giovedì 1 gennaio 2015

La storia di Didone VI parte

Pompeo Girolamo Batoni, Didone abbandonata


Appena vede Enea il messaggero  lo assale ("Continuo invadit ", v. 265) biasimandolo per il suo crimine.
L'eroe troiano davanti a tanto rimprovero nemmeno cerca di difendere l'amore:"obmutuit amens/arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit  "(vv. 279-280), restò muto, fuori di sé, gli si drizzarono i capelli per il terrore, e la voce si arrestò nella gola.
Il v. 280 è formulare nell'epica virgiliana: riecheggia II 774:"Obstpui steteruntque comae et vox faucibus haesit ", mi paralizzai, si rizzarono i capelli e la voce rimase attaccata alla gola.  E' la reazione di Enea davanti all'umbra , più grande del naturale, di Creusa perdutasi durante la notte della presa di Troia.
Questo verso torna identico a III 48 quando Enea si terrorizza sentendo il lamento di Polidoro venire da una bacchetta[1] .
La formula del IV canto torna di nuovo in XII v. 868 e questa volta riguarda Turno paralizzato dal presagio della propria morte.
Ma Enea deve compiere altre imprese grandi e meravigliose, sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti lo scalda un ardore legittimo e davvero degno di un eroe:"Ardet abire fugā " (v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per prepararla furtivamente, riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più dolci.
La regina però lo capisce da sola ("quis fallere possit amantem?", v. 296, chi potrebbe ingannare un'amante? ), lei che temeva tutto anche se era tranquillo:"omnia tuta timens" (v. 298).
L'ossimoro allitterante evidenzia quanto di contraddittorio c'è nell'anima di questa donna innamorata e ansiosa. L'allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi.
 Per giunta la Fama,  impia , porta la brutta notizia all'amante già sconvolta (furenti , v. 298). Allora scoppia di nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi totamque incensa per urbem/ bacchatur ", vv. 300-301, ella infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.
Quindi la disgraziata affronta Enea al grido di "perfide " (305), che echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[2]: prima lo aggredisce rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la propria morte, invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e cercando di  impietosirlo:" Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? " (vv. 305-308), hai sperato, perfido persino di poter dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza dir niente? non ti trattiene il nostro amore, né la destra data una volta, né Didone pronta a morire di morte crudele?-meaterra: la terra e la donna sono spesso identificate nella letteratura antica come non poche volte in quella moderna: Pound, a proposito dell'Ulisse  di Joyce, ossia di Leopold Bloom, nota che :"La sua sposa Gea-Tellus, simbolo della terra, è il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltar via, e nel quale ricade in saecula saeculorum "[3].- data dextera: nella Medea di Euripide la protagonista:"ajnakalei' de; dexia'"-pivstin megivsthn, (vv. 21-22) reclama il sommo impegno della mano destra.
Vediamo altri tre versi:" per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem " (vv. 316-319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c'è qualche posto per le preghiere.
Anche questi esametri contengono e suscitano echi. Il primo "è un'"allusione" a Catullo 64, 141 sed conubia nostra, sed optatos hymenaeos : ciò spiega le "preziosità" metriche di gusto neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di parola, cesura trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con tutte le preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più "tragico"[4].
Il primo emistichio del v. 317 al lettore di Dante ricorda la captatio benevolentiae di Virgilio a Ulisse e Diomede:"s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,/s'io meritai di voi assai o poco"[5].
Infine  il dulce meum rammentato da Didone a Enea (v. 318) ricorda quello che Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace quando, nella tragedia di Sofocle, tenta di dissuaderlo dal suicidio:"  ajndriv toi crew;n-mnhvnhn prosei'nai, terpno;n ei[ tiv pou pavqh/.- cavri" cavrin gavr ejstin hJ tivktous' ajeiv:-o{tou d j ajporrei' mnh'sti" eu\  peponqovto",-oujk a]n levgoit jj e[q j ou|to" eujgenh;" ajnhvr" (Aiace , vv. 520-524), per l'uomo certo è doveroso che rimanga un ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo l'ha provata: infatti gratitudine genera gratitudine, sempre. Chiunque perda il ricordo di avere ricevuto del bene, non può più essere chiamato nobile.
Virgilio non utilizza la sentenza finale per non togliere nobiltà al suo eroe, ma chi crede nel valore della gratitudine sente che nel comportamento di Enea nei confronti di Didone c'è qualcosa di vile e volgare.

L'ingratitudine è un vizio capitale secondo diversi autori e la gratitudine, viceversa, un grande valore.
Esiodo mette la gratitudine (cavri" , Opere , v. 190) con il pudore (aijdwv", v. 192) tra i valori negati dall'estrema decadenza dell' età del ferro : allora gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh d j ejn cersiv , v. 192), se ne andranno Aijdwv" appunto e Nevmesi" , la giusta distribuzione; quindi "kakou' d j oujk e[ssetai ajlkhv" (Opere , 201)  non vi sarà più scampo dal male.   
Anche Cicerone pone la gratitudine in prima fila tra i doveri:"nullum enim officium referendā gratiā magis necessarium est " (De Officiis , I, 47), nessun dovere in effetti è più necessario della gratitudine.
L'ingratitudine è il marchio della persona volgare: Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una Dissertazione  su Teognide di Megara  simpatizzando con le teorie del lirico antico. Lo colpì fortemente il biasimo espresso  per l'ingratitudine dell'animo plebeo:"Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai"[6]. Quindi cita alcuni versi della Silloge  (105-112) che riporto in traduzione mia :
"E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare, non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra./I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono ("oiJ d j  ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito".
Contro l'ingratitudine tuona Re Lear, the lunatic King di Shakespeare " Ingratitude, thou marble-hearted fiend/more hideous when thou show'st thee in a child/than sea-monster "(I, 4)., o ingratitudine, demonio dal cuore di marmo, più orrenda del mostro marino quando ti manifesti in una figliola!".
 Fu l'ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, più micidiale dei loro pugnali a vincere la resistenza del grande Cesare:"Ingratitude, more strong than traitors' arms,/quite vanquished him: then…great Caesar fell" (Giulio Cesare , III, 2). 

Tra i nostri due amanti non può esserci più nulla di buono poiché compiacenza e condiscendenza devono essere reciproche, mentre Enea non vuole saperne di Didone, nemmeno quando questa arriva a dire " Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset/ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula/luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et deserta viderer "(vv. 327-330),  se almeno fosse stato da me concepito un figlio tuo prima della tua fuga e nella mia reggia giocasse un piccolo Enea che per lo meno ti riproducesse nel viso, certo non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata.
Sull'aggettivo parvulus sentiamo un'altra riflessione di La Penna-Grassi:"Lo stile epico rifiuta i diminutivi, propri del sermo familiaris , comuni nelle nugae  catulliane, ma già meno frequenti nell'elegia. Nell'Eneide  sono stati contati sette diminutivi, ma probabilmente questo è l'unico vero diminutivo affettivo: con molta finezza Virgilio ha sentito che l'umanità dolente della sua eroina non poteva essere sempre "controllata" colla misura della sublimità epica. La concessione ha, tuttavia, i suoi limiti: Virgilio ha probabilmente nella memoria un passo di un epitalamio di Catullo (61, 216 ss.), dove il poeta augura che presto un Torquatus...parvulus  dal grembo della madre tenda le mani al padre e gli sorrida; ma proprio il confronto con Catullo mostra che la tenerezza materna di Didone manca di ogni leziosità"[7].-deserta:"è ancora voce che appartiene al linguaggio erotico-elegiaco: così Catullo c. 64, v. 57, descriveva Arianna abbandonata da Teseo (desertam in sola miseram…harena) "abbandonata, misera, su una spiaggia deserta"[8] .


Auguro un ottimo 2015 ai  203792 frequentatori del mio blog
giovanni ghiselli



[1] E' l'episodio imitato da Dante nella selva dei suicidi (Inferno, XIII; qui il terrore è limitato a "ond'io lascia la cima cadere/e stetti come l'uom che teme", vv. 44-45.
[2]64, 133.
[3] Critica e saggistica,  in Ezra Pound, Opere scelte, p. 1168.
[4]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 425.
[5]Inferno , XXVI, 80-81.
[6]p. 167.
[7] Op. cit., p. 428.
[8] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 271.

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