Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica
Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica
LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna - Tutte le date link per partecipare da casa: meet.google.com/yj...
giovedì 29 agosto 2019
Carlo Calenda
Ieri sera in
televisione si è visto e sentito Carlo Calenda. Non mi è dispiaciuto se non
altro perché in quanto diceva con serietà c’era una logica. Aveva impressa nel
volto una sensibilità malinconica.
La sua
grossa testa di cefalo, o di carpa, schiudeva ogni tanto le labbra, mentre con
gli occhi tondi pareva cercare un orientamento tra quegli orizzonti selvaggi sui
quali ha scritto il suo manifesto politico. Ho apprezzato la richiesta di un “discorso
della verità” di cui sentiamo tutti il
bisogno. A me manca anche il discorso della bellezza, ma riconosco che questa
persona sa esprimersi meglio di altri politici attuali. Mi è piaciuta anche la
sua coerenza. Ho altre idèè politiche ma apprezzo sempre la capacità di parlare
con logica e la fedeltà alle proprie idèe.
Dove sta Matteo?
Dov’è finito
il Matteo dall’ aspetto particolarmente
feroce e abbastanza simile a quello dei carnefici che infieriscono su Sant’Agata
nel quadro di Sebastiano del Piombo?
Martirio di sant'Agata, 1520, Firenze, Palazzo Pitti.
Al nuovo governo. Contro le sperequazioni mostruose
Raffaello, Platone |
La distribuzione dei beni secondo natura
Nelle Leggi di Platone leggiamo che la condizione moralmente migliore è
quella lontana dalla ricchezza e dalla povertà:"La rappresentazione che
Platone dà dei primordi è quella di una condizione essenzialmente pacifica,
dove non erano ancora ricchi e poveri, e dove la benigna semplicità degli umani
aveva per conseguenza un livello morale più alto"[1]
Vediamo cosa
effettivamente dice l'Ateniese nelle Leggi: "Poveri per questo
motivo non erano, né, costretti dalla povertà, divenivano discordi tra loro; e
nemmeno ricchi divennero mai in quanto privi di oro e di argento - a[cruvsoi te
kai; ajnavrguroi - Nella
società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi
potrebbero essere nobilissimi: infatti violenza, né ingiustizia, né gelosie né
invidie possono nascervi.” (679b - c).
Nella Repubblica Platone aveva suggerito l’idea che la
vita esteriore dell’uomo di governo deve essere tutta astinenza, povertà,
severità. Egli non
conosce vita privata.
I reggitori
ricevono dalla comunità lo stretto necessario per vivere.
I guardiani
non devono avere una oujsiva ijdiva, sostanza propria (416d) se non strettamente
necessaria. Alla loro oi[khsiς kai; tamiei'on, abitazione e dispensa, deve potere accedere chiunque
voglia. Abbiano il necessario sostentamento, solo quanto abbisogni ad ajqlhtai;
polevmou temperanti
e coraggiosi (416 e). Devono vivere in comune, frequentando pasti comuni sussivtia, oro e argento l’hanno nell’anima e
non hanno bisogno di quello umano per il quale sono accadute molte empie cose (polla; kai;
ajnovsia), mentre il
metallo che hanno nell’anima è puro.
Sull’oro - questo
schiavo giallo - sentiamo anche Shakespeare:
“This yellow slave - will knit and break religion - unirà e spezzerà
religioni, bless the accursed, benedirà I
maledetti, make the hoar leprosy adored, farà adorare la lebbra
canuta, place thieves, darà posti ai ladri and give them
title, knee and approbation with senators on the bench (Timone di
Atene, IV, 3, 35 - 38).
Dunque l’oro è " the common whore - allied to polish kurwa lat. carus loving diletto
e costoso - of mankind, comune
bagascia del genere umano"; l'universale mezzana " (IV, 3, 43) che
semina discordia tra la marmaglia delle nazioni.
K. Marx ne i Manoscritti
economico - filosofici del 1844 , commenta il drammaturgo inglese
dicendo che nel denaro rileva:"la divinità visibile, la trasformazione di
tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione
universale e l'universale rovesciamento delle cose"(p.154).
Torniamo a
Platone Se invece diventeranno proprietari, saranno oijkovnomoi
me;n kai; gewrgoi; ajnti; fulavkwn amministratori della loro roba e contadini
invece che custodi, e odiosi padroni invece che alleati degli altri cittadini despovtai d’ ejcqroi;
ajnti; summavcwn tw'n a[llwn politw'n (Repubblica, 417 b)
Ogni
deviazione da questa educazione e da questo Stato sarebbe degenerazione e
decadenza.
mercoledì 28 agosto 2019
Il discorso della verità e il discorso della bellezza
Il discorso della verità è semplice, perciò non bisogna complicarlo - veritatis simplex oratio est, ideoque illam implicari non oportet" (Seneca Ep. 49, 12).Gli imbroglioni invece tendono a cavillare e sottilizzare sul fumo (cfr. Aristofane, Nuvole, 320[1]), a pescare nel torbido (cfr. Aristofane, Cavalieri, 307 e 867[2]) .
Nelle Fenicie[3] di
Euripide, Polinice afferma la parentela della semplicità con la
giustizia e con la verità: "aJplou'" oJ mu'qo"
th'" ajlhqeiva" e[fu, - kouj poikivlwn[4] dei' ta[ndic' eJrmhneuavtwn" (vv. 469 - 470), il discorso della verità è
semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni
ricamate. Invece l' a[diko" lovgo" , il discorso ingiusto, siccome è malato dentro,
ha bisogno di rimedi scaltri:"nosw'n ejn auJtw'/ farmavkwn dei'tai
sofw'n" (v.
472).
Il discorso
della bellezza non solo è veritiero ma è anche denso e conciso.
Nell’Ars
poetica Orazio suggerisce: “ carmen reprehendite quod non/
multa dies et multa litura coercuit atque/ praesectum decies non castigavit ad
unguem” (vv. 292 - 294), biasimate la poesia che né un lungo tempo né molte
cancellature hanno rifinito né dopo averlo sfrondato una decina di volte non ha
corretto fino alla perfezione: "Non
ho mai provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico
che mi dette, fin dal principio, un'ode di Orazio. In certe lingue quel che lì
è raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole
in cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la
sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell'estensione
e nel numero dei segni, questo maximum , in tal modo
realizzato, nell'energia dei segni - tutto ciò è romano e, se mi si vuol
credere, nobile par excellence . Tutto il resto della poesia
diventa in paragone qualcosa di troppo popolare - nient'altro che loquacità
sentimentale"[5].
Vi inoltro queste citazioni che mi fanno pensare non
bene della quasi totalità dei nostri politici eletti da appena la metà del
popolo italiano.
Sono vaghi di ciance e bramosi di poltrone. Discutono
su come distribuirle senza riguardo per gli interessi di chi dovrebbe votarli.
Se continueranno a parlare senza idee, senza programmi
e senza parole chiare, concrete, sensate, verranno votati solo da loro stessi.
[1] Strepsiade, sebbene vecchio e
tardo, ha capito quali sono gli insegnamenti della scuola di Socrate e dice:
“già la mia anima si è levata a volo e "già ha voglia di cavillare leptologei'n
h{dh zhtei' e sottilizzare sul fumo peri; kapnou'
stenolescei'n - e trafiggendo un concetto con un concettuzzo
ribattere con un altro discorso"(vv. 319 - 321). Strepsiade, sebbene
vecchio e tardo, capisce presto che cosa si impara nel pensatoio di Socrate: la
mia anima, dice, al maestro messo in cattiva luce da Aristofane " ha già
voglia di cavillare leptologei'n h{dh zhtei' e
sottilizzare sul fumo peri; kapnou' stenolescei'n e trafiggendo un concetto con un concettuzzo ribattere con un altro
discorso"(Nuvole, vv. 320 - 321).
[2] Nei Cavalieri (424 a. C) di Aristofane Cleone - Paflagone
è chiamato “borborotavraxi” (v. 307), il mescola - fango; egli si comporta come
i pescatori di anguille, i quali le acchiappano, solo se mettono sottosopra il
fango: “kai; su; lambavnei", h]n th;n povlin taravtth/" (v. 867), anche tu arraffi, se
scompigli la città, gli fa il salsicciaio.
[3] Composte intorno al 410 a. C.
[4] Cfr. Kuvriai dovxai XXIX sui desideri innaturali che rendono
variopinto il piacere citato più avanti (p. 16)
martedì 27 agosto 2019
Epicuro contro il consumismo. VIII parte
I falsi bisogni indotti dalla pubblicità sono spesso contraddittori tra loro e contraddicono la vita.
La pubblicità recupera e utilizza tutto: non solo il metodo di Aconzio, personaggio degli Aitia di Callimaco[1], ma anche le parole di Pindaro[2]: c’è una réclame di magliette che traduce in francese la somma del pensiero educativo del vate tebano: gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II v. 72), diventa quello che sei. Chi vuole vendere deve farci credere che siamo nati per comprare.
La pubblicità dunque va smontata, come vanno smascherati i personaggi che ne usano il linguaggio. Il peggio dell’umanità.
Don Milani scrive: "la pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie sono necessarie"[3].
"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è insegnare loro a imitare i ricchi"[4].
Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il cittadino giusto compiange Atene perché gli abitanti non si curano della pace (Aristofane, Acarnesi, v. 27), mentre lui ama la pace e rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per sé, mentre nella povli" è onnipresente l'invito a comprare:"privw"[5], che si tratti di carbone, di aceto o di olio ( vv. 34 - 36).
Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich in L'uomo senza qualità: "Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa" (p. 800). Qualche anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.
Non bisogna dimenticare quanto afferma il Pericle di Tucidide:" non sono le cose che acquistano gli uomini ma gli uomini le cose:"ouj ga;r tavde tou;" a[ndra", ajll j oiJ a[ndre" tau'ta ktw'ntai"( Storie, I, 143, 5).
E' questa un’affermazione di umanesimo che potrebbe essere impiegata come dichiarazione anticonsumistica contro gli astuti consiglieri di acquisti che in realtà spingono gli uomini a vendersi come merce per acquistare altra merce.
I peggiori sono arrivati perfino a uccidere addirittura il padre e la madre per acquistare un paio di scarpe o un telefonino che fornisca un’identità accettata da altri simili a loro.
Tante cose vendute e comprate dovrebbero perdere ogni valore ai nostri occhi, dato il loro infinito proliferare.
“ Mi auguro che gli uomini ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato, gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le parti (…) Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non possiamo amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili”[6].
Insomma la pubblicità e il consumismo sono icone divine da adorare per gli idolatri e bersagli polemici per l'educatore.
Nei classici sono presenti problematiche e situazioni eterne, e la cultura greco - latina che diviene un potenziamento della fuvsi", ci aiuta a comprenderle. Cicerone nei Paradoxa Stoicorum[7] aveva scritto sinteticamente:"non esse emacem vectigal est" (VI, 51) non essere consumisti è una rendita.
Cornelio Nepote, elogiando Tito Pomponio Attico, scrive: “ cum esset pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator” (De viris illustribus, Atticus, 13), pur essendo ricco, nessuno ebbe meno di lui la smania di comprare, né quella di fabbricare.
“Più ricco è in terra chi meno desidera” “Meglio contentarsi che lamentarsi”[8].
Seneca mette tra i precetti che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione (probatio) questa sentenza di Catone il Censore: “emas non quod opus est, sed quod necesse est; quod non opus est asse carum est”[9], compra non quello che occorre, ma quello che è necessario; quello che non occorre, è caro anche se costa un soldo.
Cleante stoico a un tale che gli chiese come potrebbe uno essere ricco, rispose se è povero di desideri (eij tw`n ejpiqumiw`n ei[h pevnh~ (Stobeo, Flori. 95, 28 Mein.)
Sentiamo Marziale: “reges et dominos habere debet/qui se non habet atque concupiscit/quod reges dominique concupiscunt” (II, 68), deve avere re e padroni chi non è padrone di sé e brama quello che re e padroni bramano.
Quindi Leopardi: “il capro nuoce anzi distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto se vi si lasciano appressare…. Insommma i bisogni che l’uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali ed universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell’uomo non dev’essere solo di procacciare il necessario a questi bisogni, con infiniti ostacoli, ma nel provvedere all’uno, guardare assai, perché quella provvisione nuoce ad un altro bisogno. E pure è certo che più facilmente potremo annoverare le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso sì dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec.”[10].
La gente comincia a capire quanto il “bisogno” dell’automobile sia in contraddizione con tanti aspetti e bisogni reali della vita umana, se non addirittura della vita del pianeta.
“Nei decenni del dopoguerra la macchina ci ha permesso di spostarci da soli e di scoprire nuovi paesaggi. Grazie ad essa, il nostro spazio è diventato infinitamente più vasto. L’automobile certificava il nostro ingresso nella modernità, alla quale dovevamo questa mobilità più libera. Ma oltre a essere un simbolo di libertà, essa è diventata anche un’espressione della nostra identità. Non a caso, in quegli anni si insisteva molto sulla personalizzazione che aggiungeva un’impronta individuale a veicoli prodotti in serie. Nei confronti dell’automobile si creava una relazione molto affettiva, anche perché in quell’epoca un tale acquisto era sempre un avvenimento molto importante. (…) Tutto ciò oggi sta progressivamente svanendo. L’auto è vittima del suo stesso successo. Simbolo di una massificazione consumistica che ha fagocitato tutta la società, ha perso la sua poesia. E’ diventata un oggetto prosaico, un mezzo di trasporto per andare al lavoro lontano da casa, un universo angusto nella quale ci ritroviamo prigionieri, immobilizzati nel traffico. In coda in autostrada, è difficile coninuare a pensare l’auto come strumento di piacere o un mezzo di libertà (…) Di conseguenza, l’attuale crisi dell’auto diventa la metafora dell’insuccesso, se non proprio della società dei consumi, almeno di un certo sogno di equilibrio sociale, dove i beni di consumo dovevano essere a disposizione di tutti”[11].
La macchina non è un bene, non lo è più, anzi è diventato un male. Nella stessa pagina del quotidiano citato sopra è riportata una frase di Anthony Giddens: “La macchina è diventata controproducente, spesso la circolazione è ridotta all’immobilità” (L’Europa nell’era globale, 2007).
I produttori vogliono che la gente compri le cose necessarie e pure le non necessarie, anche se ha pochi soldi. Sto seguendo un corso di lingua anglo americana: trascrivo qui quanto leggo in un esercizio assegnatomi a casa sulla pubblicità (advertising). “ In other words (…) The methods they use to persuade us to buy. One of the most effective techniques is to manipulate, or control, our emotions. Advertiser call this an emotional appeal”, in altre parole (…) il metodo che essi usano per persuaderci a comprare. Una delle tecniche più efficaci sta nel manipolare o controllare le nostre emozioni. Il pubblicitario chiama questo un richiamo emozionale.
“Occorre ricordare che i consumatori sono spinti dal bisogno di “mercificare” se stessi - di rifarsi per essere prodotti attraenti - e sono quindi sollecitati a usare stratagemmi, espedienti e prassi di marketing collaudate (…) In una società di consumatori –un mondo che valuta tutti e tutto in base al valore di mercato - la sottoclasse è composta da chi è senza valore: uomini e donne non mercificati, il cui insuccesso nel conquistarsi lo status di merce coincide con il (anzi, deriva dal) loro insuccesso nell’impegnarsi in una vera e propria attività di consumo. Sono consumatori falliti, simboli ambulanti dei disastri che attendono i consumatori perduti, del destino ultimo di chiunque non riesca a dare buona prova nell’assolvere ai doveri di consumatore ”[12].
Il potere del mercato: “Quando un ministro degli Interni dichiara, ad esempio, che la nuova politica di immigrazione punterà a far entrare in Gran Bretagna un numero maggiore di individui “di cui il paese ha bisogno” e a lasciar fuori coloro “di cui il paese non ha alcun bisogno” , egli implicitamente dà al mercato il diritto di definire i “bisogni del paese” e di decidere di cosa (o di chi) esso abbia o non abbia bisogno”[13].
Concludo citando Marx: “la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose”[14].
Pesaro 27 agosto 2019
Epicuro contro il consumismo. VII parte
foto di Flavio Kessler |
Un altro
antidoto al veleno pubblicitario, a ogni veleno, può essere la natura:
osservare il cielo splendente, il mare che riflette i raggi del sole o
della luna e amare la grande madre terra.
Nelle Baccanti di
Euripide, Cadmo suggerisce alla figlia Agàve impazzita di guardare il cielo: “ej~ tovnd j
aijqevr j o[mma so;n mevqe~” (v. 1264), lascia il tuo occhio aperto qui al cielo.
Guardare il
cielo apre gli occhi dell’anima a Bill Loman, il figlio di Willy Loman, il
commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il padre, infuriato in seguito a un
aspro diverbio, gli dice: “E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto!
Impiccati!” e il giovane risponde: “No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono
precipitato per dodici piani con una penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono
fermato, capisci? In mezzo alle
scale mi sono fermato e ho visto il cielo. Ho visto le cose che mi
piace fare a questo mondo. Lavorare e mangiare e sdraiarmi, fumare una
sigaretta. E stavo lì con questa penna in mano e mi sono detto: ma che Cristo
l’ho rubata a fare?”[1]
Non solo il cielo. Prometeo incatenato, per
sopravvivere, invoca l’aiuto delle sorgenti, l’innumerevole sorriso delle onde
marine e la terra madre di tutti noi[2].
Non possiamo
dimenticare Talete: tutto è pieno di dèi. Qalh'"
wj/hvqh pavnta plhvrh qew'n ei\nai"[3].
A volte dovremmo trovare il coraggio di tornare fanciulli come in un certo
senso erano i Greci.
Un sacerdote
egizio, parlando con Solone, gli disse: “Un Greco vecchio non esiste, voi Greci
siete sempre fanciulli”. Lo racconta Platone nel Timeo[4]”[5].
“Che
bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana
e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi, quando nei
boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e
i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur
credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti
un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani, credendolo un uomo
o donna come Ciparisso ec! e così de’ fiori ec. Come appunto i fanciulli” (Zibaldone,
63 - 64).
[1] Morte di un commesso
viaggiatore, in A. Miller, Teatro, trad. it. Einaudi, Torino,
1959, p. 294.
[2] Cfr. Eschilo, Prometeo
incatenato, vv - 88 - 90 pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon
gevlasma. Cfr. anche D’Annunzio, Elettra:
“Il riso innumerevole delle onde marine”.
Quando i
suoi aguzzini si allontanano, il Titano invoca le forze della natura a
comprenderlo e compiangerlo: “o etere divino e venti dalle ali veloci,/e
sorgenti dei fiumi, e innumerevole sorriso/delle onde marine (pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma), e terra madre di tutte le cose (pammh'tovr te gh'),/e il
disco del sole che vede tutto, invoco:/vedete quali pene soffro, io che sono un
dio, da parte degli dèi”(Eschilo, Prometeo incatenato, 88 - 92). La
natura ridente e soleggiata contiene una promessa di riconciliazione. Cfr. per
converso il luogo infernale dell'Oedipus di Seneca dove non c'è
luce[2] né speranza:" Tristis sub illa lucis et Phoebi
inscius/restagnat humor, frigore aeterno rigens;/limosa pigrum circumit fontem
palus" (vv. 545 - 547), sotto la quercia ristagna un'acqua cupa, che
non conosce la luce del sole, irrigidita dal freddo eterno; una palude
limacciosa circonda la morta sorgente.
[5] Salvatore Settis, Pericle,
nostro vicino di casa, “Il sole 24 ore”, domenica 31 agosto 2008, p. 27.
lunedì 26 agosto 2019
Epicuro contro il consumismo. VI parte
Il mito e la pubblicità. Anche questa ha la sua genesi nel mito
La propaganda nella storia antica
I miti sono
quasi sempre racconti sulle origini e spesso danno forma, per dirla con
Nietzsche a “un’immagine concentrata del mondo”[4], un’immagine che può essere spiegata e attualizzata fino a
darci chiarimenti su eventi cui assistiamo o partecipiamo ogni giorno.
C. Pavese:
“Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella
che si è superata. Zeus contro Tifone, Apollo contro Pitone (…) chi non ha
grandi ripugnanze non combatte”[5].
Il mito fa
parte della nostra vita, realmente: Pasolini nel film Medea fa
dire al Centauro il quale istruisce il piccolo Giasone che dovrà andare in
cerca del vello d’oro “ andrai in un paese lontano al di là del mare. Qui farai
esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione, la sua
vita è molto realistica come vedrai perché solo chi è mitico è realistico e
solo chi è realistico è mitico”[6].
A proposito
della pubblicità, il più effimero degli eventi, anche questa è collegabile al
mito: la prima réclame scritta è quella inviata da Aconzio a
Cidippe.
Bettini afferma
che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[7]. Il giovane Aconzio obbligò Cidippe a sposarlo scrivendo
delle parole e facendole leggere alla ragazza che era sul punto di maritarsi
con un altro.
"La
scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per
sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è
possibile?"[8].
Nella
festa di Apollo a Delo, Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e vincola
a sé la ragazza gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per
Artemide: io sposerò Aconzio”.
Questo
racconto si trova negli Aitia di Callimaco.
Febo rivelò
a Ceuce, il padre di Cidippe che la ragazza in procinto di sposare il fidanzato
si ammalava a morte poiché un giuramento grave (baru;~
o{rko~, Aitia fr. 75 Pf., v. 22) impediva le
nozze alla fanciulla la quale fu sentita da Artemide in visita a Delo quando
giurò che avrebbe avuto come sposo Aconzio e non altri ( jAkovntion
oJppovte sh; pai`~ - w[mosen, oujk a[llon, numfivon ejxemevnai[9] (vv. 26 - 27).
La storia è
narrata anche da Ovidio nelle Heroides (XX e XXI)
Aconzio
scrive a Cidippe e le ricorda “volubile malum - verba ferens doctis
insidiosa notis” (211 - 212), la mela che rotolava portando parole
insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e
la fides di Cidippe ne rimase vincta.
Cidippe
risponde ad Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa
velut navis iactor (v. 43), veneficiis tuis (54) per
le tue parole avvelenate. Ricorda che navigava verso Delo impaziente di
arrivare. Aconzio ne vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile
preda: “visaque simplicitas est mea posse capi” (v. 106). Le venne
gettata davanti ai piedi una mela con quei versi che Cidippe non vuole ripetere
“mittitur ante pedes malum cum carmine tali ” (v. 109).
La nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias
legi, magne poeta, tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero
di avere preso con ‘inganno una fanciulla poco esperta :“ sumque parum
prudens capta puella dolis” (v. 124). E’ stata ingannata come
Atalanta da Ippòmene. Vedi il dipinto di guido Reni con Atalanta che si china a
raccogliere la seconda mela d’oro mentre Ippomene detto anche Melanione procede
nella corsa. Risale agli anni 1620 - 1625 e si trova al Museo capodimonte di
Napoli
Aconzio
avrebbe dovuto convincerla more bonis solito (v. 129), come
fanno i galantuomini, non ingannarla costringendola a proferire sine
pectore vocem (143), una voce senza anima. Ora, invece della fiaccola
di nozze c’è quella di morte: “et face pro thalami fax mihi mortis adest”
(v. 174). “mirabar quare tibi nomen Acontius esset” (v. 211), mi
domandavo con stupore perché ti chiamassi Aconzio , ora lo so[10]: “quod faciat longe vulnus, acumen habes” (v.
212), hai una punta che provoca ferite anche da lontano. La ragazza ferita sta
morendo: “concidimus macie, color est sine sanguine, qualem/in pomo refero
mente fuisse tuo” (vv. 217 - 218), sono estenuata dalla magrezza, il colore
è senza sangue, quale, come ricordo, era il tuo pomo.
Ecco dunque
il paradigma mitico del tossico pubblicitario delle parole ingannevoli e
velenose continuamente scagliate da chi vuole indurci a consumare di tutto
spacciando l’interesse proprio come se fosse il nostro.
Senza i classici rimaniamo indifesi da ogni forma di prpaganda e dalla
pubblicità, come Cidippe.
Le voci di
questi auctores, veri e propri accrescitori della nostra anima,
della nostra capacità di intendere il mondo, conservano la loro eco attraverso
i secoli e tutta la letteratura europea forma un corpo, del quale, come scrisse
T. S, Eliot, il latino e il greco sono il sangue.
"Il
latino e il greco[11] costituiscono la corrente sanguigna della
letteratura europea: e come un solo, non già due distinti sistemi di
circolazione; giacché è attraverso Roma che possiamo ritrovare la nostra
parentela con la Grecia"[12].
Il fatto è
che se non saliamo sulle spalle dei classici e ci lasciamo confondere dal
frastuono ignorandoli, rimane assai limitata la nostra visione, non solo quella
esterna del mondo, ma anche quella interiore, di noi stessi.
A questo
proposito ricordo un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo attribuisce
a Bernardo di Chartres[14]:"Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi
nanos gigantum humeris insidentes, ut possīmus plura eis et remotiora videre,
non utĭque proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum
subvehimur et extollimur magnitudine gigantēa" (Metalogicon III,
4), diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come dei nani che stanno sulle
spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più
lontane, senza dubbio non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo
ma poiché siamo portati in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca.
Aggiungo
Schopenhauer
“L'uomo che non conosce
il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso:
il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta
vicino, alcuni passi piu in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del
latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli piu recenti, il Medioevo
e l'antichita. - Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor
piu l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse
nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"1.
I grandi
autori sono tutti collegati tra loro
La coscienza
di non dire nulla di completamente nuovo si trova già negli autori antichi:
Eschilo[15] diceva che
le sue tragedie erano fette del grande banchetto omerico (Aijscuvlo" … o}"
ta;" auJtou' tragw/diva" temavch[16] ei\nai
e[legen tw'n JOmhvrou megavlwn deivpnwn"[17]); e Callimaco[18] afferma: "ajmavrturon
oujde;n ajeivdw"[19], non canto nulla che non sia testimoniato.
Necessità della conoscenza della storia
Un grave
difetto, un’altra carenza capitale è quella della conoscenza della storia.
L’ignoranza
del passato è una limitazione mentale che impedisce di progettare il futuro
Lo afferma
Cicerone nell'Orator [20]: "Nescire autem quid ante quam natus sis
acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi eă
memoriā rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?" (120),
del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad
essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si
allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?
“Maturità
della mente: a questa occorre la storia e la consapevolezza della storia”[21].
Il
senso storico e quello letterario di T. S. Eliot impongono una visione
d’insieme e costringono a scrivere: "with a feeling that the whole of
the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature
of is own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous
order[22], con la sensazione che tutta la letteratura europea da
Omero, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del proprio paese, ha
un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.
La
Memoria è madre delle Muse e la perdita della Memoria significa anche la
rinuncia alla bellezza e alla poesia. Del resto la poesia è a sua volta madre
della storia.
La propaganda nella storia antica
Alessandro
Magno non rifiutava la diceria che lo magnificava come figlio di Zeus. Questa
fama vera o falsa che sia, diceva, aiuta a vincere le guerre: “Famā[24] enim
bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit”
(Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 8, 15), Le guerre sono fatte di
quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è
creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità. Cfr. 3, 8, 7 dove Dario
dice “fama bella stare”.
[4] La nascita
della tragedia, cap.22.
[5] Il mestiere di
vivere, 28 dicembre 1947.
[6] P. P. Pasolini,
Medea in Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, p. 545 -
[7]Con i libri ,
p. 9.
[8]M. Bettini, op. cit.,
p. 10.
[11] Io metterei
prima il greco.
[12] Che cos’è un classico?
(del 1944) In T. S. Eliot, Opere, p. 975.
[13] Scrisse un Metalogicon che
non ci è arrivato.
[14] Filosofo
scolastico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio.
[15] 525 - 455 a. C.
[17] Ateneo (II - III
sec. d. C.) I Deipnosofisti, VIII, 39.
[18]305 ca - 240ca a. C.
[19] Fr. 612
Pfeiffer.
[20] Del 46 a. C.
[21] T. S.
Eliot, Che cos’è un classico? (del 1944) In T. S. Eliot, Opere,
p. 965.
[22] Tradition and
the Individual Talent (del 1919),
[23] La Scienza
Nuova Pruove filologiche, III.
[24] Cfr. fhmiv. La gente non solo vive e mangia ma
pure fa e interpreta la guerra seguendo il “si dice”. Seneca:"nulla res
nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De
vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del
fatto di regolarci secondo il "si dice".
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