martedì 16 febbraio 2016

La commedia nuova. Menandro. VII parte

Menandro in un affresco di Pompei

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Cnemone dunque conserva alcune idee e precetti della tradizione poetica: in questa sua posizione infatti si trova il motto esiodeo che non il lavoro è vergogna, ma l'ozio, e anche il "lavoratore in proprio" dell'Oreste di Euripide, uno di quelli che soli salvano la terra (v. 920). Oltretutto il vocabolo usato per indicare chi lavora con le sue mani è il medesimo nei due testi drammatici (aujtourgov").
Sostrato è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo: anche a travestirsi da contadino:
"procurami una zappa a due punte" (374) chiede a Davo, e quando questo gliela porge, lo ringrazia con un'espressione iperbolica:
"dammela, tu mi salvi la vita" (377).
Oramai tutti gli interessi del giovane scioperato sono concentrati sulla fanciulla:
"sono messo così: a questo punto devo morire
oppure vivere con la ragazza" (378 - 379).
Attraverso queste parole vediamo quanto si sia chiuso nel privato l'uomo ateniese rispetto all'epoca classica quando l'interesse principale era la polis con le assemblee, i riti religiosi e tutte le manifestazioni pubbliche.
Segue un breve monologo di Sostrato che elogia l'educazione presumibilmente ricevuta da quella creatura innocente:
"Se questa ragazza non è stata educata tra
le donne e non conosce nessuno di questi mali
nella vita e non è stata terrorizzata da qualche
zia e balia ma è venuta su liberamente
con questo padre selvaggio che odia il male,
come potrebbe non essere la mia felicità unire la mia sorte alla sua"? (384 - 389).
Qui troviamo un ricordo euripideo (la donna non deve stare tra le donne poiché si insegnano le male arti a vicenda, cfr. Andromaca vv. 930 e sgg.) e anche un apprezzamento dello stile rustico, lontano dai formalismi e dalle falsità di quello cittadino.
Intanto i servi di Sostrato preparano il sacrificio ordinato dalla padrona dopo che ha fatto un brutto sogno: ha visto il figlio che, per volontà del dio Pan, zappava con dei ceppi ai piedi.

Dopo l'intermezzo corale (Corou') comincia il Terzo Atto (427 - 619).
Cnemone esce di casa ordinando alla vecchia serva di chiudere la porta e di non aprire a nessuno finché non sia tornato:
"grau', th; n quvran kleivsa" j a[noige mhdeniv,
e{w" a]n e[lqw deu'r j ejgw; palin" (427 - 428).
Questi versi sono indicati quali modello indiretto di quanto dice Euclione, l'avaro protagonista dell'Aulularia di Plauto alla vecchia Stafila:
"Abi intro, occlude ianuam; iam ego hic ero.
Cave quemquam alienum in aedis intromiseris " (89 - 90), vai dentro, chiudi la porta; io sarò qui a momenti. Bada di non lasciar entrare nessun estraneo in casa.
 Non bisogna dimenticare però che mentre Euclione è essenzialmente un tirchio, Cnemone è un asociale.

Quindi il misantropo si imbatte nel corteo guidato dalla madre di Sostrato. Al vecchio naturalmente la visione della gente dà fastidio:
"Che cosa vuol dire questo malanno?
Una folla (o[clo" ti"). Vai in malora!" (431 - 432).
 La madre di Sostrato e il servo Geta si scambiano battute sulla preparazione del sacrificio quindi entrano nel ninfeo, un sacrario delle ninfe che Cnemone aborrisce poiché attira processioni intere di seccatori:
"Maledetti, possiate morire male! Mi fanno perdere
tempo: infatti non posso lasciare incustodita
la mia abitazione. Queste ninfe vicine di casa per me sono
una disgrazia" (442 - 445).
Del resto quei molesti, secondo Cnemne, non sono veri devoti ma bigotti ghiotti:
"come sacrificano questi mascalzoni:
portano canestri, brocche, non per gli dèi
ma per sé. L'incenso è cosa pia
e la focaccia: questo prende il dio sul fuoco
messo tutto lì sopra. Questi invece mettendo lì
per gli dèi la punta dei lombi
e la bile, che sono immangiabili,
ingoiano il resto per loro" (447 - 453).

E' questo un attacco, probabilmente di Menandro stesso, contro gli sprechi cui portano la superstizione e la volontà di apparire. A questo proposito Teofrasto scrisse un trattato Peri; eujsebeiva", Sulla devozione dove diceva che gli uomini non devono astenersi dai sacrifici ma neanche fare sacrifici cattivi: non è pio sacrificare animali bensì offrire erbe, fiori, focacce. Anche questa prescrizione è in sintonia con le leggi suntuarie di Demetrio del Falero, l'abile finanziere che voleva limitare gli sprechi e le ostentazioni di ricchezza.

Poi Geta si accorge che è stato dimenticato il lebète, la caldaia per cuocere la carne, e bussa a casa di Cnemone per farselo prestare; ma il vecchio arriva di corsa gridando:
"perché tocchi la mia porta, disgraziatissimo? Dimmelo uomo!" (466). "Non mordere!" prova a difendersi Geta, ma il vecchio iracondo ribatte: "io per Zeus ti mangio vivo!" (467).
 Geta spiega che vuole solo un lebete, ma il nome di questo arnese per l'arrabbiato è quasi oltraggioso:
"mascalzone, pensi che io faccia come voi
 che sacrificate bovi? " (473 - 474).
Lo schiavo gli risponde a tono:
"nemmeno una chiocciola, credo (oujde; koclivan e[gwgev se).
Buona fortuna, persona per bene. Di bussare alla porta
me lo hanno ordinato le donne perché te lo chiedessi.
L'ho fatto: non c'è; lo riferisco
tornato da quelle. O dèi venerati!
E' una vipera quest'uomo canuto!" (e[ci" polio; " a[nqrwpov" ejstin ouJtosiv, 475 - 480).
Poi si allontana mentre l’uomo canuto inveisce:
"Belve assassine! Bussano qui senza complimenti
come da un amico! Se prendo uno di voi che
si avvicina alla mia porta, pensate di vedere
in me uno dei tanti (nomivzeq j e{na tina; oJra'n me tw'n pollw'n). " (481 - 485).

Questo è uno dei peccati di Cnemone: volere essere uno straordinario. E' uJvbri". Nel prologo della Samìa il protagonista giovane, Moschione, si presenta come uno dei tanti ("tw'n pollw'n ti" w[n" v. 11). 
Opportunamente: infatti per le creature di Menandro deve valere la preghiera delle Baccanti di Euripide: "
tenere lontana la mente e saggia l'anima
dagli uomini straordinari:
ciò che la folla più semplice
crede e pratica,
questo io vorrei accettare" (vv. 427 - 432). Un altro che non vorrebbe essere uno dei tanti e finisce per cadere al di sotto della media è Oblomov di Goncarov: quando il servo Zachàr gli dice: "io pensavo che gli altri non sono peggio di noi e cambiano casa.. ", l'abulico padrone gli risponde irato: "Gli altri non sono peggio - ripetè con orrore - Ilià Ilìc' -. Ecco cosa sei arrivato a dire! Adesso lo so che sono per te un qualunque altro ! (p. 124).

Poi entra in scena il cuoco Sicone per ritentare la prova con il vecchio: intanto espone la sua teoria secondo la quale per ottenere qualche cosa bisogna lusingare:
"deve essere adulatorio
quello che chiede qualche cosa. Un vecchio risponde
 alla porta: subito dico padre e babbo.
Una vecchia, madre. Se è una donna di mezza età,
 la chiamo sacerdotessa. Se è un servo, carissimo" (492 - 497).
In quel momento entra Cnemone e il lusingatore gli fa:
"o babbino, cercavo proprio te" (498).
“Per Menandro l’umanità sta nell’amicizia e nella simpatia; la comprensione per gli altri uomini è la virtù delle sue figure, la virtù che lo stesso poeta Menandro dimostra nei confronti dei suoi personaggi”[1].

Adulare è la degenerazione di quella amicizia e simpatia che gli uomini dovrebbero avere tra loro, di quell'avvicinarsi psicologicamente al prossimo che, secondo Menandro, è la base della moralità.

Del resto la lusinga come mezzo di corruzione è teorizzata da quel "vecchio libertino incancrenito" (p. 545) di Svidrigàjlov in Delitto e castigo: "finalmente feci ricorso al mezzo supremo e infallibile per soggiogare il cuore femminile, il mezzo che non fallisce mai e agisce decisamente su tutte le donne, senza eccezione. E' un mezzo ben conosciuto: l'adulazione... Con l'adulazione si può sedurre perfino una vestale" (p. 538).

Ma Cnemone non è una vestale e non si lascia sedurre. Anzi picchia Sicone e grida:
"Io non ho
pentola, né scure, né sale
né aceto né niente, ma l'ho detto in poche parole
a tutti quelli del luogo di non venire da me" (505 - 508).

Nei Buddenbrook di T. Mann si trova un personaggio del genere, rappresentante di un'aristocrazia incapace di adattarsi al mondo borghese dei commerci e per tanti versi vicina alla cultura dei contadini: "aveva esposto per parecchio tempo sull'umile porta di casa un cartello che diceva: 'qui abita il conte Mölln. E' solo, non ha bisogno di nulla, non compera nulla e non ha niente da regalare. Quando il cartello ebbe fatto il suo effetto e nessuno venne più a importunarlo, il conte l'aveva tolto" (p. 331).
Di solito però questi versi sono messi in relazione con i versi 9O - 93 dell'Aulularia di Plauto:
"quod quispiam ignem quaerat, extingui volo,
ne causae quid sit quod te quisquam quaeritet.
Nam si ignis vivet, tu extinguēre extempulo ", quanto al fatto che qualcuno chieda il fuoco, voglio che sia spento, perché non ci sia ragione di venire a chiederlo. Infatti se il fuoco vivrà, tu ti spengerai subito.
Ma, ripetiamo, Euclione teme di essere derubato della pentola auri plena, Cnemone della sua solitudine.


continua


[1] B. Snell, Poesia e società, p. 154. 

1 commento:

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