lunedì 27 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXXIII

Statua di Plutarco a Delfi

Il greco salva la vita: Plutarco (Vita di Nicia: Euripide che emancipa dalla schiavitù) e Canetti (La lingua salvata)

Per invogliare i giovani allo studio delle lingue cosiddette morte si può raccontare un episodio dal quale risulta che la conoscenza della lingua e della letteratura greca salvano la vita. Nella Vita di Nicia Plutarco narra che alcuni Ateniesi finiti nelle Latomie di Siracusa "kai; di j Eujripivdhn ejswvqhsan" (29, 2), si salvarono anche grazie ad Euripide. Infatti i Greci di Sicilia amavano il tragediografo e desideravano citarlo. Alcuni dei superstiti da quella catastrofe dunque, tornati a casa, andarono ad abbracciare affettuosamente Euripide e raccontarono che erano stati affrancati dalla loro schiavitù "ejkdidavxante" o{sa tw'n ejkeivnou poihmavtwn ejmevmnhnto" (29, 4) poiché avevano insegnato quanto ricordavano dei suoi drammi.
In effetti lo studio di Euripide e di autori significativi può avviare tante persone sulla strada dell'emancipazione.
Elias Canetti racconta che il nonno di sua madre una volta, "mentre era a dormire in coperta", in un battello sul Danubio "aveva udito due uomini che, parlottando tra loro in greco, stavano progettando un omicidio". Ebbene, grazie alla conoscenza di questa nostra amatissima lingua, l'uomo poté denunciare la trama assassina "e quando i due delinquenti arrivarono per compiere la loro impresa, subito furono agguantati". Sicché l'autore comprese subito quanto fosse importante padroneggiare le lingue: "con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui"[1].
Non il greco e il latino dunque sono lingue morte, bensì la ciancia dei più che imitano il linguaggio ingannevole della pubblicità.


La cultura contribuisce alla crescita della persona e sa trattare come vivo ciò che è vivo. Tolstoj, Nietzsche e l’uomo alessandrino[2]. il Museo, la biblioteca di Alessandria e gli “scarabocchiatori libreschi” canzonati da Timone di Fliunte[3]. Cicerone: gli inutili individui sepolti negli studi letterari, e l’ umbraticus doctor di Petronio. Luciano nella Storia Vera si prende gioco della “questione omerica”. Platone: la rivolta dei poveri snelli e abbronzati conto i ricchi pallidi e grassi fa cadere l’oligarchia. Seneca: il De brevitate vitae e la “morbosa” filologia omerica. Quintiliano: il ragazzo non deve impallidire a ammuffirsi in una vita umbratile e solitaria. Aristofane: le Nuvole contro i maestri pallidi. Annoiare è il crimine degli imbecilli. Goethe. Nietzsche: Zarathustra contro i dotti. Fellini: contro uno studio di tipo catastale. Hesse: il maestro deve avere la capacità di attirare e influenzare. Leopardi e la reputazione degli Italiani quali “custodi di musei”

La gestione e l'esposizione delle nostre materie non deve essere fredda, da erudito senza anima. "La cultura, secondo noi, rappresenta l'insieme di tutti gli elementi che contribuiscono alla crescita dell'individuo, che gli forniscono una più ampia concezione del mondo, che gli danno nuove conoscenze. Tutto produce cultura: i giochi infantili, le sofferenze, le punizioni dei genitori, i libri, il lavoro, lo studio libero e lo studio imposto, l'arte, la scienza, la vita[4]".
"La cultura comincia proprio dal punto in cui sa trattare ciò che è vivo come qualcosa di vivo"[5].
Noi insegnanti dobbiamo prendere le distanze dal pedante estraneo al mito e alla vita, quello che Nietzsche definisce "l'eterno affamato, il "critico" senza piacere e senza forza, l'uomo alessandrino[6], che è in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si accieca miseramente sulla polvere dei libri e degli errori di stampa"[7].
L’aspetto negativo di questa cultura museale, e della poesia “dotta”, è la sua separazione dall’anima popolare: “Questa separazione-che in Atene era stata motivo di incomprensione e di diffidenza tra i filosofi e la città ed ora era totale estraneità – fa sì che un poeta satirico e filosofo scettico, Timone di Fliunte, contemporaneo dei primordi del Museo, ne parli come di una “gabbia”: la gabbia delle Muse. “Nella popolosa terra d’Egitto-così si esprime Timone-vengono allevati degli scarabocchiatori libreschi che si beccano eternamente nella gabbia delle Muse” (fr. 12 Di Marco)”[8].
“A quanto sappiamo, non fu mai ad Alessandria Timone di Fliunte, che però doveva essere ben al corrente di quello che avveniva nella città egiziana, se poteva dirigere i suoi sarcasmi contro i filologi rinchiusi nella gabbia delle Muse, dunque contro il modo di vivere e operare nelle rinomate istituzioni culturali del luogo, e poteva dare al poeta Arato il consiglio di utilizzare le vecchie copie di Omero e non quelle recentemente corrette”[9].
A tali studiosi separati dalla vita allude Cicerone nell'orazione Pro Archia [10] e proclama la propria diversità da tale genìa che ha tutte le ragioni per vergognarsi: " Ceteros pudeat, si qui ita se litteris abdiderunt, ut nihil possint ex iis neque ad communem adferre fructum neque in aspectum lucemque proferre" (6, 12), gli altri si vergognino se si sono seppelliti negli studi letterari in modo che da questi non possono recare niente all'utilità comune, né presentare alcunché alla vista e alla luce.
Petronio contrappone l' umbraticus doctor deleterio ai grandi tragici: " cum Sophocles aut Euripides invenerunt[11] verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat "[12] quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni.
Su questa linea procede Luciano il quale si prende gioco della cosiddetta questione omerica, e del sentimento nazionale dei Greci, immaginando un incontro con Omero che afferma di essere un Babilonese di nome Tigrane, nome poi cambiato in Omero per essere stato in ostaggio presso gli Elleni (oJmhreuvsa~ para; toi'~ {Ellhsin), quindi aggiunge che i versi espunti dai filologi Alessandrini invero erano autentici (Storia vera, II, 20). Sicché i grammatici seguaci di Zenodoto e Aristarco vengono accusati di yucrologiva, di fare delle fredde chiacchiere.
 Del resto Luciano premette alla sua storia la confessione che è una favola mentita, essendo lui un seguace dell’ Odisseo omerico divdaskalo~ th'~ toiauvth~ bwmolociva~ (I, 3), maestro di tale ciarlataneria.

Il documento presentato da Roberto Pretagostini sulla Cultura classica nella nuova scuola superiore[13] propone, tra altre cose, che il nuovo professore di Cultura e civiltà classica debba "inventare…specifici e in qualche misura originali percorsi di apprendimento". L' umbraticus doctor è assimilabile all'insegnante noioso indicato da Ferruccio Bertini quale modello negativo.
L’ombra aduggia la forza della vita. E' interessante notare che nell’VIII libro della Repubblica di Platone la rivolta contro l'oligarchia parte dal povero snello e abbronzato ijscno;" ajnh;r pevnh" hJliwvmeno" (556d) il quale, schierato in battaglia accanto al ricco cresciuto nell'ombra con molta carne altrui (paratacqei;" ejn mavch/ plousivw/ ejskiatrofhkovti, polla;" e[conti savrka" ajllotriva"), lo vede pieno di affanno e difficoltà, e capisce che non vale nulla, quindi che non deve obbedirgli poiché il potere di quell’individuo pallido e grasso non è naturale.
Anticipa il der Mensch ist was er isst di Feuerbach.
Anche Seneca disapprova un approccio devitalizzante ai testi classici: nel De brevitate vitae[14] il filosofo sconsiglia di accorciare la vita perdendo tempo in occupazioni che non giovano allo spirito: "Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris sed molestior" (13) questa fu una malattia dei Greci, cercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea, inoltre se siano del medesimo autore, e successivamente altre notizie di questo tipo, nozioni che se le tieni per te non giovano per niente al puro fatto di saperle, se le tiri fuori, non sembri più dotto ma più pedante.
 Il classicista Quintiliano vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che deve diventare un buon oratore: "Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[15], prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce, e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.
Il maestro pallido, ossia tedioso, desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo.
Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori, i maestri lazzaroni della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano: "aijboi', ponhroiv g' oi\da. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Aristofane, Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei furfanti, ho capito. Tu dici quei ciarlatani, quelle facce pallide, gli scalzi.

Nella Pace[16] è pallida addirittura la città di Atene paralizzata dal terrore della guerra, dei demagoghi e dei sicofanti: "hJ povli" ga;r wjcriw'sa kajn fovbw/ kaqhmevnh" (v. 642).
Di certo gli studenti proveranno simpatia per le parole dei grandi autori contro i cattivi maestri. Possiamo aggiungere queste di Mefistofele a Faust: " Che è questo luogo di martirio? E che vita è questa che consiste nell'annoiare sè e i giovani?"[17].
Quanti di noi lo fanno? Non dimentichiamo mai che annoiare è il crimine degli imbecilli. Dobbiamo avere il terrore di annoiare chi ci ascolta.
Quindi Nietzsche: “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”[18].
L’insegnante bravo è quello che non solo ha studiato molto ma ha vissuto, gioito e sofferto e amato molto. A lui molto sarà perdonato.
Sentiamo i ricordi di Fellini studente: "La scoperta, la conoscenza del mondo pagano che si acquisisce a scuola, ad esempio, è di tipo catastale, nomenclativo, favorisce con quel mondo un rapporto fatto di diffidenza, di noia, di disinteresse, al massimo di una curiosità casermesca, abietta, un po' razzistica, comunque di cosa che non ti riguarda"[19]. In un altro libro il regista riminese racconta di un insegnante impreparato che si riempiva di ridicolo: " Il professore era comicissimo quando pretendeva che dei mascalzoni di sedici anni fossero presi da entusiasmo perché lui declamava con la sua vocina l'unico verso rimasto di un poeta: "Bevo appoggiato sulla lancia"[20]; e io allora mi facevo promotore di ilarità sgangherate inventando tutta una serie di frammenti che andavamo sfacciatamente a riproporgli"[21].
La chiave è proprio questa: far capire e sentire ai giovani che quel "mondo pagano" li riguarda. Certamente l'attenzione degli studenti ha un prezzo molto alto, quello della nostra preparazione, e il loro consenso non va cercato a tutti i costi. Josef Knecht durante il suo apprendistato nel mondo spirituale della Castalia "imparò che un po' di questa capacità di attirare e d'influenzare gli altri è parte essenziale delle doti di un insegnante e di un educatore, e che nasconde pericoli e impone certe responsabilità"[22].
 Leopardi considera malinconicamente la reputazione che hanno gli Italiani all’estero di essere “tanti custodi di un museo”, quando va bene: “Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii, per così dire, delle diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec. (31 Marzo 1827) ”[23].
Infine sentiamo Pasolini su che cosa è un maestro. Non è un travet, non è solo un professore, sia pure universitario. “Longhi era sguainato come una spadsa. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità”. Il grande maestro “si poneva come alternativa alla realtà fino a quel momento conosciuta”[24].
47. Contro la scuola che reprime l’originalità e l’intelligenza.
Eco: ogni lezione deve essere un’avventura. Pasolini: la scuola, purtroppo, è tutt’altro che un’avventura. Morin: la vita stessa, la storia dell’uomo è un’avventura ignota (cfr. la conclusione dell’Alcesti, della Medea, dell’Andromaca, dell’Elena e delle Baccanti di Euripide).
Dario III capisce a Gaugamela “quam versabilis fortuna sit”.
Annibale a Zama: la tuvch ci tratta come se fossimo dei bambini.
Ortega y Gasset: il classico deve essere contemporaneizzato.
Tolstoj e gli insegnanti che, spiritualmente distorti, reprimono la creatività. Morin, la complessità e la curiosità. La curiosità: Lucio di Apuleio e l’Odisseo di Omero. Di nuovo Pasolini: bisogna provocare la curiosità. Nietzsche: la piatta mediocrità ottiene lodi. Seneca: “Unum studium vere liberale est, quod liberum facit”. Padri e madri quali educatori liberali e stimolanti, o, viceversa, quali padroni autoritari deterrenti: Terenzio (pudor e liberalitas oppure metus) e Sofocle (la madre padrona nell’Elettra). Nietzsche: gli educatori devono essere dei liberatori.
In un intervento[25] nell'Aula Magna dell'Università di Bologna Umberto Eco ha affermato che ogni lezione deve essere un'avventura appassionante, ricca di nessi con l'attualità.
“Ora la scuola è terribilmente ragionevole, è una specie di palestra dove il ragazzo è costretto a una ginnastica che non lo conferma in altro che nel distinguere subito il rispettabile e l’autorevole dallo scandaloso e dall’originale considerando…che la Verità sia da rinvenirsi nei secondi termini di questa distinzione. La scuola non è in genere un’avventura che per il chiasso nelle ore di ricreazione o per gli sgomenti durante il compito di greco (omissis coloro che usufruiscono di una naturale disposizione per la scienza o una nativa sensibilità) proprio quando il ragazzo non ama null’altro che l’avventura”[26].
La vita stessa è un’avventura: “La formula del poeta greco Euripide, antica di venticinque secoli, è più attuale che mai: ‘L’atteso non si compie, all’inatteso un dio apre la via’ [27]. L’abbandono delle concezioni deterministe della storia umana che credevano di poter predire il nostro futuro, l’esame dei grandi eventi del nostro secolo che furono tutti inattesi, il carattere ormai ignoto dell’avventura umana devono incitarci a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso per affrontarlo. E’ necessario che tutti coloro che hanno il compito di insegnare si portino negli avamposti dell’incertezza del nostro tempo…Non abbiamo ancora incorporato il messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. La fine del XX secolo è stata tuttavia propizia, per comprendere l’irrimediabile incertezza della storia umana. I secoli precedenti hanno sempre creduto in un futuro o ripetitivo o progressivo. Il secolo XX ha scoperto la perdita del futuro, cioè la sua imprevedibilità. Questa presa di coscienza deve essere accompagnata da un’altra, retroattiva e correlativa: quella secondo cui la storia umana è stata e rimane un’avventura ignota…la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze”[28].
Il grande re dei Persiani, Dario III, dopo essere stato sconfitto da Alessandro Magno a Gaugamela, nel 331 in Assiria, e poco prima di perdere anche la vita, oltraggiato e ucciso dai satrapi felloni, disse di essere la prova vivente di quanto fosse mutevole la fortuna; al punto che sperava ancora in rivolgimenti più favorevoli: “Equidem, quam versabilis fortuna sit, documentum ipse sum nec immerito mitiores vices eius expecto[29] Questi rivolgimenti ci furono pochi anni dopo, ma per Alessandro Magno che morì ante diem, non per Dario.
Prima della battaglia di Zama, Annibale parla con il più giovane avversario[30]. Cerca di evitare lo scontro dicendo: io sono pronto a scongiurare l’ira degli dèi poiché ho sperimentato come la tuvch sia mutevole e per un nonnulla faccia pendere la bilancia alternatamente da una parte o dall’altra kaqavper eij nhpivoi~ paisi; crwmevnh (15, 6, 8), come se trattasse con dei bambini infanti[31]. Poi aggiunge: “ guarda me: stavo per prendere la tua patria e ora devo difendere la mia”.
Dunque: parakalw' se mh; mevga fronei'n, ti esorto a non insuperbirti, ma a decidere in maniera degna di un uomo (ajnqrwpivnw~), cioè a scegliere sempre il più grande dei beni e il più piccolo dei mali (15, 7, 6).
Propose quindi che l’Africa fosse dei Cartaginesi, la Sicilia e la Sardegna dei Romani.
 Ho insistito su questo concetto poiché adesso i più cercano disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto, e la maggior parte degli insegnanti di ginnasio continua a ruminare spiriti, accenti e paradigmi verbali, senza procedere oltre.

“Non c’è che un modo di salvare il “classico”: usandolo per la nostra salvezza senza alcun riguardo, cioè prescindendo dal suo classicismo, avvicinandolo a noi, “contemporaneizzandolo”, facendolo nuovamente palpitare, iniettandogli il sangue delle nostre vene, i cui ingredienti sono le nostre passioni… e i nostri problemi. Invece di diventare centenari nel centenario, cerchiamo la resurrezione del “classico” ri-sommergendolo nell’esistenza”[32].
 Si veda il capitolo 16. 5 contro la pena di morte: mi è stato suggerito dal supplizio di Saddam Hussein trasfigurato da carnefice, quale l’avevano presentato i media dopo che ebbe smesso di fare gli interessi dell’Occidente, a vittima sacrificale di un rito barbarico e osceno.
Tolstoj definiva gli insegnanti ostili alla creatività "creature spiritualmente distorte"[33] che vengono adoperate, e si adoperano, per l'abbrutimento dei ragazzi. "Quello strano stato psicologico che io chiamo stato scolastico dell'anima, che tutti noi purtroppo conosciamo così bene, consiste nel fatto che tutte le facoltà più elevate-immaginazione, creatività, comprensione-lasciano il posto ad altre facoltà semi-animalesche: il pronunciare i suoni indipendentemente dall'immaginazione, il contare i numeri in fila, 1, 2, 3, 4, 5…, il percepire le parole senza permettere alla fantasia di arricchirle con immagini; in una parola, la facoltà di reprimere in sé tutte le facoltà più elevate per sviluppare solo quelle che coincidono con l'ordine scolastico, il terrore, lo sforzo della memoria e l'attenzione"[34].
“La conoscenza pertinente deve affrontare la complessità. Complexus significa ciò che è tessuto insieme…L’educazione deve favorire la capacità naturale della mente di porre e risolvere i problemi essenziali e, correlativamente, deve stimolare il pieno uso dell’intelligenza generale. Questo pieno uso richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva nell’infanzia e nell’adolescenza, ossia la curiosità, che troppo spesso la scuola spegne e che si tratta, al contrario, di stimolare o di risvegliare, se dorme”[35].
Per quanto riguarda la curiosità, Apuleio la considera motivo di conforto e fonte di salvezza per Lucio, il protagonista del suo romanzo, prefigurato da Ulisse: " Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar... Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " (Metamorfosi, IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità... e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.
“La curiosità è l’unico istinto di cui l’educatore può debitamente usufruire... bisogna provocare la curiosità, poi qualsiasi obiettivo è buono: la costruzione del verbo videor come il rapporto tra i sessi, l’ a priori di Kant come le ballerine del varietà”[36].
La scuola anche secondo Nietzsche, tende a reprimere l'originalità per privilegiare la mediocrità: "L'aspetto veramente autonomo…ossia appunto l'aspetto individuale, viene biasimato, ed è respinto dall'insegnante a favore di un contegno dignitoso, mediocre e privo di originalità. La piatta mediocrità, per contro, ottiene lodi, elargite a malincuore: la mediocrità infatti suole annoiare parecchio l'insegnante, e con buone ragioni"[37]. Procedo rimanendo su queste conferenze tenute dal giovane[38] professore dell'Università di Basilea in polemica contro i filologi freddi, senza anima: "Può accadere che uno di questi filologi scriva versi, sapendo consultare il Lessico [39] di Esichio. Vi sono infine coloro che promettono di risolvere una questione come quella omerica, prendendo lo spunto dalle preposizioni, e credono di tirar su la verità dal pozzo, servendosi di ajnav e di katav. Tutti poi, secondo le più diverse tendenze, scavano e frugano il terreno greco con una tale irrequietezza, con una tale imperizia sgraziata, che un serio amico dell'antichità deve davvero impensierirsene"[40].
I giovani devono sentire le loro energie incoraggiate dallo studio dei classici: "unum studium vere liberale est quod liberum facit, hoc est sapientiae, sublime, forte, magnanimum: cetera pusilla et puerilia sunt " [41] un solo studio è davvero liberale, quello che rende libero, cioè lo studio della sapienza, sublime, forte, magnanimo. Gli altri sono piccini e puerili. La sapienza è l’unica libertà: “Sapientia quae sola libertas est[42].
La liberalitas, la generosità di chi è davvero libero, con il pudor, il rispetto di chi sa di essere uomo, sono i valori che trattengono i giovani dal fare il male, dal farsi del male, in modo più efficace del metus secondo Terenzio: "Pudore et liberalitate liberos/retinere satius esse credo quam metu: /hoc pater ac dominus interest" (Adelphoe[43], vv. 57-58), credo che sia meglio tenere a freno i figli con il rispetto e con la generosità che con la paura. In questo differisce un padre da un padrone.
 Non c'è solo il padre padrone ma anche la madre padrona: tale è Clitennestra secondo l'opinione della figlia nell'Elettra[44] di Sofocle: "kaiv s j e[gwge despovtin-h] mhtevr j oujk e[lasson eij" hJma'" nevmw" (597-598) e io ti considero padrona non meno che madre verso di noi.
 L’educazione deve liberare il giovane da ogni forma di asservimento: "i tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori". Ogni formazione "è liberazione, rimozione di tutte le erbacce, delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante, irradiazione di luce e di calore"[45]

paura inculcata dalla religio. La paura inculcata dalla religio. Livio e il re Numa. Il dramma satiresco Sisifo attribuito a Crizia. Seneca. Stazio. Machiavelli.

Fu il re Numa che decise di infondere il timore degli dèi (“deorum metum iniciendum ratus est ” (Livio, I, 19, 4), cosa efficacissima per la massa ignorante e rozza di quei tempi.

E' la ragione già svelata da Crizia, sofista e tiranno sanguinario, (460-403 a. C.) nel dramma satiresco Sisifo che contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi poiché le leggi non bastavano a inceppare i malvagi quando agivano di nascosto: "mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente ("lavqra/") [46].
 Seneca (1 a. c. ca-65d. C.) nelle Naturales quaestiones (opera della vecchiaia) ribadisce questo concetto: "ad coercendos imperitorum animos sapientissimi viri iudicaverunt inevitabilem metum ut aliquid supra nos timeremus. Utile erat in tanta audacia scelerum esse aliquid adversus quod nemo sibi satis potens videretur " (II, 42, 3), per tenere a freno gli animi degli ignoranti, degli uomini sapientissimi giudicarono inevitabile la paura perché temessimo qualche cosa sopra di noi. Era utile in così grande audacia di delitti che ci fosse qualche cosa contro la quale nessuno si credesse abbastanza potente.
Nella Tebaide di Stazio (45 ca-96 d. C.) Anfiarao annuncia cattivi presagi e Capaneo replica: "quid inertia pectora terres?/primus in orbe deos fecit timor " (III, 660-661), perché terrorizzi i petti senza energia? per prima la paura impose gli dèi al mondo.
Un argomento che in epoca moderna viene ripreso da Machiavelli. L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1517) verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare... E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella... E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate". Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio" nomina Licurgo e Solone. Infine tira le somme: "Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".







[1] E. Canetti, La lingua salvata (del 1977), p. 46.
[2] La cultura alessandrina fiorì sotto il patrocinio dei Tolomei, a partire da Tolomeo I Sotèr che divenne satrapo dell’Egitto dopo la morte di Alessandro Magno (323 a. C.), assunse il titolo di re nel 305, e morì nel 283. Ulteriore impulso venne dato dal suo successore Tolomeo II Filadelfo che fu correggente dal 285, regnò dal 283 al 246 a. C., poi da Tolomeo III Evergete (246-221 a. C.).
[3] 315-225 a. C.
[4] L. Tolstoj, Educazione e formazione culturale in Lev Tolstoj, Quale scuola?, p. 77.
[5] F. Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole, p. 43.
[6] Ad Alessandria d’Egitto, la città fondata da Alessandro Magno nella primavera del 331 a. C., i Tolomei istituiscono un Museo dove “vengono a confluire strumenti di lavoro, collezioni di animali, raccolte di libri” Inoltre “dentro il Museo vivono in koinonia gli scienziati e i letterati: lì studiano, lì impartiscono il loro insegnamento, lì consumano i pasti in comune”. (L. Canfora, La Biblioteca e il Museo in Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. I, Tomo II, p. 15). Viene in mente la Castalia di Il gioco delle perle di vetro di H. Hesse. Oltre al Museo i Tolomei fondarono una “ grande biblioteca “mirante –secondo l’ambizioso progetto-a contenere tutti i libri del mondo… Tutte le fonti concordano nell’attribuire al II Tolomeo, il Filadelfo (285-246 a. C.), figlio e successore dopo due anni di correggenza, del Soter, l’iniziativa della grande biblioteca ed il merito di averla incrementata in modo ammirevole e rapido. E nondimeno le medesime fonti pongono accanto al Filadelfo, come principale esecutore e ordinatore di questa impresa, Demetrio Falereo, che invece dal Filadelfo fu eliminato non appena questo poté regnare da solo (fr. 69 Wehrli) ” L. Canfora, op. cit., p. 20. Demetrio del Falero era l’allievo di Teofrasto che Cassandro impose nel 317 al governo di Atene: nel 307 fu costretto a fuggire da Demetrio Poliorcete: si rifugiò in Egitto dove rimase fino alla morte.
[7]Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 123.
[8] L. Canfora, La Biblioteca e il Museo in Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. I, Tomo II, p. 16.
[9] F. Montanari, La Biblioteca e il Museo in Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. I, Tomo II, p. 635
[10] Del 62 a. C.
[11] Invenerunt e il successivo deberent significano da una parte inventiva e fantasia, dall'altra la non meno necessaria disciplina che più avanti infatti viene rimpianta.
[12]Satyricon, 2.
[13] Il documento è firmato da Ferruccio Bertini, Maria Pia Ciccarese, Leopoldo Gamberale, Roberto Pretagostini, Giuseppe Zecchini.
[14] Del 49 ca d. C. La brevità della vita umana ha dato parecchio da dire agli scrittori e ai loro personaggi: "Scostatevi, vacche, che la vita è breve", gridava Aureliano secondo in Cent'anni di solitudine di G. G. Marquez (p. 202).
[15] Institutio oratoria I, 2, 18.
[16] Del 421 a. C.
[17] Goethe, Faust, Prima parte (del 1808), in Goethe, Opere, p. 22.
[18] Così parlò Zarathustra, p. 352.
[19] F. Fellini, Fare un film, p. 101.
[20] Si tratta di una parte del pentametro del fr. 2D. di Archiloco costituito da un distico elegiaco. Non è "l'unico verso rimasto" del poeta vissuto nel VII secolo a. C..
[21] F. Fellini, intervista sul cinema, p. 136.
[22] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 155.
[23] Zibaldone, 4267.
[24] P. P. Pisolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, p. 2594
[25] 8 ottobre 2002
[26] P. P. Pasolini, scolari e libri di testo Il Mattino del popolo, 26 novembre 1947, in Pasolini sulla politica e sulla società, p. 52
[27] E’ uno degli ultimi cinque versi della Medea; vediamoli tutti: “Di molti casi Zeus è dispensatore sull' Olimpo;/e molti eventi in modo insperato compiono gli dèi;/e i fatti aspettati non vennero portati a compimento, /mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via. /Così è andata a finire questa azione (vv. 1415-1419. La stessa conclusione, con la sola variante del primo di questi ultimi versi ("molte sono le forme della divinità") si trova nell'Alcesti, nell'Andromaca, nell'Elena e nelle Baccanti (ndr).
[28] E Morin, I sette saperi, p. 14, p. 81 e p. 88.
[29] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 5, 8, 15.
[30] Scipione aveva una decina di anni meno di Annibale.
[31] Cfr. King Lear: "As flies to wanton boys, are we to the gods, /They kill us for their sport " (IV, 1), come mosche per dei monelli capricciosi siamo noi per gli dèi.
[32] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 220.
[33] Educazione e formazione culturale in Quale scuola?., p. 85.
[34] Sull'istruzione popolare (del 1862), in Lev Tolstoj, Quale scuola?, p. 57.
[35] E. Morin, I sette saperi, p. 39.
[36] P. P. Pasolini, scolari e libri di testo, (“Il Mattino del popolo, 26 novembre 1947) in Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p. 51
[37] F. Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole, p. 46.
[38] Nietzsche le scrisse all'inizio 1872, quando aveva compiuto ventisette anni da pochi mesi.
[39]Del V secolo d. C., pervenutoci parzialmente (n. d. r.).
[40]Sull'avvenire delle nostre scuole, p. 71.
[41]Seneca (4 ca a. C. -65 d. C.), Ep., 88, 2
[42] Seneca, Ep., 37, 4.
[43] Del 160 a. C.
[44] Intorno al 415 a. C.
[45] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 168.
 [46] Sono parole di un frammento (25 D. K.) del dramma satiresco, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C. 

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