giovedì 11 febbraio 2016

La commedia nuova. Menandro. V parte

Scena bucolica dal Vergilius Romanus

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I due aiutanti, Cherea e Pirria, vorrebbero rimandare l'incontro ma si avvicina il pazzo in persona, sempre gridando:
"quanto era beato Perseo per due ragioni:
poiché aveva le ali
e non si incontrava nessuno di quelli che camminano per terra,
poi perché possedeva un arnese con il quale
trasformava in pietre tutti gli scocciatori" (153 - 157).
Si ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con la testa della Gorgone.
Cnemone vorrebbe essere come lui:
"cosa che vorrei capitasse
pure a me! Non ci sarebbe niente di più abbondante
che le statue di pietra da tutte le parti!" (157 - 159).
Il vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"non si può più vivere, per Asclepio.
Mettono piede nel mio podere e fanno chiacchiere (lalou's j) " (160 - 161). La chiacchiera è la più radicale antitesi dell’essere, delle idee, della sostanza delle cose.

Questo bisogno di solitudine, condannato da Omero a Menandro come disumano, più avanti, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in "turba ", folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario.
Prendiamo Seneca tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia, omicidi veri e propri: " avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio allora è: "recēde in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
Un'eco in Nietzsche: “c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto per la moltitudine”[1]. E poi: “ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[2].

In altri tempi (1938) Pavese scrive: "Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di vivere, 8 dicembre). E più avanti (15 ottobre, 1940): "Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". E infine (25 aprile 1946): "Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano". E' pur vero che questo nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.

Tornando al misantropo, Cnemone vede Sostrato davanti alla porta di casa sua e invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!" (ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, v. 169). Sembra un'anticipazione del monachesimo.

 L'innamorato si scusa dicendo di aspettare una persona, ma il vecchio entra dritto in casa lamentando di sentirsi oltraggiato (178).
Allora Sostrato decide di chiedere aiuto a Geta, lo schiavo di suo padre:
"egli ha qualche cosa di infuocato (e[cei ti diavpuron) ed esperienza
di faccende di ogni tipo" (183 - 184).
Dunque può avere la meglio pure sul caratteraccio del misantropo. Ecco che appare uno dei tarli di questa società urbana e cortese: gli schiavi sono più attivi e intelligenti dei padroni i quali non vanno oltre la comprensione e le buone maniere. Non solo manca l'antico spirito civico in tutti i personaggi di Menandro, ma in quelli liberi anche l'intraprendenza nelle faccende che stanno loro più a cuore: è iniziata quella paralisi della classe colta che porterà al trionfo degli schiavi.
Nel Satyricon leggiamo (129): " adulescens, paralysin cave ", guardati dalla paralisi ragazzo; e poco dopo (131): "quid est - inquit - paralytice? ecquid hodie totus venisti? ", come va - disse - paralitico? Oggi sei venuto tutto intero?
Augusto deplora il fatto che senatori e cavalieri non si sposavano e non facevano figli e li chiama assassini della stirpe (cfr. Cassio Dione)
Cassio Dione racconta che Augusto nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi. Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice dei figli ("a[riston gunh; swvfrwn oijkouro; " oijkovnomo" paidotrovfo" " (LVI, 3, 3) ed è una grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri figli; inoltre anche la comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, LVI, 3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi l’imperatore parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta: "a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j ajgorai; ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini[3].
Poi Augusto accusò i celibi paragonandoli ai briganti e alle fiere selvatiche: voi, disse, non è che volete vivere senza donne, visto che nessuno mangia o dorme solo: "ajll' ejxousivan kai; uJbrivzein kai; ajselgaivnein e[cein ejqevlete" (LVI, 4, 6 - 7), ma volete avere la facoltà della dismisura e dell'impudenza. Infine il Princeps senatus ammise che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunse, non mancano i vantaggi. Ci sono per giunta i premi promessi dalle leggi: "kai; ta; para; tw'n novmwn a\qla", 8, 4).

Torniamo al Dyskolos
Si apre la porta della casa ed entra in scena la figlia (kovrh) che si lamenta poiché:
"la nutrice attingendo
ha fatto cadere la secchia nel pozzo (to; n kavdon... eij" to; frevar) " (190 - 191).
Sostrato è abbagliato da quella bellezza "insuperabile" e le offre aiuto; quindi dice a se stesso, quasi sbigottito, che la fanciulla:
"ha un'aria nobile e semplice (a[groiko", 202) rivalutando quella rusticità (ajgroikiva) che nel padre di lei aveva fatto tanto brutta figura.
Probabilmente la brutta rusticità del padre era servita a concimare quel fiore.

“Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno[4] era servito solo da fertilizzante”[5].

Socrate all’inizio del Fedro aveva detto che preferiva la campagna alla città: “filomaqh; ς gavr eijmi: ta; me; n ou\n cwriva kai; ta; devndra oujdevn m j ejqevlei didavskein, oiJ d j ejn tw̃/ a[stei a[nqrwpoi (230D), io infatti amo imparare: i campi e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, gli uomini nelle città invece sì.

Nel secolo successivo in effetti cresce la simpatia per la rusticità.
L'uomo di cultura del III secolo vede circonfusa di luce radiosa la vita di pastori e contadini, con tutto il primitivo. Così Callimaco apprezza la felicità della misera capanna di Ecale, e Aconzio cerca la solitudine in mezzo ai boschi. La natura è il paradiso perduto dei moderni uomini civilizzati. Nelle città si cercava l'avvicinamento alla natura con mezzi artificiali: i Tolomei fecero piantare giardini e boschetti ad Alessandria; ad Antiochia, i Seleucidi fecero costruire passeggiate con giochi d'acqua. Nel II d. C. Adriano farà ricostruire a Tivoli la valle di Tempe. Ad Alessandria fu costruita una collina artificiale e i templi si costruivano a contatto con la natura in boschi o su promontori marini; del resto i templi di Dodona, di Delfi, di capo Sunio erano già tali. Anche i privati si fanno costruire case con giardini e fontane, e si fanno affrescare con paesaggi le pareti delle case. L'arredamento è più curato rispetto all'età classica quando interessava meno poiché si passava la vita fuori di casa. Allora la plastica si occupava essenzialmente del corpo umano; in epoca ellenistica troviamo accenni paesaggistici anche nelle sculture, come il Fauno Barberini (III sec. a. C.) steso su una roccia.
Enrico VI di Shakespeare dirà: “Che vita felice, se fossi un semplice pastore!” (III, 5).

 Quindi entra Davo, il servo di Gorgia, il fratellastro della kovrh, la ragazza che continueremo a chiamare così poiché non ha nome. Questo schiavo si lamenta della povertà che coabita "continuamente" (210) con loro.

La povertà era diffusa nell'Attica del IV secolo: Isocrate nell'Areopagitico (del 357) denuncia la decadenza economica di Atene: "ora sono in maggior numero i bisognosi rispetto agli abbienti" (nu'n de; pleivou" eijsi; n oiJ spanivzonte" tw'n ejcovntwn, 83). L'oratore indicava un rimedio nel ritorno al predominio dell'Areopago, quando nessuno chiedeva la carità.
 Menandro piuttosto nella filantropia e nei matrimoni tra poveri e ricchi. Intanto però i diseredati cominciavano ad agitarsi gridando: "abolizione dei debiti!" e "distribuzione delle terre!".
Un'espressione che si trova già nella Repubblica platonica, del 370: "kai; uJposhmaivnh/ crew'n te ajpokopa; " kai; gh'" ajnadasmovn" (566a), e proclami cancellazioni di debiti e distribuzioni di terre.
Intanto Davo vede Sostrato indaffarato per aiutare la sorella del padrone e commenta:
"che guaio è mai questo? Non mi piace
per niente la faccenda. Un giovane rende un servizio
alla ragazza: non sta bene" (218 - 220).
Quindi manda mille accidenti a Cnemone
 "che ha lasciato in solitudine una ragazza priva di malizia
senza la sorveglianza conveniente" (222 - 223).
La fanciulla secondo Davo è in pericolo poiché l'uomo è cacciatore e Sostrato si è buttato sulla preda "considerandola come un tesoro" (225 - 226); quindi corre ad avvisare il fratello.



continua

[1] Ecce homo, p. 37.
[2] Di là dal bene e dal male, p. 50.
[3] ll problema del calo demografico, adesso di nuovo attuale, era stato posto già nel II secolo a. C., per il mondo ellenico, da Ocello lucano e da Polibio il quale viceversa notava la virtù delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie viene ricordata la crisi demografica della Grecia, una carenza di bambini e un generale calo di popolazione ("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI 17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non occorrono veggenti né operatori di magie! 
[4] Peppe ‘Mmerda’.
[5] Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 81. 

1 commento:

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