venerdì 23 gennaio 2015

L'eternità del Muthos - di Lucia Arsì


Il Mito di Piramo e Tisbe


Piramo e Tisbe: tragedia degli “errori”, tragedia di un amore infelice, di un amore fomentato dal tertium, da un vitium, che è una crepa nel muro confinante, attraverso cui i due innamorati lasciano transitare parole, sospiri, aliti. Quel difetto di costruzione, mai notato da alcuno, balza evidente agli occhi dei giovani (quid non sensit amor?). Impediti dalle famiglie che ostacolano l’unione, i giovani sostano davanti a quel “difetto” e si sussurrano parole d’amore, parole strazianti. E i baci? Decidono entrambi di vedersi, quella notte, presso i resti del monumento  del re Nino. Tisbe arriva nel luogo dell’appuntamento per prima. Un leone, le cui fauci sono impregnate del sangue di una vittima da poco divorata, è lì e, alla vista di Tisbe, le strappa il velo. Tisbe fugge via. Giunge poco dopo Piramo. Vede il velo della sua amata macchiato di sangue, si colpevolizza per il ritardo, piange la morte dell’amata e si trafigge con il pugnale. E’ la volta di Tisbe. Tornata nel luogo dell’appuntamento e annichilita alla vista di Piramo morto, strappa dal petto il pugnale e compie il medesimo atto di morte. E il gelso bianco muta il colore in vermiglio.
E’ il racconto di Ovidio, genialmente elaborato da Shakespeare.

La parete ovvero il tertium
   
    Non so. E perciò il mio dire è oscuro. Allusivo.
Al tramonto, gli spifferi ingravidano le pupille da tempo spalancate, sul punto di….decidi di no e poi…poi non importa se torni daccapo o non torni.
Il computo è lungo. Infinito. Tu sei finita. Le labbra, le tue mani, le cosce sinuose, gli occhi che implorano.
Il neo un po’ sopra, sull’arcata che suggella la polpa carnosa, a suggerire….sventagliare dettagli d’un immenso finito.
All’aurora ancor gravida del peso della notte, svesti le pupille, spulci  i granelli che s’annidono tra i fili dorati, e vai.
Continuo a dondolare il capo. Sussurrarmi il dubbio oneroso.
So…so che mi è negato serrarmi a quel muro, muro allestito da ciclopiche braccia.
A dirmi di no, chi? L’altro ostile?  No. L’altro sopporta. Partecipa. Com-patisce.
Io…a non volere.
Oh se potessi entro una insidiosa palude guazzare e lampeggiare vermi serpi e viscidi insetti e abbonirli e squamarli dei loro toni consunti e offrire intensi colori e carburante agli arti depressi!
Oh se potessi con le braccia bloccare onde funeste, che dai fondali s’arrampicano, toccano il cielo, e fendere marosi e la pelle perennemente levigata!
Mi arrendo. Io…non giungo mai.
So di non potere. So di non volere.
Avanti a me non mura ossidate dall’implacabile materia.
Avanti a me nebbia e i miei singulti e la necessità di un nuovo edificio, ideato da me.
Allargo le braccia. Contenere te…sì…è possibile se determino l’ora, il giorno, solo se decido la foggia del  vestito, appronto il trucco, collego il colore dei sandali col tono dei capelli e basta.
     Nel tempo, che la materia compatta determina, c’è un prima un poi, un istinto che volge verso o non, potresti discernere forme, variegate, in perenne movimento.
Quando…quando dirò dell’altro? Della eternità?
Non so. Crollato quel muro, non so se l’azzurro che fascia il mio seno sbiadisce e….quali i colori che sono oltre la materia e vi sono o tutto è allo stesso modo della visione dei cani?
Mi accosto. Timida, le ali non ancora tarpate, spicco il volo, osservo, mi confondo e torno e dico.

Due, anzi tre. Piramo Tisbe e una parete. Ispessita dal tempo ma forata in un punto e permette  al respiro, anzi osa il respiro il suo viaggio. Solfeggia dall’una verso l’altro. Respiro illogico. Soffio scaldato da un illogico umano senso. E allora senso divino.
Umana la voce che si connota e quella di lei “ Amore mio prezioso…
E’ un incanto. Il soffio mielato segna suoni, lancia molecole che dritte toccano centri vitali e lui oramai illanguidito risponde o non risponde, totalmente immerso nel suo languore.
Ancora lei “ Amore mio delizioso…
…e poi, poi nulla.
L’animo guizzante di gioia è una rarità. Corallo preziosissimo, perché raro, perché naturale. E non  deve impegnarsi a costruire sillabe. Deve, quando un’oasi di pace fiorisce in un  deserto abbandonato, lì immergersi e partecipare.
Accade in una terra esotica, civiltà primordiale, il luogo  entro  due fiumi.
Bellissimi entrambi. D’aspetto e di animo.
Chi non s’irradia d’amore e per amore?
Ostili i genitori e di Piramo e di Tisbe. Tumulate le menti da quelle mura cementate dal tempo.
La fiamma brucia la carne. Ogni molecola disubbidisce all’ordine del capo. Gran scompiglio.

La decisione sorge in entrambi.
     Lei “ Al calare delle tenebre sarò accanto al sepolcro del re. Ai piedi del gelso. Presso la sorgente. Toccare la tua carne, sentirmi terrena e …

Lui “Una sola carne….tornare al modo di sempre….con te sentire la pienezza, l’origine….
Cala la notte.
L’ultimo inchino e i reni della servetta disfatti dalla febbrile attività quotidiana e disfatta l’apparenza del giorno.
L’apparenza che tutto sia contenuto nel giorno.
Mentre la luna s’irradia e tutto riappare febbricitante, verosimilmente  incontrollabile e verosimilmente vero.
Tisbe giunge ed è la prima. Si accomoda ai piedi del gelso, già stralunata dal bacio d’una infìda luna, quella sera spicchio sottile sottile. Quella sera più che mai profetica.
Un ruggito e Tisbe agita le caviglie e slancia le gambe da gazzella, all’apparire d’una leonessa. Lascia cadere il velo, che un po’ prima celava i suoi tratti.
La belva s’abbevera alla sorgente, dopo un lauto pasto e del velo si serve e struscia  la bocca ancora insozzata di sangue d’una bestiola. Poi va.
Ecco…arriva lui…Piramo. Pesante, guardingo, agitato nell’animo. “ Il velo di Tisbe? Lordo di sangue?, fra di sé. Non può accettare. Senza la grazia di lei? Non sentirà le stagioni. Senza le carezze di lei? Darà un addio al proprio corpo. E quell’animo ora triste ora radioso, che gli ha insegnato il sì e il no. E il tono minaccioso e la paura della solitudine e la comprensione verso il prossimo.
Sguaina la spada e s’infilza.
Folle il viaggio della vita e solo a metà, perfettamente inutile.
Poco dopo…passi lenti braccia distese occhi nuotanti… giunge Tisbe. Urge il richiamo. La mente impazzisce, accalorata dai sensi. Toccare, baciare, respirare colui che la rende viva, che le offre tutti i colori del mondo. E lo trova ansimante e in presenza di  lei l’ultimo fiato.
    Non può. No. Tisbe non può sopravvivere senza luce. Una grande determinazione. Eccessiva consapevolezza. Un attimo e torve maschere la inseguono. Sarà così per sempre. Meglio fuggire all’inganno della mente. Fedifraga. Da sola non regge. Senza calore è un mostro esecrabile. La sua fine pensata e fortemente voluta. S’infilza.
Il gelso si colorerà del fosco del loro sangue.

Tutto rispecchia la norma. Il racconto tocca le corde del cuore. Pietà. Dolore. Malinconia. Nostalgia. Tormento. Nel campo dell’umano. Nel campo del sempre e così.
E se mi avvio nel campo dell’oltre uomo?
In quella trazzera impervia dirigo il passo e, senza impennate, senza blasfemi, vedo….anzi non vedo la parete.
Lì nessuna parete. Quella che ha reso i due uguali, quella che contiene amore odio, che limita il basso e l’alto, il femminile e il virile, i due e il terzo, il dì e la notte.
Lì il mondo beato.
Lì vedo essenze. Essenze più o meno luminose. Luce intensa tanto quanto l’energia che nel mondo di qui hanno espresso.                                


                                                                                                 
                                                                                                                    Lucia Arsì




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