lunedì 30 settembre 2013

La sapienza Silenica

Giuseppe Ducrot, Sileno


 
Parte della lezione che terrò a Pesaro il 9 ottobre alle 18, 30 in viale Trieste 196 (Università dell’età libera)

E’ la triste saggezza del Sileno per il quale non essere nati, o morire appena nati, è meglio che vivere.
Nietzsche in La nascita della tragedia si sofferma su tale aspirazione all'annientamento e la considera caratteristica del greco primitivo che soggiace al terrore dei mostri, all'avvoltoio di Prometeo, al destino spaventoso di Edipo, al matricidio di Oreste, finché non trova la giustificazione estetica dell'esistenza, e l'individuazione positiva, nell'Apollineo che, in termini artistici, è la bellezza e la chiarezza delle immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e psicologici, è il rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo olimpico:
“L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto’… Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo della bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli"[1].

Anche nell'arte figurativa l'apollineo ha un'espressione sicura: si vede con chiarezza nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia[2], dove Febo si erge al di sopra delle passioni malsane e violente, dominando l'ignobile zuffa dei Lapiti e dei Centauri bimembri, e indicando con gesto sicuro la sua misura santa. E pure la nostra vicenda individuale si travaglia in questo conflitto perpetuo tra il caos degli istinti scatenati e il cosmo dei sentimenti forti, e pure delicati, e  costruttivi, siccome inseriti nell'equilibrio governato dalla ragione.
Negli autori classici troviamo varie espressioni della triste saggezza del Sileno: partiamo da Erodoto, il quale narra la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per ricompensare della loro devozione, fece morire ventenni  mostrando come per l'uomo sia meglio essere morto che vivere (dievdexev te ejn touvtoisi oJ qeo;ς wJς a[meinon ei[h ajnqrwvpw/ teqnavnai h] zwvein, I, 31, 3).
Nel quinto libro lo storiografo di Alicarnasso narra lo strano costume  dei Trausi che compiangono il neonato e seppelliscono il morto con manifestazioni di gioia: "Sedendo attorno al neonato i parenti piangono... Enumerando tutte le sofferenze umane; invece scherzando con gioia mettono sotto terra (paivzontev" te kai; hJdovmenoi gh'/ kruvptousi) il morto, spiegando che si trova in completa felicità, liberato da tanti mali"(V, 4, 2).
Traccia di questo uso anomalo si trova in Verga: durante al visita dei compaesani alla casa del nespolo che si era riempita di gente, Don Silvestro fece una battuta: “E tutti si tenevano la pancia dalle risate, ché il proverbio dice: “Né visita di morto senza riso, né sposalizio senza pianto”[3].
Un terzo momento silenico nelle Storie di Erodoto  è quello in cui Serse, invadendo la Grecia, vede l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ  Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou'to ejdavkruse)  per compassione al pensiero di quanto è breve tutta la vita umana: “wJ~ bracu;~ ei[h oJ pa'~ ajnqrwvpino~ bivo~, eij touvtwn ge ejovntwn tosouvtwn oujdei;~ ej~ eJkatosto;n e[to~ perievstai” (VII 46,2), dal momento che di questi che sno tanti nessuno sopravviverà al centesimo anno. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo ("ou{tw" oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46, 4).   

La medesima idea del resto viene espressa  da diversi altri autori. Facciamone una scelta.
Ricordo Teognide il quale deplora una forma di decadenza tumultuosa e caotica che è ciclica evidentemente poiché se ne duole anche Dante: "La gente nova e' subiti guadagni, / orgoglio e dismisura han generata/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni"[4].
Si parva licet componere magnis [5], non pochi opinionisti dei nostri giorni elevano lamenti simili a questo teognidèo: "ajllhvlou" d j ajpatw'sin ejp j ajllhvloisi gelw'nte" / ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t j ajgaqw'n" (Silloge , vv.59-60), si ingannano a vicenda, deridendosi a vicenda, senza criterio del bene e del male. Per la ricaduta nell'oggi, cito, quasi a caso: "Ma come si potrà governare questo meccanismo infernale tenendo i ladri, i corrotti e i corruttori al loro posto? Andate in luogo pubblico, parco, piazza, fiume, mare, montagna il giorno dopo un raduno di cittadini. Questi selvaggi che sporcano e avvelenano tutto...[6]" e così via.
In tale squallore di rapporti umani la conclusione di Teognide è silenica: "La cosa migliore di tutte per quanti vivono sulla terra è non essere nato (mh; fu'nai) / e non vedere i raggi del sole abbagliante, / ma una volta nati, al più presto varcare le porte dell'Ade, / e giacere sepolto sotto gran massa di terra" (Silloge , vv. 425-428).
L'espressione "mh; fu'nai" è usata anche da  Bacchilide che, nell'Epinicio V, fa dire al gagliardo Eracle, uno capace di bonificare la terra dai mostri: "La cosa migliore per i mortali è non essere nati / e non vedere la luce / del sole"(vv.160-162).
Statue di Cleobi e Bitone presso il tempio di Delfi

Sofocle nel suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al coro: "Non essere nati (mh; fu'nai) supera / tutte le condizioni, poi, una volta apparsi, / tornare al più presto là / donde si venne, / è certo il secondo bene. / Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù / che porta follie leggere, / quale travagliosa disfatta resta fuori? / Quale degli affanni non c'è? / Invidia, discordie, contesa, battaglie, / e uccisioni; e sopraggiunge estrema / l'esecrata vecchiaia impotente, / asociale, priva di amici / dove convivono tutti i mali dei mali" (vv.1224-1238). Anche nelle Trachinie  si trova qualche cosa di silenico: Eracle credeva di stare bene, da vivo, in seguito alla liberazione dai travagli che i sacerdoti di Dodona gli avevano predetto, ma non aveva compreso che liberarsi dai mali significa, dopo tutto, morire: "toi'" ga;r qanou'si movcqo" ouj prosgivgnetai" (v. 1173), sui morti infatti non sopraggiunge fatica.

Né manca una riflessione silenica nell'Edipo re il cui quarto Stasimo si apre con questo lamento: "ijw; geneai; brotw'n, / wJ" uJma'" i[sa kai; to; mh / de;n zwvsa" ejnariqmw'" (vv. 1186-1188), Oh generazioni dei mortali / come vi conto uguali al nulla / finché siete vive!
 Questi versi d'altra parte non rappresentano la somma della visione di Sofocle il quale  rimane il poeta della misura: quella delfica del "nulla di troppo" e del "conosci te stesso" ossia , per utilizzare Freud, dell'ingrandimento dell'Io a spese dell'Es, che va bonificato al pari di una palude[7].
Il "sacrilego" Euripide nell'Alcesti fa scattare incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui: "zhlw' fqimevnou", keivnwn e[ramai, / kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein" (vv.865-867), invidio i morti , quelli amo, quelle dimore desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni malignità a Euripide, sostiene, malignamente,  che la resipiscenza di Admeto è fasulla:" Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini piangono, che  lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo"[8].
 L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) espressa da Admeto è silenicamente manifestata anche da Leopardi: "In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei... Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[9].
Il poeta di Recanati, nella Storia del genere umano , non manca di ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie sileniche: "Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll'estinto".
Del resto F. De Sanctis ci fece notare che "Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto"[10]. In effetti nel Dialogo di Plotino e di Porfirio  troviamo un rifiuto del suicidio che è di fatto un dire di sì alla vita: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie".
Questo non toglie che Leopardi senta la vita come male e che anzi tale dolore si possa attenuare attraverso il non sentire la vita: "E un individuo...allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica... Ed allora solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d'infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl'istanti che precedono la morte"[11].
Leopardi usa la massima monostica, e vagamente silenica "o{n oiJ qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei nevo" (fr. 583 Jäkel) di Menandro, definito "principe" della commedia nuova nello Zibaldone (3487). La gnwvmh fa da  epigrafe al Canto Amore e Morte  in questa traduzione:
"Muor giovane colui ch'al cielo è caro".

Non possiamo mancare di fornire a quanti sanno di latino qualche formulazione silenica nella lingua di Roma antica: Lucrezio compiange la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre vagito: "Vagituque locum lugubri complet "[12].
Cicerone ci racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale catturato da Mida,  e poi liberato dal re, non un poveraccio dunque ma un uomo  ricco e potente come Creso, gli diede questo insegnamento: "Non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[13], non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto .
Seneca, per consolare Marzia   che ha perso un figlio ventenne enumera le difficoltà della vita umana, insidiosa e fallace al punto che nessuno l'accetterebbe se non fosse data all'insaputa, e conclude: "Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui"[14], pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, tornare al più presto all'integrità originaria.
Petronio  nel  Satyricon:  dove, se si fanno bene i conti, il naufragio è dappertutto[15] "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est" (115, 17), attribuisce il desiderio di morire alla Sibilla: "Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent - Sivbulla tiv qevlei"; - respondebat illa - ajpoqanei'n qevlw"(48, 8), infatti la Sibilla di certo a Cuma vidi io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli: ‘Sibilla, cosa vuoi?’, rispondeva lei: ‘Morire voglio’".
La profetessa vuole morire poiché la terra è sconciata dall'empietà, dall'impotenza e dalla sterilità: "Itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44, 18), così gli dèi hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I campi giacciono nell'abbandono.
E più avanti(129, 6): "Adulescens, paralysin cave ", giovane, guardati dalla paralisi.
The Waste Land  di T. S. Eliot,  che ripropone molti di questi temi,  utilizza come epigrafe il cupio dissolvi della Sibilla di Petronio: nella terra desolata del Novecento le donne prendono pillole per abortire: "It's them pills I took to bring it off, she said" (v.159); la natura è inquinata: il fiume trasuda olio e catrame (vv.266-267), e non c'è neppure silenzio tra i monti ("There is not even silence in the mountains", v.341). Nei rapporti sessuali, leggiamo in uno dei Poems del 1920[16], manca il desiderio: "Burbank crossed a little bridge / descending at a small hotel; / Princess Volupine arrived, / they were together, and he fell" (vv. 1-4), Burbank attraversò un piccolo ponte per scendere a un hotel da poco; arrivò la principessa Volupine, rimasero insieme e lui cadde.
Infine torniamo, con una specie composizione anulare,  alla Nascita della tragedia: Nietzsche vede “quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza del Sileno"[17] rappresentati nella Trasfigurazione di Raffaello rispettivamente da Cristo che ascende in cielo, e dalla "metà inferiore... Col fanciullo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli". Cristo-Apollo è la "divinizzazione del principium individuationis ... con gesti solenni egli ci mostra, come tutto il mondo dell’affanno sia necessario,  perché da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice... Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la conoscenza di sé. E così accanto alla necessità estetica della bellezza, si fa valere l'esigenza del: "Conosci te stesso" e del: "non  troppo!", mentre l’esaltazione di sé di sé e l'eccesso furono considerati i veri dèmoni ostili della sfera non-apollinea, quindi qualità dell'epoca pre-apollinea, dell'età titanica, e del mondo extra-apollineo, cioè del mondo barbaro"[18]. In conclusione, Edipo, come Prometeo, Creso, e tanti altri, sono portatori di quella dismisura non apollinea che provoca il desiderio di morte: "A causa del suo amore titanico per gli uomini Prometeo dovette essere lacerato dagli avvoltoi; per la sua eccessiva saggezza, che sciolse l’enigma della Sfinge, Edipo dovette precipitare in un travolgente vortice di atrocità: così il dio delfico interpretava il passato greco".
La misura apollinea e omerica dunque costituisce un antidoto a tale pessimismo: Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con l'eroismo e la bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene supremo, e Achille nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della morte ("mh; dh; moi qavnaton ge parauvda, Odissea , XI, 488) poiché sarebbe disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che dominare su tutte le ombre svigorite del regno dei morti.

Vediamo quindi  il rovesciamento della sapienza silenica:
Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte "Non consolarmi della morte, splendido Odisseo. / Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro, / presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere, / piuttosto che regnare su tutti i morti consunti" (Odissea , XI, 488-491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[19], Od. XI, 489)"[20].
Già nel IX canto dell’Iliade Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga; r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405-408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa: il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[21].
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec… (14 Ottobre 1828)”[22].
Vediamo anche una formulazione dostoevskijana di questa sapienza antisilenica: “Dove ho mai letto - pensò Raskolnikov proseguendo il cammino - dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco” aggiunse subito dopo”[23].

Giovanni Ghiselli

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[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 31 e 32.
[2] 471-456 a. C.
[3] I Malavoglia, p. 87.
[4] Inferno , XVI, 73-75.
[5] Virgilio, Georgica IV, 176, se è consentito rapportare il piccolo al grande.
[6] Giorgio Bocca, in Il Venerdi di Repubblica  del 26 settembre 1997, p. 38.
[7] Freud (Scomposizione della personalità, in Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1979,  vol. XI, p.188 e sgg.) scrive: "Rafforzare l'Io rendendolo più indipendente dal Super Io, ampliare così il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es, è il compito della psicoanalisi: dove era l'Es deve subentrare l'Io. E' un'opera di civiltà, come, ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee".
[8] Mangiare Dio , p. 127.
[9] Dialogo di Tristano e di un amico .
[10] Saggi critici , vol. II, Laterza, Bari, 1965, p. 184.
[11] Zibaldone , 3848.
[12] De rerum natura , V, 225.
[13] Tusculanae  I, 48.
[14] Consolatio ad Marciam ,  22.
[15] "Si bene calculum ponas, ubique naufragium est", (115, 17)
[16] “Burbank with a Baedeker, Bleinstein with a cigar”.
[17] La nascita della tragedia, p. 36.
[18] La nascita della tragedia, p. 37.
[19]  Infinito atematico con desinenza  -men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che   significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta M. Finley, "Un thes , non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il terribile per un thes  era il fatto di non avere legami, di non appartenere a nulla" (Il mondo di Odisseo, p. 39).
[20] F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
[21] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, 2003, p.p. 17-18,
[22] Zibaldone, 4399.
[23] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

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