Alcesti nell’ex carcere fiorentino delle Murate, ottobre 2014 |
Admeto
si scusa per la reticenza di prima: gli è stata suggerita solo dalla paura di
venire meno al santo dovere dell'ospitalità:
"questo dolore sarebbe stato aggiunto al
dolore,
se tu fossi stato spinto alla casa di un
altro ospite" (1039 - 1040). Del resto lo prega di permettergli di
non accettare la custodia della donna
"giovane come appare dalla veste e
dall'ornamento" (1050).
Non
saprebbe dove metterla: non nella zona riservata agli uomini, né, tanto meno, "nella camera della morta" (1055):
egli teme un "duplice biasimo"
(diplh`n
fobou`mai mevmyin, v. 1057): da parte della gente "che lo rimproveri di avere tradito la
benefattrice" (1058 - 1059) e quello della morta che è "degna di venerazione" (1060).
Come
si vede, ancora una volta Admeto dà grande importanza alla reputazione, non
meno che alla coscienza: segno di interiorità e identità poco sviluppata.
Tutt'altra forza e nobiltà manifesta l'eroica
Antigone di Sofocle quando afferma:
"Ma so di piacere a quelli cui prima
tutti è necessario che io vada a genio" (v. 89).
Admeto, lo sappiamo non è un eroe. Per giunta
è indebolito dal dolore e dal rimorso. Tuttavia è abbastanza lucido da
ravvisare una somiglianza tra la giovane donna velata e la moglie morta:
"Chiunque tu sia, sappi che hai la stessa
statura di Alcesti, e le somigli nel corpo"
(1062 - 1063).
La
somiglianza anzi arriva a essere quella di una sosia o di una gemella:
"Infatti mi sembra di vedere mia moglie
guardandola: mi turba il cuore, e dagli occhi
erompono fonti di lacrime, oh me infelice,
come ora assaggio questo amaro dolore!"
(1066 - 1069).
Kott suggerisce che questa figura potrebbe
fungere bene da seconda moglie, la quale, di solito, pur essendo più giovane, assomiglia
alla prima.
Il
corifèo, per calmare il re, sputa una sentenza alla Giobbe:
"Io non potrei giudicare buona questa sorte,
ma è necessario, qualunque cosa sia, sopportare
il dono di Dio" (1070 - 1071).
Segue
una sticomitia tra Eracle e Admeto durante la quale, nota Kott, "il buon
gigante si comporta nell’epilogo come un agente provocatore " (Op. cit. , p.
125) e mette l'ospite alla prova.
Nella prima parte del v. 1085 Eracle ripete
quello che aveva detto la stessa Alcesti al v. 381:
"Il tempo attenuerà (crovno~ malavxei): ora il
male è ancora fresco"
Admeto ribadisce: solo la morte potrà
consolarlo (1086).
Eracle
però non desiste dalle provocazioni:
"Una donna e nuove nozze porranno fine al tuo
rimpianto" (1087).
Ma
l'amico non cede e l'eroe dorico non può che approvare la sua fedeltà. Tuttavia
insiste perché Admeto accolga in casa la misteriosa creatura:
"Accogli dunque in casa costei con
nobiltà" (1097)!" (devcou gennaivw~ 1098).
L'ospite
tenta un'ultima resistenza ma è vicino a cedere:
"No, ti scongiuro per Zeus che ti ha generato
Eracle non cede e gli promette che non se ne
pentirà: egli, vincendo la donna ha vinto anche per Admeto (1103). Questo
finalmente accetta, sia pure obtorto collo:
"Vinci pure, ma non mi fai cosa grata" (1108).
Manca
pochissimo al lieto fine, sebbene Kott faccia l'ipotesi, non del tutto assurda,
che quella donna possa rappresentare la morte.
In
effetti quando Eracle invita Admeto a tenderle la mano (1117), l'inconsolabile
vedovo risponde come se dovesse toccare un mostro portatore di morte:
"
Va bene, la tendo, come se dovessi
tagliare il capo alla Gorgone" (1118).
Il re
dunque tende la mano volgendo indietro il capo, come fece Perseo con Medusa, per
non essere pietrificato dal suo sguardo (cfr. le Coefore, v. 832).
Però poi, ulteriormente incoraggiato da Eracle,
Admeto la guarda e nota sempre più la somiglianza della velata con la scomparsa:
"Oh dèi, che devo dire? questo è un prodigio
insperato
è la mia sposa davvero questa che vedo,
o mi stordisce una gioia ingannevole da parte
di un dio? " (1123 - 1125).
Il gigante
garantisce che si tratta della sposa ma non dissipa la paura del vedovo che lì
ci sia uno spettro, se non addirittura la morte:
"Bada che questo non sia un fantasma degli
inferi" (1127).
Ma
Eracle nega di essere un evocatore di morti e invita Admeto a rivolgerle la
parola (1132).
Lo sposo la tocca e comincia a convincersi: è
già felice al punto che Eracle ritiene necessaria una battuta deprecatoria per
stornare "l'invidia degli dèi"
(1135), ossia quella malevolenza
divina che si volge contro ogni eccesso.
Quindi
Admeto manifesta la sua gratitudine all'eroe e gli domanda come abbia fatto. Con
una lotta (1140) è la risposta, seguita a un appostamento presso la tomba (1142).
Ma
perché non parla? , domanda ancora Admeto (1143).
Prima,
risponde Eracle, Alcesti deve essere tolta dalla consacrazione agli dèi
infernali e bisogna che sia giunto il terzo giorno (1145 - 1146).
Come
anche per Cristo. Evidentemente tre giorni era il numero, forse simbolico, necessario
per purificarsi dalla contaminazione della morte e tornare in vita.
Un rito doveva separare il sacro dal
profano: la consacrazione fa entrare il profano nel sacro; la dissacrazione fa
uscire dal sacro. Oreste per rinascere deve recarsi presso l'ombelico del mondo,
a Delfi, punto di congiunzione tra le varie zone cosmiche.
I
Romani ricorrevano alla lustratio purificazioni per mezzo di sacrifici: si
offrivano hostiae piaculares (vittime contro la macchia). I casi più gravi potevano essere dichiarati
inespiabili dal pontefice. Allora l'empio era lasciato alla vendetta divina (Tacito,
Annales, I, 73: "deorum iniuriae dis curae ", alle
offese degli dei pensino gli dei).
I casi di piaculum (peccato ed
espiazione) sono vari: molto noto è quello dell'Orazio che ammazza la sorella
la quale piangeva la morte di uno dei Curiazi Albani uccisi da lui. Egli dice: "Sic
eat quaecumque romana lugebit hostem " (Livio, I, 26).
I duumviri perduellionis ( due
giudici sul delitto di stato, l' alto tradimento e l' omicidio) lo condannano, ma
Orazio disse: "provoco " e venne assolto in appello. Però fu
necessaria una lustratio: dovette passare con il capo bendato sotto il sororium
tigillum, la trave della sorella. Siamo al tempo di Tullo Ostilio, il terzo
re.
Questo è un rito di dissacrazione che
consente al criminale di tornare dal mondo della maledizione a quello profano. Roma
è povera di riflessione su contaminazione e purificazione, ma è ricca di
cerimonie. Il sacer infatti può
essere sacro o maledetto.
Invece presso i Greci prevalgono i problemi
di coscienza e di responsabilità: qui nell'Alcesti, Eracle salutando
Admeto gli fa capire che ha recuperato la sposa grazie alla sua giustizia e
all'ospitalità piamente offerta:
"Via portala
dentro e, siccome sei giusto,
in avvenire
continua ad essere pio verso gli ospiti (eujsevbei peri; xevnouς).
E addio: io vado
a compiere la fatica
imposta dal
tiranno figlio di Stenelo" (1147 - 1150).
Admeto
invita l'ospite a rimanere ancora, ma Eracle deve proprio andare verso il suo
faticoso destino; allora il re di Fere gli augura il successo e lo invita a
tornare. Intanto la
Tessaglia celebrerà l'evento felice con danze, preghiere e
sacrifici di buoi (1155). Le ultime parole dello sposo, che ha compreso e ha
salvato la sposa, dichiarano che c'è stata una resurrezione anche personale:
"Ora infatti ci siamo convertiti a una vita
migliore
di quella precedente: infatti non negherò di
essere felice!" (1157 - 1158) ouj ga; r eujtucw`n
ajrnhvsomai
Gli
ultimi versi del coro contengono un'altra morale della favola: che il destino o
gli dèi compiono i loro progetti indipendentemente dalla volontà umana. Gli
uomini pii dunque, e questo fatalismo in qualche modo è comune ai tre
drammaturghi, devono accettare tutto quello che viene dai numi:
"Molte sono le forme della divinità,
e molti eventi fuori dalle nostre speranze
portano a compimento gli dèi;
e i fatti attesi non si avverarono,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la
via.
Così è andata a finire questa azione" (vv.
1159 - 1163).
Analoga conclusione si trova nella Medea,
nell'Andromaca, nell'Elena e nelle Baccanti, dunque
durante l'intero arco della produzione euripidea e siccome non tutti questi
drammi finiscono bene, non si può dire che essa sia ottimistica, e nemmeno
pessimistica: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della
sorte, una forza soprannaturale che durante l'età ellenistica sostituirà gli
dèi dell'Olimpo e degli Inferi.
“Circa
la posizione della musica nel dramma antico vale pienamente ciò che Gluck nella
celebre prefazione al suo Alcesti esprime in termini di esigenza. La
musica dovrebbe sostenere la poesia, rafforzare l’espressione dei sentimenti e
l’interesse delle situazioni, senza spezzare l’azione o disturbarla con inutili
sfiorettature”.
La
prefazione dell’Alceste (1767) prescrive l’unitarietà del dramma. La
musica deve essere condizionata dalla parola e non deve interrompere l’azione. Il
coro deve assumere la funzione di personaggio. Il melodramma come la tragedia
greca deve offrire allo spettatore una consolazione purificatrice.
Alcesti
nel Simposio di Platone (179b - e)
parla Fedro
E
allora vogliono morire per gli altro solo gli amanti, non solo gli uomini ma
anche le donne. Di questo anche la figlia di Pelia Al cesti offre sufficiente
testimonianza favorevole a questa affermazione agli Elleni, volendo lei sola
morire per il suo sposo, memtre lui aveva il padre e la madre, che quella di
tanto superò nell’affetto per amore, da far vedere che quelli erano estranei al
figlio e solo di nome congiunti, e fatto questo gesto parve averlo fatto così
bello, non solo agli uomini ma anche agli dèi, che, pur essendo molti gli
uomini che avevano fatto molte e belle azioni, a ben pochi diedere questo dono
gli dèi, di far risalire l’anima dall’Ade, ma quella di lei la fecero risalire,
avendono ammirato l’azione; così anche gli dèi onorano soprattutto l’impegno e
la virtù in favore di eros.
giovanni
ghiselli
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