venerdì 26 febbraio 2016

Introduzione alla tragedia greca: Eschilo. Parte III

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Bruno Snell sostiene che nella tragedia di Eschilo “l’uomo riconosce per la prima volta se stesso come autore delle sue decisioni”[1]. Infatti mentre “gli uomini omerici agiscono senza titubanza, con sicurezza, poiché nessuno scrupolo, nessun dubbio li tormenta, nessuna responsabilità di fronte alla giustizia e all’ingiustizia”, nelle tragedie di Eschilo invece “l’uomo, mentre acquista coscienza della propria libertà, assume il peso della responsabilità personale di fronte all’azione. Meglio di tutte lo dimostra l’ultima trilogia di Eschilo, l’Orestiade… Oreste ha il dovere di vendicare il padre, ma per vendicarlo dovrà uccidere la madre. Egli compirà quest’azione, ma soltanto dopo aver sentito tutta la gravità della sua decisione. Il contrasto fra libertà individuale e destino, fra colpa e fatto, si presenta così per la prima volta nel mondo, ed è questo contrasto che divide il mondo degli dèi da quello degli uomini. Oreste si trova preso tra i voleri contrastanti degli dèi, anzi l’ultima parte della trilogia finisce con la lotta fra le potenze nemiche, fra le Eumenidi cioè che vogliono vendicare il matricidio di Oreste, e Apollo che alla fine lo assolve”. Si tratta di una lotta tra matriarcato e patriarcato che prevale minimizzando il ruolo delle madri nella società e perfino nella generazione dei figli. Ma questo aspetto lo vedremo meglio più avanti.
Procediamo con il libro di Snell: “ Queste due divinità pongono all’uomo diverse esigenze, questi si trova, in un certo senso, abbandonato a se stesso. I valori univoci vengono messi in forse, l’uomo si arresta nello svolgimento naturale della sua azione e deve decidere da sé che cosa sia giustizia e che cosa ingiustizia. Un’umanità nuova e una nuova naturalezza si rivelano in lui: la consapevolezza della libertà e dell’azione autonoma. Così egli si scioglie necessariamente dai suoi antichi legami religiosi e sociali, e si giunge a quello stato di cose, per cui Aristofane rimprovera così aspramente Euripide”[2]. Stato di cose e rimproveri che vedremo studiando Euripide.
Il conflitto tra le divinità si trova anche nel tragediografo più giovane: “L’Ippolito di Euripide ha in comune con l’Orestiade di Eschilo il fatto che il conflitto del dramma trova riscontro nel conflitto fra due divinità. Una differenza essenziale è data però dal fatto che il conflitto fra gli dèi non sorge in Euripide per un determinato caso, ma è piuttosto una lotta di principî; e non si tratta qui di un’azione giudicata in modo diverso da due diverse divinità, che vengono a conflitto. Ancora: nella tragedia di Eschilo Apollo trionfa sulle Erinni, e una religione più serena prevale sulle antiche forme tenebrose del culto; la conclusione della tenebrosa vicenda acquista così un profondo significato. In Euripide invece tutti e due i protagonisti vengono annientati e il conflitto delle due divinità rimane inconciliabile”[3].

Alla fine delle Supplici, le Danaidi pregano la casta Artemide di guardarle con compassione salvandole dalle nozze, ma le loro ancelle affermano e consigliano di non trascurare Cipride. Anche Afrodite è una dea venerata per le sue opere. Del suo corteggio fanno parte Desiderio, Persuasione seducente, e Armonia. Il pensiero di Zeus è imperscrutabile e il matrimonio potrebbe essere la realizzazione delle figlie di Danao come di molte donne prima di loro (vv. 1049-1052).
La tragedia si conclude con le minacce dell'arrogante araldo egiziano contro gli Argivi difensori delle Danaidi le quali oppongono resistenza a ogni tentativo di moderarle. Esse pregano Zeus "di liberarle da nozze rovinose con sposi malvagi"(v. 1064) e che "conceda la vittoria alle donne"( kai; kravto" nevmoi gunaixivn, v. 1069).
 Eschilo tende ai compromessi e nelle sue tragedie non c'è mai un vincitore assoluto. Alla fine della trilogia, Afrodite stessa compariva sulla scena celebrando la necessità cosmica di Eros. Non possiedo queste parole, tramandate dalla tradizione indiretta, e mi affido al già citato testo di Pohlenz:" Mia opera è quando il cielo e la terra si congiungono in un ardente amplesso, quando l'umore del cielo feconda la terra, sì ch'essa in pascoli, in campi, in selve, genera ciò di cui l'uomo abbisogna per vivere". L'eros , il desiderio d'amore non è solo un istinto individuale dell'uomo; è una potenza cosmica primigenia che suscita ogni vita. Questo pensiero, che Platone svilupperà nel Convito , vien qui già intuitivamente adombrato. Risparmiando il marito, anche Ipermestra ha reso omaggio alla dea dell'amore"[4].

Ora vediamo come si arriva alla conciliazione delle Eumenidi  (Eujmenivde~) raccontando l’ultima tragedia dell’Orestea per sommi capi. Le Eumenidi sono le stesse Erinni che solo alla fine dell’ultima tragedia tragedia della trilogia, e dopo aspra lotta, diverranno, appunto, benevole.
La prima parte del dramma si svolge a Delfi. Nel Prologo  compare la Pizia sacerdotessa di Apollo,"profeta di Zeus"(v.19). La donna è una figura che impersona il sincretismo religioso cui Eschilo tende, quindi ella adora anche Gea, la Terra "che fu la prima profetessa"(v. 2) e Temide che nel Prometeo incatenato è la madre del Titano identificata con la terra[5], mentre qui Temide è figlia della Terra cui succedette nell'oracolo (v. 3); poi fu la volta di Febe, un'altra figliola della Terra, che consegnò l'oracolo ad Apollo il quale prese così il nome di Febo quando arrivò "alle sedi del Parnaso"(v. 11).
il culto della Pizia del resto non dimentica "Pallade Pronáia[6]" (v. 21) , né le ninfe della "cava rupe Coricia, amica degli uccelli"(v. 23). Insomma la toponomastica definisce e consacra il luogo che verrà rappresentato da tanta parte della poesia europea: Ovidio nelle Metamorfosi (I, vv. 316-317) fa apparire la montagna sacra dalle due cime in questi termini:"mons ibi verticibus petit arduus astra duobus,/nomine Parnasus, superantque cacumina nubes ", là  l'erto monte chiamato Parnaso mira alle stelle con le due vette, e i gioghi vanno oltre le nubi. Dante all'inizio del Paradiso  dovrà invocare "amendue[7]" (I, v. 17) i gioghi "di Parnaso" per entrare "nell'aringo rimaso"(v.18).
La profetessa non trascura Bromio il quale “occupa il luogo da quando il dio si mise a capo della guerra delle Baccanti "(vv. 24-25).
Questo è Dioniso, il dio delle plebi, il cui culto durò fatica ad affermarsi accanto a quello aristocratico di Apollo. Omero nell'Iliade (VI, vv. 130-140) racconta un episodio di repressione del culto dionisiaco. Euripide con le Baccanti  invece narra l'affermarsi della religione bacchica  tra le donne di Tebe e pure lui annuncia il compromesso tra le due religioni e le due culture: l'apollinea e la dionisiaca
"inoltre tu lo vedrai anche sulle rupi delfiche saltare con fiaccole di pino sul pianoro dalle due cime, agitando e scuotendo il ramo bacchico, grande per l'Ellade"( Baccanti, vv.306-309).
Sentiamo “il grande junghiano”[8] James Hillman:
“Il richiamo di Dioniso tende a scompaginare il corso normale della civiltà, e infatti Atena, la sua saggia custode, vietava l’ingresso del capro di Dioniso nel proprio territorio. Dioniso, “Signore delle donne”, chiamava a partecipare ai suoi riti entrambi i generi e tutte le età della vita. Per seguirlo nelle sue danze selvagge sulle colline, le donne invasate abbandonavano i doveri domestici. Nelle Baccanti di Euripide, due vegliardi dai capelli grigi accorrono per danzare con lui “tutta la notte e tutto il giorno. E’ difficile, negli anni vacillanti, impotenti ma pieni di fantasie della vecchiaia, accettare il fatto di essere seguaci di Dioniso più di quanto lo si sia mai stati in gioventù, quando ci vedevamo come grandi scopatori dall’appetito insaziabile”[9]
Questa affermazione del culto di Bacco fu pagata con la morte dall'oppositore Penteo, ucciso dal dio che "tessé una trama di morte contro Penteo, come fosse una lepre lagw; divkhn", ricorda la Pizia ( Eumenidi, v. 26) [10]. Le ultime invocazioni della profetessa vanno, oltre che alla potenza di Poseidone, alle fonti del fiume Plisto, e a Zeus.

Quindi la Pizia entra nel tempio, ma ne esce subito sgomenta: ha visto:"sull'ombelico, un uomo esecrato dagli dèi, in posizione di supplice, con le mani che gocciano sangue" (Eumenidi, vv.40-42). Queste reggono la spada del matricidio e un ramo d'olivo avvolto in bende di lana. Vicino a lui "una strano battaglione di donne dorme stando sopra i sedili, nemmeno donne, ma Gorgoni dico"(vv.46-48), anzi peggiori delle Gorgoni, simili ad Arpie, ma ancora più brutte:" senza ali a vedersi queste, e nere e abominevoli, e russano con aliti inavvicinabili e dagli occhi stillano sgradevoli umori"(vv. 51-54).
 Tali creature, ricorda Rohde in Psiche, "appartengono a quella "mitologia inferiore", che raramente penetra in Omero, la quale vorrebbe conoscere molte cose che stanno fra cielo e terra, di cui l'epos aristocratico non ha notizia alcuna. In Omero esse non operano di propria autorità; ma soltanto come ancelle degli dèi o di un dio, rapiscono i mortali trasportandoli là, dove non penetra nessuna notizia e potenza umana" (p.76).

Quindi interviene Apollo a maledire: "le abominevoli ragazze vecchie fanciulle antiche cui non si congiunge mai uno degli dèi né un uomo né una fiera. Per il male esse nacquero, dato che abitano la tenebra[1] malvagia e il Tartaro sotterraneo, odio degli uomini e degli dèi olimpi"(vv. 68-73).
“Il Tartaro è la prigione sotterranea riservata ai peccatori senza speranza e agli dèi prigionieri, il luogo più buio dell’universo: ved. Esiodo, Theog. 720-819.[2]
Il dio consiglia a Oreste di rifugiarsi nella città di Pallade (v. 79), ad Atene, dove egli, il profeta di Zeus, lo farà assolvere dai giudici. Febo dunque si prende la responsabilità dell'accaduto: "Fui io infatti a persuaderti ad ammazzare il corpo della madre"(v. 84). Vedremo che nelle tragedie di Euripide gli dèi non sono altrettanto responsabili. Soprattutto Apollo viene criticato.
 Oreste dunque viene confortato da un Febo coerente e giusto (v.85) che affida il suo protetto al fratello Ermes, poi se ne va.
Quindi appare l'ombra di Clitennestra che rimprovera le Erinni per la loro passività. Esse infatti dormono. Eppure, riconosce la madre assassinata: "l'anima che dorme risplende di occhi, mentre di giorno la parte assegnata ai mortali non vede con chiarezza" (vv.104-105).
 Gli occhi della mente dunque sono più acuti di quelli facciali o della facciata, e la visione notturna può essere chiaroveggente più della vista diurna, spesso fallace, come attestano il cieco Tiresia, Edipo accecatosi, e come del resto ripropone il metodo di Freud.


continua





[1] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 176.
[2] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 177.
[3] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 181
[4]M. Pohlenz, La tragedia greca , p. 61.
[5] Qevmi"-kai; Gai'a, pollw'n ojnomavtwn morfh; miva"( vv. 209-210), Temide e Terra, una sola forma di molti nomi. Prometeo che  è una creatura della Magna mater,  la divinità femminile mediterranea, racconta, poiché "l racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore "(v. 197)  che la madre gli aveva predetto il futuro.
[6] La cui statua cioé si trova davanti al tempio 
[7]Nisa, sede delle Muse, e Cirra sacro ad Apollo.
[8] F. Frabboni, Sognando una scuola normale, p. 105.
[9] La forza del carattere, pp. 167-168.
[10] Questo Dioniso vendicativo e crudele della tragedia di Eschilo ed Euripide invero si trova in contraddizione con quello già menzionato di Omero che nel VI dell'Iliade  lo raffigura mentre "spaventato si immerse nel flutto marino" dove "Tetide lo accolse nel suo seno terrorizzato e tremante "(vv. 133-135) perché aveva subito le minacce e l'inseguimento di "Licurgo omicida"(v. 132). Spaventato appare anche il Dioniso delle Rane   che Aristofane rappresenta mentre  fugge, terrorizzato da Empusa, tra le braccia del suo sacerdote (v. 297). Quindi il servo Xantia ha l'impudenza di apostrofarlo con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uonmini!"(v. 486). Del resto il dio se l'era voluta cacandosi addosso dalla paura (v.479) solo al sentire parlare di mostri.
Questi, si potrebbe obiettare, sono soltanto lazzi scatologici, ossia stercorari, di "quel pagliaccio di Aristofane", ma non dobbiamo dimenticare che il travestimento derisorio di Socrate contribuì alla sua condanna a morte e, dunque bisogna inferirne che tali parodie della commedia antica erano radicate in un sostrato di opinioni correnti e popolari.
Del resto anche il Dioniso di Sofocle non è il nume sanguinario di Euripide: nell'Antigone anzi, se è vero che il dio punisce la violenza di Licurgo, del resto senza spargimento di sangue: ("E fu aggiogato il collerico figlio di Driante re degli Edoni, per le ire oltraggiose rinchiuso da Dioniso in una prigione di pietra",  Antigone, vv. 955-958), è pur vero che il dio rappresenta la gioia giovanile della danza e del libero gioco in termini tanto terreni quanto cosmici:"Oh tu che guidi le danze degli astri che spirano fuoco, custode dei canti notturni, ragazzo progenie di Zeus, appari, signore, insieme con le tue seguaci Tiadi che impazzite, per tutta la notte festeggiano, ballando, Iacco dispensatore"(Antigone, vv. 1146-1152). Una dimensione ludica che viene confermata dall'Edipo re :"sia che il dio bacchico il quale abita sulle cime dei monti ti abbia accolto come trovatello da una delle Ninfe dell'Elicona, con le quali gioca moltissimo"(vv. 1104-1108).
Arriano forse ci dà una spiegazione di queste contraddizioni ricordando che come ci sono tre Eracli diversi, allo stesso modo gli Ateniesi venerano un altro Dioniso,  figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo Dioniso, non a quello tebano (Arriano, Anabasi di Alessandro,  2, 16, 3).
[1] Sono dunque divinità fatte per quanti preferiscono le tenebre alla luce, poiché, come dice il Vangelo di Giovanni:" erant enim eorum mala opera ", le loro opere erano malvagie(3, 19). 
[2] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 359.

1 commento:

  1. Più che mai attuale, adesso due uomini divengono mamma,..o papà ?Giovanna Tocco

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