvenuto “all’inizio degli anni Ottanta”(p. 23) e trascritto di recente.
Il giovane allievo pone domande su questioni cruciali “senza troppi infingimenti”(p. 23) e il maestro dà risposte sintetiche ma “senza dar nulla per scontato”. “Emerge il rilievo che, nell’esperienza anceschiana, hanno avuto le riviste, in particolare “il verri”e “Studi di estetica”. 
 La rivista è considerata un organo essenziale per adempiere alla funzione culturale progettata. 
 Nella sintesi che precede le domande e le risposte, Macciantelli mette in rilievo: “La fiducia nella critica come fondamentale strumento di interrogazione della realtà e del pensiero. Come si dice ad un certo punto, per un ‘relazionismo antidogmatico’, che sia anche ‘una fenomenologia della crisi nella prospettiva di un umanesimo disilluso”.

Le domande partono dagli anni Trenta, di cui Anceschi ricorda, con gratitudine del resto non acritica, il magistero ricevuto da Banfi, quindi l’opposizione al fascismo “impostato su questioni dogmatiche (p. 249) e la critica alla dominante filosofia gentiliana.
La fronda di Bottai lasciò qualche spazio a questo dissenso, non senza averne in seguito delle conseguenze. Anceschi ricorda il suo amore liceale per i lirici greci, che gli venivano letti da Mario Untersteiner il quale lo aiutava a coltivare il gusto “per l’intensità del frammento”(p. 26). Quindi l’amicizia con Quasimodo e l’idea condivisa di acquisire alla lettura extrascolastica questi poeti antichi. “Il pubblico dei lettori scoprì i lirici greci attraverso quella traduzione”(p. 27). Anceschi non nasconde che quel vertere “ricevette molte ostilità” (p. 27). Devo dire che potendo leggere i lirici greci nella loro lingua, la traduzione di Quasimodo non sempre rende intero il significato dell’originale. Il poeta del resto rivendicava il diritto “di leggere quei poeti a modo suo”(p. 9), Anceschi biasima chi pretende una traduzione obiettiva. “Cosa significhi questo, per me, rimarrà sempre un mistero”(p.27).
Io ho insegnato greco al ginnasio, al liceo e, a contratto, pure all’Università, dal 1975 in avanti e, ovviamente, mi sono posto tante volte il problema della traduzione. Naturalmente quando si vuole e si deve insegnare una lingua, bisogna che l’allievo colga la corrispondenza, o la discrepanza, tra l’originale e il tradotto.
Se invece si vuole rifare liberamente un testo, il discorso è diverso.

Comunque, riferisco qui quanto scrive Leopardi sulla traduzione perfetta nello Zibaldone, un libro amatissimo da Anceschi come vedremo: “La perfezion della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile”(Zibaldone, 2134). La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere… Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere”(Zibaldone, 964 e 965).
Sentiamo un’opinione diversa ma parimenti autorevole sul tradurre: quella di Cicerone il quale afferma che non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati. In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio, e Accio e molti altri piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum”(III, 10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci.
Secondo me Quasimodo non sempre ha reso la forza degli originali e nemmeno tutte le parole.

Procedo riportando la traduzione della prima strofe dell’Ode ad Afrodite di Saffo, nella versione di Quasimodo, poi nella mia che forse è meno bella, ma più rispettosa dell’originale, quindi della poetessa nobile e antica.
Il lettore può farsi un’idea

Ad Afrodite

“O mia Afrodite dal simulacro
Colmo di fiori, tu che non hai morte,
figlia di Zeus, tu che intrecci inganni,
o dominatrice, ti supplico,
non forzare l’anima mia
con affanni né con dolore” (vv. 1-4).
Traduzione di Quasimodo



“Immortale Afrodite dal trono variopinto (poikilovqron j),
figlia di Zeus tessitrice di inganni , ti prego
non domarmi il cuore con affanni
né angosce, o signora.” (vv. 1-4)
Traduzione mia

poikilovqrono~ è formato da poikivlo~, “dai vari colori, “screziato”, “variopinto”, e qrovno~, “seggio, trono”. Se Saffo ha scelto questo aggettivo, perché sostituirlo con “dal simulacro colmo di fiori?” tradendo, nel tradurre, la scelta dell’autrice?
Io amo il bello con semplicità e non mi piace che nel rendere i Greci in lingua italiana si tenda a complicare questa nobile semplicità che è complessità risolta.
Credo che il tradurre letteralmente (verbum e verbo exprimere) non escluda il vertere, il ri-creare in una gara con il modello (aemulatio). Per rendere la forza dell'originale insomma è necessario partire dalle sue parole e voltarle (vertere) nella seconda lingua con delle modifiche solo quando riprodurle (exprimere) nel modo in cui le ha scelte e disposte l’autore dia luogo a una traduzione brutta o non chiara, come quella che fece Sanguineti dell’Ippolito per l’INDA: il pubblico del teatro greco di Siracusa non capiva il significato di una lingua italiana che ricalcava sempre e comunque le costruzioni e le posizioni delle parole di Euripide. Anche in questo campo è necessario usare il criterio della discrezione.

Il lettore faccia la scelta che preferisce. Questa mia critica a Quasimodo e , in un certo senso ad Anceschi, è, e vuole essere, un omaggio al metodo anceschiano, quello che etimologicamente procede sulla via (oJdov~) del pensiero libero, a volte fino alla poēsis, alla creazione. “L’antidogmatismo è la nostra grande forza, o forse è anche la nostra grande debolezza, o è tutte e due le cose insieme”(p. 33) dichiara Anceschi.Così è anche per me.

Un altro aspetto del pensiero e dei gusti del professore di estetica che condivido in pieno è l’amore per Leopardi “filosofo”.

In passato mi sono ribellato a quanto ci imponevano al Liceo Mamiani di Pesaro, e chissà in quanti altri licei nei primi anni Sessanta, quando ci facevano  studiare a memoria la critica malevola, emotiva di Benedetto Croce che negava la validità di filosofo di Leopardi, il pover’uomo dalla “vita strozzata”[9]: “La sua fondamentale condizione di spirito non solo era sentimentale e non già filosofica, ma si potrebbe addirittura definirla un ingorgo sentimentale”[10].
Dice molto bene, viceversa, Anceschi quando afferma che le riflessioni di Leopardi hanno valore filosofico: “L’atteggiamento con cui Leopardi legge gli antichi e se ne serve porta negli antichi una luce che nessuno aveva visto o che essi stessi non avevano intuito. E si scopre negli antichi, per esempio, quel vago, quell’indeterminato, quell’indefinito, che Leopardi considerava come proprio della parola poetica. Egli legge cioè gli antichi scoprendo in essi delle valenze, se possiamo esprimerci così, che altri non aveva visto”(p. 36)

Allora, commenta Macciantelli in una domanda successiva: “I fili del passato, del presente e del futuro si intrecciano spostando la riflessione un po’ più in là” (p. 42).
Anceschi apprezza questa immagine dell’allievo e aggiunge: “E’ il passato ad essere soprattutto spostato, perché quello che noi vediamo, leggendo Dante con gli occhi di Eliot, è diverso da quello che vedevano i contemporanei di Dante” (p. 42).
Concludo riferendo una definizione dei metodi dogmatici: “Sono dogmatici tutti i metodi che impongono la loro parzialità al reale, costringendolo, riducendolo, impoverendolo e anche producendo fenomeni pesantissimi di paralisi. Il procedere della nuova fenomenologia critica tende, ha di mira, una mira solo in parte raggiungibile, il rilievo totale di tutte le relazioni di ogni realtà vivente, anche e soprattutto della realtà del pensiero. E vorrei soprattutto aggiungere che il dogmatismo, la metafisica, la ragione irrigidita in se stessa sono invece una continua rottura della relazione” (p. 51).
La serata si è conclusa con soddisfazione di tutti. Della mia ho voluto rendere partecipi voi, lettori di questo blog, sperando di avervi fatto cosa gradita e utile.

Giovanni Ghiselli


[1] Di questa idea attribuita a Protagora da varie fonti, do la formulazione del Cratilo (385e) di Platone: “w{sper Prwtagovra”e[legen, levgwn  pavntwn crhmavtwn mevtronei\nai a[nqrwpon", come diceva Protagora che l'uomo è misura di tutte le cose. Per Sofocle invece, misura di tutte le cose è Dio. Tolstoj ribadisce tale fede insita in ogni religione nel suo romanzo più noto: "Per noi, con la misura del bene e del male dataci da Cristo, non esiste nulla di incommensurabile, e non c'è grandezza là dove non c'è semplicità, bene, verità", Guerra e pace , pag.1607. Un esempio di dissoi; lovgoi 
[2] “Un testo che può definirsi la formulazione "relativistica” del pensiero dei sofisti… Gli "agoni di discorsi” tucididei echeggiano questa problematica, pur a mezzo secolo di distanza dai Dissoì lògoi… Uno scritto sofistico redatto verso il 450 o al più tardi 440”(S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 1 pp. 258 ss. 
[3] Nato nella ionica Abdera intorno al 485 a. C., all'incirca coetaneo di Euripide dunque. 
[4] Del 458 a. C. 
[5] Del 45 a. C. 
[6] Intorno al 110 a. C. 
[7] Di Rodi (185 ca-110 ca a. C.). E’ considerato l’iniziatore dello stoicismo medio. Le sue opere non ci sono pervenute. Le più conosciute nell’antichità erano Sulla provvidenza, Sul dovere (che influì sul De officiis di Cicerone), e un commento al Timeo platonico. 
[8] Posidonio di Apamea (135 ca-51 ca a. C.) scrisse le Storie dopo Polibio  (andavano dal 143 al 70) che non sono conservate, ma ve ne è traccia notevole nella benemerita Biblioteca di Diodoro.  Soprattutto nel proemio diodoreo sono sviluppati pensieri che sembrano risalire appunto al proemio posidoniano. Innanzi tutto l'idea stoica della storia universale come proiezione della fratellanza universale che collega in un nesso solidale - come membra di un unico corpo, secondo l'espressione senecana - tutti gli esseri umani. La storia universale "riconduce ad un'unica compagine gli uomini, divisi tra loro nello spazio e nel tempo, ma partecipi di un'unica reciproca parentela” (Diodoro, I, 1, 3). 
[9] La Letteratura italiana, 3, p. 73. 
[10] Op. cit., p. 74.

1 commento:

  1. Hai fatto cosa molto gradita, carissimo Gianni.
    alessandro

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