martedì 2 agosto 2016

Alcesti. XIV parte

Alcesti nell’ex carcere fiorentino delle Murate, ottobre 2014

Admeto si scusa per la reticenza di prima: gli è stata suggerita solo dalla paura di venire meno al santo dovere dell'ospitalità:
"questo dolore sarebbe stato aggiunto al dolore,
se tu fossi stato spinto alla casa di un altro ospite" (1039 - 1040). Del resto lo prega di permettergli di non accettare la custodia della donna
"giovane come appare dalla veste e dall'ornamento" (1050).
Non saprebbe dove metterla: non nella zona riservata agli uomini, né, tanto meno, "nella camera della morta" (1055): egli teme un "duplice biasimo" (diplh`n fobou`mai mevmyin, v. 1057): da parte della gente "che lo rimproveri di avere tradito la benefattrice" (1058 - 1059) e quello della morta che è "degna di venerazione" (1060).
Come si vede, ancora una volta Admeto dà grande importanza alla reputazione, non meno che alla coscienza: segno di interiorità e identità poco sviluppata.
Tutt'altra forza e nobiltà manifesta l'eroica Antigone di Sofocle quando afferma:
"Ma so di piacere a quelli cui prima tutti è necessario che io vada a genio" (v. 89).
 Admeto, lo sappiamo non è un eroe. Per giunta è indebolito dal dolore e dal rimorso. Tuttavia è abbastanza lucido da ravvisare una somiglianza tra la giovane donna velata e la moglie morta:
"Chiunque tu sia, sappi che hai la stessa
statura di Alcesti, e le somigli nel corpo" (1062 - 1063).
La somiglianza anzi arriva a essere quella di una sosia o di una gemella:
"Infatti mi sembra di vedere mia moglie
guardandola: mi turba il cuore, e dagli occhi
erompono fonti di lacrime, oh me infelice,
come ora assaggio questo amaro dolore!" (1066 - 1069).

 Kott suggerisce che questa figura potrebbe fungere bene da seconda moglie, la quale, di solito, pur essendo più giovane, assomiglia alla prima.
Il corifèo, per calmare il re, sputa una sentenza alla Giobbe:
"Io non potrei giudicare buona questa sorte,
ma è necessario, qualunque cosa sia, sopportare il dono di Dio" (1070 - 1071).
Segue una sticomitia tra Eracle e Admeto durante la quale, nota Kott, "il buon gigante si comporta nell’epilogo come un agente provocatore " (Op. cit. , p. 125) e mette l'ospite alla prova.
 Nella prima parte del v. 1085 Eracle ripete quello che aveva detto la stessa Alcesti al v. 381:
"Il tempo attenuerà (crovno~ malavxei): ora il male è ancora fresco"
 Admeto ribadisce: solo la morte potrà consolarlo (1086).
Eracle però non desiste dalle provocazioni:
"Una donna e nuove nozze porranno fine al tuo rimpianto" (1087).
Ma l'amico non cede e l'eroe dorico non può che approvare la sua fedeltà. Tuttavia insiste perché Admeto accolga in casa la misteriosa creatura:
"Accogli dunque in casa costei con nobiltà" (1097)!" (devcou gennaivw~ 1098).

L'ospite tenta un'ultima resistenza ma è vicino a cedere:
"No, ti scongiuro per Zeus che ti ha generato
 Eracle non cede e gli promette che non se ne pentirà: egli, vincendo la donna ha vinto anche per Admeto (1103). Questo finalmente accetta, sia pure obtorto collo:
"Vinci pure, ma non mi fai cosa grata" (1108).
Manca pochissimo al lieto fine, sebbene Kott faccia l'ipotesi, non del tutto assurda, che quella donna possa rappresentare la morte.
In effetti quando Eracle invita Admeto a tenderle la mano (1117), l'inconsolabile vedovo risponde come se dovesse toccare un mostro portatore di morte:
" Va bene, la tendo, come se dovessi tagliare il capo alla Gorgone" (1118).
Il re dunque tende la mano volgendo indietro il capo, come fece Perseo con Medusa, per non essere pietrificato dal suo sguardo (cfr. le Coefore, v. 832).
 Però poi, ulteriormente incoraggiato da Eracle, Admeto la guarda e nota sempre più la somiglianza della velata con la scomparsa:
"Oh dèi, che devo dire? questo è un prodigio insperato
è la mia sposa davvero questa che vedo,
o mi stordisce una gioia ingannevole da parte di un dio? " (1123 - 1125).
Il gigante garantisce che si tratta della sposa ma non dissipa la paura del vedovo che lì ci sia uno spettro, se non addirittura la morte:
"Bada che questo non sia un fantasma degli inferi" (1127).
Ma Eracle nega di essere un evocatore di morti e invita Admeto a rivolgerle la parola (1132).
 Lo sposo la tocca e comincia a convincersi: è già felice al punto che Eracle ritiene necessaria una battuta deprecatoria per stornare "l'invidia degli dèi" (1135), ossia quella malevolenza divina che si volge contro ogni eccesso.
Quindi Admeto manifesta la sua gratitudine all'eroe e gli domanda come abbia fatto. Con una lotta (1140) è la risposta, seguita a un appostamento presso la tomba (1142).
Ma perché non parla? , domanda ancora Admeto (1143).
Prima, risponde Eracle, Alcesti deve essere tolta dalla consacrazione agli dèi infernali e bisogna che sia giunto il terzo giorno (1145 - 1146).
Come anche per Cristo. Evidentemente tre giorni era il numero, forse simbolico, necessario per purificarsi dalla contaminazione della morte e tornare in vita.

Un rito doveva separare il sacro dal profano: la consacrazione fa entrare il profano nel sacro; la dissacrazione fa uscire dal sacro. Oreste per rinascere deve recarsi presso l'ombelico del mondo, a Delfi, punto di congiunzione tra le varie zone cosmiche.
 I Romani ricorrevano alla lustratio purificazioni per mezzo di sacrifici: si offrivano hostiae piaculares (vittime contro la macchia). I casi più gravi potevano essere dichiarati inespiabili dal pontefice. Allora l'empio era lasciato alla vendetta divina (Tacito, Annales, I, 73: "deorum iniuriae dis curae ", alle offese degli dei pensino gli dei).
I casi di piaculum (peccato ed espiazione) sono vari: molto noto è quello dell'Orazio che ammazza la sorella la quale piangeva la morte di uno dei Curiazi Albani uccisi da lui. Egli dice: "Sic eat quaecumque romana lugebit hostem " (Livio, I, 26).
I duumviri perduellionis ( due giudici sul delitto di stato, l' alto tradimento e l' omicidio) lo condannano, ma Orazio disse: "provoco " e venne assolto in appello. Però fu necessaria una lustratio: dovette passare con il capo bendato sotto il sororium tigillum, la trave della sorella. Siamo al tempo di Tullo Ostilio, il terzo re.
Questo è un rito di dissacrazione che consente al criminale di tornare dal mondo della maledizione a quello profano. Roma è povera di riflessione su contaminazione e purificazione, ma è ricca di cerimonie. Il sacer infatti può essere sacro o maledetto.

Invece presso i Greci prevalgono i problemi di coscienza e di responsabilità: qui nell'Alcesti, Eracle salutando Admeto gli fa capire che ha recuperato la sposa grazie alla sua giustizia e all'ospitalità piamente offerta:
"Via portala dentro e, siccome sei giusto,
in avvenire continua ad essere pio verso gli ospiti (eujsevbei peri; xevnouς).
E addio: io vado a compiere la fatica
imposta dal tiranno figlio di Stenelo" (1147 - 1150).
Admeto invita l'ospite a rimanere ancora, ma Eracle deve proprio andare verso il suo faticoso destino; allora il re di Fere gli augura il successo e lo invita a tornare. Intanto la Tessaglia celebrerà l'evento felice con danze, preghiere e sacrifici di buoi (1155). Le ultime parole dello sposo, che ha compreso e ha salvato la sposa, dichiarano che c'è stata una resurrezione anche personale:
"Ora infatti ci siamo convertiti a una vita migliore
di quella precedente: infatti non negherò di essere felice!" (1157 - 1158) ouj ga; r eujtucw`n ajrnhvsomai
Gli ultimi versi del coro contengono un'altra morale della favola: che il destino o gli dèi compiono i loro progetti indipendentemente dalla volontà umana. Gli uomini pii dunque, e questo fatalismo in qualche modo è comune ai tre drammaturghi, devono accettare tutto quello che viene dai numi:
"Molte sono le forme della divinità,
e molti eventi fuori dalle nostre speranze portano a compimento gli dèi;
e i fatti attesi non si avverarono,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione" (vv. 1159 - 1163).
 Analoga conclusione si trova nella Medea, nell'Andromaca, nell'Elena e nelle Baccanti, dunque durante l'intero arco della produzione euripidea e siccome non tutti questi drammi finiscono bene, non si può dire che essa sia ottimistica, e nemmeno pessimistica: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della sorte, una forza soprannaturale che durante l'età ellenistica sostituirà gli dèi dell'Olimpo e degli Inferi.


“Circa la posizione della musica nel dramma antico vale pienamente ciò che Gluck nella celebre prefazione al suo Alcesti esprime in termini di esigenza. La musica dovrebbe sostenere la poesia, rafforzare l’espressione dei sentimenti e l’interesse delle situazioni, senza spezzare l’azione o disturbarla con inutili sfiorettature”.
La prefazione dell’Alceste (1767) prescrive l’unitarietà del dramma. La musica deve essere condizionata dalla parola e non deve interrompere l’azione. Il coro deve assumere la funzione di personaggio. Il melodramma come la tragedia greca deve offrire allo spettatore una consolazione purificatrice.

Alcesti nel Simposio di Platone (179b - e) parla Fedro
E allora vogliono morire per gli altro solo gli amanti, non solo gli uomini ma anche le donne. Di questo anche la figlia di Pelia Al cesti offre sufficiente testimonianza favorevole a questa affermazione agli Elleni, volendo lei sola morire per il suo sposo, memtre lui aveva il padre e la madre, che quella di tanto superò nell’affetto per amore, da far vedere che quelli erano estranei al figlio e solo di nome congiunti, e fatto questo gesto parve averlo fatto così bello, non solo agli uomini ma anche agli dèi, che, pur essendo molti gli uomini che avevano fatto molte e belle azioni, a ben pochi diedere questo dono gli dèi, di far risalire l’anima dall’Ade, ma quella di lei la fecero risalire, avendono ammirato l’azione; così anche gli dèi onorano soprattutto l’impegno e la virtù in favore di eros.


fine


giovanni ghiselli 

Nessun commento:

Posta un commento

Conferenza di domani

  Ricordo ai miei tanti lettori che domani 6 maggio dalle 17 alle 18, 30   terrò una conferenza sul Tramonto dell’umanesimo nella bib...