venerdì 5 febbraio 2016

La commedia nuova. Menandro. II parte

Scena di attori comici che danzano
Villa di Cicerone a Pompei

PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA



Da Euripide questi autori invero non hanno preso solo il realismo delle situazioni ma anche elementi strutturali come il Prologo che, recitato spesso da una divinità o da un elemento personificato della natura, informa sull'antefatto del dramma, o anche alcuni aspetti del contenuto quali l'interesse per i fatti amorosi, le vicende familiari, la psicologia dei personaggi, e il linguaggio naturalistico, non lontano da quello parlato. Ora diamo qualche notizia su Filemone e Difilo, quindi passeremo a Menandro e ad uno dei suoi testi.
 Filemone era originario di Siracusa dove nacque intorno al 360 a. C. ma passò quasi tutta la vita ad Atene dove morì quasi centenario. Quintiliano (Institutio Oratoria, X, 1, 72) ci informa che spesso fu preferito a Menandro, ingiustamente dai critici del suo tempo, ma più tardi, con il consenso di tutti, meritò di essere considerato secondo: "Philemon, qui ut prave sui temporis iudiciis Menandro saepe praelatus est, ita consensu tamen omnium meruit credi secundus ".
Di questo autore ci sono arrivati una sessantina di titoli e numerosi frammenti. Ricordiamo tre titoli di drammi utilizzati da Plauto: l' [Emporo", il Mercante da cui deriva il Mercator, lo Qesaurov", il Tesoro, modello del Trinummus (I tre soldi)
 E il Favsma, il Fantasma, modello della Mostellaria (la commedia del fantasma: mostellum).
Plauto ha poi derivato le Bacchides dallo Di; ς ejxapatw̃n di Menandro, “Colui che inganna due volte.
Il Favsma è forse di Menandro

Leopardi nello Zibaldone (pp. 41 - 42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli antichi comici... consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole... quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace... quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeu; " ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10 - 16 dello Stratiwvth", dove Filemone stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno".



Difilo nacque intorno alla metà del IV secolo a Sinope sul Ponto da dove si trasferì presto ad Atene. Morì a Smirne, sulla costa ionica dell'Asia minore agli inizi del III secolo. Ci sono arrivati una sessantina di titoli e frammenti meno numerosi ma più estesi di quelli di Filemone. Una delle sue commedie aveva come protagonista la poetessa Saffo corteggiata da Archiloco e Ipponatte.
Plauto nei Commorientes imitò i Sunapoqnhvskonte", coloro che vogliono morire insieme, dramma dal quale Terenzio tradusse "verbum de verbo " parola per parola un "locus ", una scena, che Plauto lasciò "integrum " intatta, e per questo poté essere inserita, con una contaminatio, negli Adelphoe (Prologo, vv. 9 - 11) del resto ricavati dagli jAdelfoiv di Menandro.
Plautus cum latranti nomine (Casina, 34) utilizzò Difilo anche per il Rudens (La gomena, ma non si conosce il titolo del modello) e per la Casina la sua ultima commedia, del 185. Càsina è la ragazza del caso, derivata dai Klhrouvmenoi, (Coloro che tirano a sorte). Anche la Vidularia (La commedia del baule, vidulus, è modellata su una commedia di Difilo, Scediva, la Zattera.

Occupiamoci quindi di Menandro. Visse fra il 342 e il 292 sempre ad Atene, da dove non volle mai allontanarsi nonostante inviti di potenti come Tolomeo I Sotèr che lo chiamò alla corte di Alessandria. Fu discepolo di Teofrasto, il successore di Aristotele nella direzione della scuola peripatetica, dal quale ricavò una buona preparazione filosofica e forse alcuni suggerimenti dai Caratteri, trenta schizzi di tipi umani, ciascuno con una inclinazione predominante: la rusticità, l'adulazione, la superstizione, la diffidenza; abbiamo menzionato questi quattro titoli non a caso ma perché corrispondono ad altrettanti protagonisti eponimi di commedie di Menandro il cui debito del resto non va molto oltre la denominazione, siccome nel poeta i caratteri hanno uno sviluppo ben più ampio, e poiché l'interesse per la psicologia umana era diffuso nell'epoca tra pensatori di scuole diverse. Infatti si sono voluti trovare in Menandro influssi anche di Epicuro, suo coetaneo e compagno di efebia. Particolarmente sarebbe epicureo il v. 734 di L'arbitrato:
"non si occupano dunque di noi gli dèi? ", ma non è sicuro che l'apertura del Giardino epicureo (306 a. C.) sia antecedente a questa commedia che pure risale alla maturità artistica di Menandro.
 Le influenze più consistenti in ogni caso derivano dal Peripato come viene indicato dallo studio di A. Barigazzi: "La formazione spirituale di Menandro " del quale riferiremo alcune affermazioni esaminando le commedie. Menandro ne compose più di cento, ma sino alla fine del secolo scorso conoscevamo solo un migliaio di frammenti e 758 Massime (Gnw'mai) monostiche, forse nemmeno tutte autentiche. Molto nota è la sentenza "oJvn oiJ qeoi; filou'sin ajpoqnhvskei nevo" ", fortemente pessimistica, usata da Leopardi (il quale nello Zibaldone 3487 definì l'autore "principe" della commedia nuova) come epigrafe del Canto Amore e Morte in questa traduzione:
" Muor giovane colui ch'al cielo è caro".
 Assai più significativo della visione menandrea del resto è il fr. 484 Kö che fa: "wJ" cariven e[st j a[nqrwpo", a]n a[nqrwpo" h/\
"che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo davvero!".
Dai primi del Novecento in avanti sono stati scoperti papiri che hanno permesso una discreta conoscenza di Menandro: un fortunato reperimento del 1905 portò alla luce cinque commedie le cui lacune non impedivano la comprensione generale. La più estesa e nota è l'Arbitrato ([Epitrevponte"); altre tre si chiamano la Ragazza di Samo, la Tosata e l'Eroe; la quinta è tuttora senza titolo.
Nel 1958 è stato pubblicato un codice con una commedia intera, Duvskolo", il Misantropo, che cercherò di rendere familiare ai miei studenti. Ancora più di recente sono state trovate parti dello Scudo, di L'uomo di Sicione e di altre commedie, ma non voglio proseguire con l'elenco.
 Menandro non ebbe successo in vita, come attesta il verso di Marziale (V, 10, 9): "rara coronato plausere theatra Menandro ", raramente i teatri applaudirono Menandro vincitore.
 Il poeta ebbe comunque coscienza del proprio valore, tanto che, secondo la testimonianza di Aulo Gellio (Noctes Atticae XVIII, 4) una volta domandò al più fortunato Filemone: "cum me vincis, non erubescis? ", quando mi vinci non arrossisci dalla vergogna?, e da morto fu tanto considerato dagli autori latini che Ovidio, ritenendolo principe e padre della commedia nuova e delle sue figure fisse, ebbe a scrivere (Amores, I, 15, 17 - 18):
"dum fallax servus, durus pater, improba lena/
vivent et meretrix blanda, Menandros erit ", finché ci sarà lo schiavo ingannatore, il padre severo, la ruffiana disonesta e la cortigiana adulatrice, ci sarà Menandro.

 In effetti abbiamo visto che il commediografo ateniese venne utilizzato tanto da Plauto quanto, soprattutto, da Terenzio che Cesare chiamò " o dimidiate Menander ", Menandro dimezzato, e che prese dal modello greco non solo l'intreccio e le scene di quattro delle sei commedie a noi pervenute (Andria, Eunuchus, Adelphoe, Heautontimorumenos) ma anche la più celebre delle sue sentenze umanistiche
"homo sum: humani nil a me alienum puto " (Heaut. 77), sono uomo: niente di ciò che è umano non mi riguarda. E' questo un verso ideologico e programmatico per entrambi gli autori.
Altro tema considerato tipico della commedia menandrea è quello amoroso: Ovidio, poeta mulierosus, donnaiolo, e lascivus, sensuale, seppure non "desultor amoris ", saltimbanco dell'amore, come tiene a precisare lui stesso (Amores, I, 3, 15), trova in Menandro un predecessore e un maestro: "Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri (Tristia, II, 369): ", nessuna commedia del piacevole Menandro è senza amore.
 L'amore prende vari aspetti: il più comune è quello dell'affetto che, per esempio, provano reciprocamente Carisio e Panfile, gli sposi di L'arbitrato, ma c'è anche la gelosia di Polemone per Glicera in La tosata e un ricordo dello stupro subito dalla stessa Panfile.

 Un amore del resto non contaminato dalla volgarità: Plutarco nella Comparatio Aristophanis et Menandri elogia la decenza e il decoro di Menandro in confronto alla volgarità di Aristofane. 


continua


1 commento:

Ifigenia CLXIX Lo specchio delle mie brame. Ben detto, vecchia talpa!

  Tornammo dentro. Tutto intorno   una folla di chiassosi, agitati o indifferenti. “ E’ tornata dell’orda primordiale” pensai. Andai...