domenica 7 febbraio 2016

La commedia nuova. Menandro. III parte

Atene

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Prima di entrare nell'analisi della poetica e della poesia del drammaturgo greco però vale la pena di spendere due parole sui suoi tempi.
 Menandro apparteneva alla cerchia di Demetrio del Falero che dal 317 al 307 governò Atene per conto di Cassandro che fu prima reggente (319 - 306) per conto del padre Antipatro, poi re (306 - 294) di Macedonia. Questo governo, moderatamente oligarchico, abolì il fiscalismo democratico delle liturgie e garantì una certa tranquillità alla classe abbiente.
Nel 307 Demetrio Poliorcete, “l'assediatore di città”, - povli", e{rko" “chiusura” - conquistò Atene instaurando una democrazia formale, non senza favorire il culto della personalità, la propria e quella del padre Antigono Ciclope, da parte degli Ateniesi.
Menandro se la cavò grazie all'intercessione di un parente del nuovo padrone della polis.
Il Poliorcete perse Atene in seguito alla battaglia di Ipso (301) nella quale suo padre Antigono fu sconfitto e ucciso dagli altri diadochi: Cassandro, divenuto anche signore della Grecia, mise a capo di Atene il tiranno demagogo Lacare; ma dopo la morte di Cassandro, nel 294, Demetrio riconquistò Atene, quindi divenne pure re di Macedonia; nel 290 però fu sconfitto da Pirro, e nel 288 Atene, guidata dallo stratego Olimpiodoro, gli si rivoltò contro.
Il grande avventuriero Demetrio finì battuto da Seleuco I, re della parte asiatica dell'impero di Alessandro, e morì nel 283 suo prigioniero. Tuttavia suo figlio Antigono Gonata riconquisterà la Macedonia (277) e fonderà la dinastia degli Antigonidi.

 Abbiamo raccontato alcune fasi della vita del Poliorcete non solo per l'influenza che ebbe su quella di Menandro i cui drammi per altro, essendo borghesi e impolitici, non presentano riflessi chiari di questi avvenimenti, ma perché questa biografia avventurosa venne interpretata come un segno dell'onnipotenza alterna di Tuvch (la Fortuna) la divinità volubile e capricciosa che nell'età ellenistica sostituisce gli dèi olimpi.
Plutarco nella suaVita di Demetrio (35) fa questo commento: "Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo: "Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi" (fr. 359 Nauck).

La Fortuna dunque è pure la divinità di Menandro: nel Misantropo, Sostrato, un giovane ricco vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella.
Il padre Callippide risponde: "Non voglio prendermi insieme un genero e una nuora pezzenti" (795),
 Ebbene, Sostrato risponde: “ tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo ma della Sorte (v. 801) che come ha dato può togliere.
Cfr. Il mutua accepimus di Seneca
Dobbiamo aspettarci i tiri mancini della fortuna: faranno meno male. Ogni volta che qualcuno cadrà al tuo fianco dovrai esclamare: ”alium quidem percussisti, sed me petisti” (Ad Marciam, 9, 3), ora hai colpito un altro ma hai mirato a me! I nostri beni, materiali e umani, ci sono dati in prestito, nostro è soltanto l'usufrutto: “mutua accepimus. Usus fructusque noster est » (10, 2). Tutto viene trascinato via.
“In questa rapina rerum omnium (Marc. 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima” afferma Traina[1]. Infatti Medea in tutta la tragedia rivendica il suum esse del De brevitate vitae[2]. Avendo davanti agli occhi questa visione d'insieme bisogna moderare il dolore: dovete farlo soprattutto voi donne “quae immoderate fertis” (Ad Marciam, 10, 7) che lo portate in maniera smodata.

 Da questa assolutizzazione della Fortuna discende l'affermazione della necessità del sostegno e del soccorso reciproco: con quello che abbiamo, per morale e per logica, bisogna:
"aiutare tutti" (807).
 Il modello anche in questo caso è Euripide che nelle Fenicie (vv. 553 - 558) fa dire a Giocasta:
"che cosa è il più? soltanto un nome:
poiché ai saggi basta il necessario.
Questi mortali tengono la ricchezza come cosa propria,
ma quando vogliono gli dèi la portano via di nuovo.
Il benessere non è sicuro ma effimero".

La morale della solidarietà ha un seguito nella Stoà, una delle grandi scuole filosofiche dell'età ellenistica, fondata ad Atene da Zenone intorno al 300 a. C.
 Marco Aurelio, l'imperatore (161 - 180 d. C.) filosofo, scrive (Ricordi, II, 1): "noi siamo nati per darci aiuto reciproco, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti".
L'umanità di Menandro dunque tende ad essere comprensiva e gentile senza nulla di grande nel bene e nel male: l'amore è soave piuttosto che tremendo come in Saffo, e anche gli altri sentimenti non hanno nulla di apocalittico.
La sua poesia sta nella bontà e nella comprensione che l'uomo deve all'uomo. I suoi personaggi solitamente rifuggono dai sentimenti volgari: perfino le etère, come Abrotono di L'arbitrato sono capaci di finezza d'animo e generosità. I classicisti dell'età imperiale, quando vollero difendere l'eticità della cultura greca davanti alle accuse dei Cristiani, indicarono i testi di Menandro che si svolgono in un clima di generosità, mitezza e di parola castigata.


continua



[1]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca, p. 13.
[2] Composto tra il 49 e il 52: “Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est”, 2, 4,, quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso. 

1 commento:

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