martedì 11 marzo 2025

Kaisa IV La lettera del marito, utile per incartare le noccioline o gli sgombri

Dopo una breve pausa ripresi a corteggiare implacabile e pure a vezzeggiare  inesauribile  :“Kaisa volentieri[1] morirei,  piuttosto che rinunciare a te”.

Intanto stavo seduto con il braccio destro, ingessato, che pendeva verso il pavimento. Con quel gesto di resa volevo mimare  la desolazione di un topos  ricorrente nelle arti figurative:  risale a un sarcofago romano con la morte di Meleagro  e viene riusato  da Raffaello nella  Deposizione  dove si vede il braccio esanime del Cristo defunto, abbandonato nell’impotenza della morte, e il tenero atto pietoso della Maddalena che tiene nelle proprie mani la mano di Gesù[2].

Ero deciso a recitare un’altra volta questa mia parte: la callida simulazione di credere che la bella immacolata non potesse essere disposta a commettere la trasgressione erotica dell’infedeltà coniugale. Dovevo anche dissimulare il fatto che ero convinto del contrario, senza farle escludere del tutto, però, che lo speravo ardentemente. Una commedia complicata.

Allora dissi queste parole enfatiche, gonfie di iperboli vicine a scoppiare, a esplodere in una sonora risata :   

“Ti parlerò in modo ardimentoso ma sempre pieno del  rispetto dovuto alla tua persona. Ho riflettuto mentre scendevo e salivo le scale. Una catabasi non proprio infernale e  un’anabasi per tornare alla luce, ossia a te, amore mio. Ho elaborato con il pensiero le percezioni impresse sui sensi.

Tu, come un angelo mandato da Dio, hai risuscitato la mia vita mortificata, e ora quest’anima appena risorta non può procedere senza di te, ma rischia di tornare ad aggirarsi confusa, svigorita, esangue, in un labirinto buio come il Tartaro, compiendo, per il tempo che resta da vivere, nient’altro che una sinistra e inconcludente congerie di gesti insensati.

 Eppure credo sia meglio soffocare nel petto questo sentimento d’amore, povero amore mio chiuso nel cuore senza speranza, piuttosto che fare torto alla tua immagine, senza dubbio sacra, di madre e sposa buona, premurosa, fedele, cara al marito, al figlio, al padre, a chiunque ti veda e ti conosca. A me più cara di tutti però”.

 Così la adulavo senza decenza. E data la sua attenzione,  non smettevo, anzi rincaravo la dose fino al ridicolo.

La provocavo per vedere se a un certo punto si sarebbe messa a ridere o se mi avrebbe chiesto di non canzonarla più. Ma Kaisa mi guardava con gli occhi spalancati, un lieve sorriso, e non parlava. Finché lei stava zitta, forse incuriosita, io non dovevo smettere.

“Sì, preferisco fare del male a me stesso: soffocare la felicità immaginata solo guardando i tuoi occhi pieni di vita, inebriandomi con i profumi esalati dai tuoi capelli luminosamente neri, piuttosto che fare torto alla tua purissima immagine di donna  maritata cui devo non solo ogni rispetto umano, ma una venerazione speciale, religiosa, quella riservata alle spose sante. Io santo purtroppo non sono: prima di incontrarti sono stato piuttosto un satiro veneratore di Priapo e di Dioniso, ho gridato evoè più spesso di quanto abbia sussurrato osanna o amen, insomma ho vissuto una vita  coribantica, peggio che dissoluta,  ma, da quando ti ho vista, sono diventato un pentito, un penitente, un convertito dalla carne allo spirito, dal naturale al soprannaturale del quale vedo un riflesso chiaro, meraviglioso nella tua icona veneranda ”.

Quasi credevo a quanto dicevo recitando forse neanche del tutto male. E quasi piangevo. O per lo meno gli occhi mi si velavano di un liquido equivoco tra il sentimentale, rossa umidità  di cuore, e l’umore ribollente della libidine che, dentro di me, nera, pelosa e massiccia, scalpitava davvero con furia impudica[3] e tirava forte verso la pelle bianchissima, liscia e saporita di lei. Ero sicuo che sapeva di buono.

  Certo era che Kaisa capiva quanto la volevo e la cosa non le dispiaceva, anche perché celebrando la sua fedeltà, le toglievo comunque ogni timore di essere importunata: se  avesse risposto che il marito faceva bene a fidarsi di lei, poiché la amava del tutto riamato,  la preda agognata e mancata mi avrebbe fatto fuggire con la coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Siccome un cagnaccio pieno di zecche, bastonato e sciancato.

Invece disse: “Tu non mi fai torto, Gianni, non mi fai torto per niente”.

E mi accarezzò la mano destra. “Forse-aggiunse- mi fai complimenti così sperticati perché fino ad ora non hai trovato una donna del tuo stampo, della tua levatura, capace di respirare  il bello e l’arte, come sei solito fare tu ”.

“Ce l’ho fatta”, pensai, poi presi la maschera del riflessivo ancora dubitoso e la tenni per qualche secondo mentre gioivo e  ricordavo il mio Rossini: “Ah il più lieto, il più felice/è il mio cor de’cori amanti!/non fuggite, o lieti istanti/della mia felicità”[4].

Poi dissi:“ Infatti sentivo questa mancanza prima di incontrarti. Un deficit che solo tu potresti colmare. Tu respiri respiri bellezza e me la ispiri”. Poi aggiunsi: “se solo guardo te, tutto il resto del mondo che vedo ego ipse oculis meis diviene più ricco di significato e mi riempio di gioia”.  

La commedia funzionava perché era fatta non solo di calcoli, pose e citazioni, ma anche e soprattutto di simpatia autentica, forte, reciproca.

Si metteva assai bene, tuttavia lo scopo non lo avevo raggiunto, il bersaglio cui miravo con la tensione massima dell’anima mia e pure con quella del corpo, non lo avevo centrato ancora. Per cogliere quel centro agognato, l’ombelico del mondo con metafora apollinea,  ripetei la mossa astuta e poco nobile che aveva funzionato tanto bene con Elena un anno prima. Infatti tendo a ritualizzare per tempi lunghi gli atti della mia vita, quando hanno successo. Bonis successibus instruor.[5]

Dunque le dissi: “Kaisa, questa serata è la più bella di questa mia vita mortale, ora soltanto vedo l’inizio delle mie gioie, ma proprio adesso dobbiamo tornare: devo studiare fino all’alba la letteratura greca per l’esame di abilitazione che mi aspetta in autunno. Devo superarlo a pieni voti se voglio passare dalle medie al liceo, e lo voglio soprattutto per diventare non del tutto indegno di te. Questa notte verserò il sangue, non di animali come fece Odisseo[6], ma proprio il mio, per evocare e fare parlar le ombre grandi di Eschilo, Sofocle, Euripide. Non potranno negarsi  alla mia devozione”.

Non raccolse o finse di non avere colto l’allusione ai nostri autori e rispose soltanto “D’accordo, torniamo. Niente è importante quanto studiare”.

Ma si vedeva che ci era rimasta male. Ebbi paura che la mia mossa fosse stata controproducente e che Kaisa potesse prendermi per uno sgobbone, un pedante dall’anima curva, un umbraticus doctor, insomma quasi il contrario di quello che ero. Sicché aggiunsi un corollario:

“No, tu sei molto più importante per me, ma devo imparare dell’altro e progredire nel lavoro per essere, lo ripeto, quasi degno di te”.

Sembrava poco convinta, però non disse niente. In fondo avrebbe fatto una carriera scolastica e accademica  ben più consistente della mia.

Qualche giorno più tardi, disse che quella sera, tornata in collegio, aveva provato una paura tremenda di non vedermi mai più.

Il giorno dopo, terminate le lezioni di lingua ungherese, la incontrai nel secondo collegio dove, come ogni anno, alloggiavo.

 Quando arrivai in fondo alle scale, la vidi nell’atrio solitamente frequentato a quell’ora meridiana da gente che andava e veniva parlando di letteratura ungherese[7], oppure si fermava in attesa del pranzo auspicando un incontro, o quanto meno sperando di trovare una lettera, come avrei fatto io nel 1979 tutti i giorni, invano. Ifigenia mi aveva promesso un espresso che mai mi mandò. Ma questa è storia di sei anni più tardi e dovrò raccontarla più avanti, non senza dolore.

 

Kaisa dunque aveva in mano una busta  piena di fogli: li stava leggendo. Doveva essere la prima lettura. La posta infatti non la portavano nel collegio numero uno, quello dei Finnici, degli Estoni e dei Russi, ma la lasciavano tutta lì, nell’atrio del nostro, in una cassetta di legno aperta davanti, formata da tanti scompartimenti, uno per nazione.

Mentre la ragazza sposata leggeva, attendevo con impazienza che non davo a vedere, ma temevo che quella lunga lettera, probabilmente del marito, forse nemmeno uno scimunito data la moglie bella e fine che aveva trovato, la riconducesse al loro connubio mandando in malora il mio piano condotto con il massimo impegno.

Quando alzò gli occhi colore di viola e mi guardò, le domandai a bruciapelo: “Ciao, novità?”

Intendevo tra noi. Kaisa piegò i fogli adagio adagio, li ripose nella busta  che mise dentro la borsa portata a tracolla e rispose : “no, potrei incartarci le noccioline o forse gli sgombri [8]; ille meras nugas chartis illevit ”.

 “Meno male, sono fogli imbrattati di pure sciocchezze da quello”, pensai. Questa sera faremo il massimo[9]

Quindi le dissi: “Mi fa molto piacere trovarti qui. Stavo venendo a cercarti”.

“Anche io” fece lei, e andammo a bere l’aperitivo, un quartino di sangue di toro, al “Palma”, un Eszpresszó contiguo alla piscina. Il luminoso fiume della vita ci bagnava già i piedi. Eravamo tutti contenti,  non c’è bisogno di dirlo. Ma la contentezza è un dono di Dio e ricordarla fa bene, fa solo bene. Anche a te che mi leggi, credo, poiché dovrebbero venirti in mente i successi raggiunti e le gioie da te stesso  provate in questa vita mortale.

 

giovanni ghiselli, detto gianni il poverello di Pesaro, ricco del resto del non poco bene ricevuto e anche dato, manibus plenis e non solo gigli[10].

 

p. s.

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[1] Cfr. Dante Inferno, V, 73-75: poeta, volontieri-parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, e paiono sì al vento essere leggeri”. Si tratta dei lussuriosi e adulteri Paolo e Francesca

[2] Il  topos gestual del braccio che pende dal morto si trova anche in altri quadri tra i quali il Marat assassinato di David 

 

[3] Cfr. Il cavallo nero che rappresenta la parte bassa, libidinosa dell’anima umana nel Fedro di Platone (246A ss.)

[4] Il barbiere di Siviglia, atto secondo, scena ultima

[5] Cfr. Ammiano Marcellino XXI, 5, 6

[6] Cfr, la Nevkuia, il canto dei morti dell’Odissea.

[7] Cfr. T. S. Eliot: “In the room the women come and go-Talking of Michelangelo” (The love song of J. Alfred Prufrock, vv. 13-14)

 

[8] Cfr. Catullo 95, 8-9: at Volusi Annales Paduam morientur ad ipsam-et laxas scombris saepe dabunt tunicas”, ma gli Annali di Volusio, moriranno proprio lì nel Padovano e daranno spesso voluminosi cartocci per gli sgombri.

 

 

[9] Cfr. Teocrito II Idillio, Le incantatrici: “ejpravcqh ta; mevgista” v. 143, si fece il massimo. Simeta ricorda e rimpiangr il rapporto sessuale  avuto con l’atleta Delfi dal corpo splendente.

 

[10] Cfr. Virgilio Eneide, VI, 883

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