domenica 12 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXIII

Vittorio Alfieri

Abbiamo menzionato l’eterna borghesia. Vediamo allora che cosa è il borghese. Vittorio Alfieri: due satire (La sesqui-plebe e Il commercio) e la Vita. Orazio e Parini: il mercante sensibile solo al guadagno che Gozzano rivaluta. Schopenhauer, Wilde e i filistei, Hesse, T. Mann (Naphta), Pasolini (il borghese è un vampiro), Marx, Huysmans, Don Milani, Magris, Seneca (Medea), Màrai e l’identità data dalla roba. Socrate secondo Mazzarino

C’è una satira (la IV) di Vittorio Alfieri contro il ceto medio che merita di essere letta. E’ l’antitesi della teoria della classe media di Euripide[1].
La satira è preceduta da un’epigrafe tratta dal Persa di Plauto: si tratta di una sequela di insulti lanciati dallo schiavo Tossilo contro il lenone Dordalo: “pecuniae accipiter avide atque invide, /procax, rapax, trahax-trecentis versibus/tuas inpuritias transloqui nemo potest” (vv. 409-411), avvoltoio avido di denaro e invido, sfacciato, ladrone, rapace, nessuno potrebbe raccontare le tue impudicizie nemmeno in trecento versi.
Alfieri li traduce così: “Aurivoro avvoltoio, invido ed avido/di te audace furace rapace/annoverar le porcherie, né il ponno carmi trecento.

 LA SESQUI-PLEBE
 1 Avvocati, e Mercanti, e Scribi, e tutti
 2 Voi, che appellarvi osate il Ceto-medio,
 3 Proverò siete il Ceto de' più Brutti.
 4 Nè con lunghe parole accrescer tedio
 5 Al buon Lettor per dimostrarlo è d'uopo;
 6 Che in sì schifoso tema anch'io mi tedio. -
 7 È ver, che molti prima, e alquanti dopo
 8 Di voi, nel gregge social, si stanno:
 9 Ma definisco io l'uom dal di lui scopo.
 10 Certo è, che il vostro è di camparvi l'anno;
 11 E d'impinguarvi inoltre a più non posso,
 12 Di chi v'è innanzi, e di chi dietro, a danno.
 13 Il Contadin, che d'ogni Stato è l'osso,
 14 Con la innocente industre man si adopra
 15 In lavori, che il volto non fan rosso.
 16 Il Grande, e il Ricco, la cui man null'opra,
 17 Spende il suo; quindi agli altri egli non nuoce,
 18 Ed è men sozzo perch'ei già sta sopra.
 19 Ma voi, cui l'esser poveri pur cuoce,
 20 E l'aratro sdegnate, o ch'ei vi sdegna,
 21 Bandita avete in su l'altrui la croce.
 22 Onde voi primi, alta ragion m'insegna,
 23 Ch'esser dobbiate infra le classi umane,
 24 Qualor sen fa patibolar rassegna.
 25 Le cittadine infamie e le villane
 26 Veggo in voi germoglianti in fido innesto,
 27 E in un de' Grandi le rie voglie insane.
 28 De' ceti tutti, i vizi tutti; è questo
 29 Il patrimonio eccelso di vostr'arte;
 30 Ma non di alcun de' ceti aver l'onesto.
 31 D'ogni Città voi la più prava parte,
 32 Rei disertor delle paterne glebe,
 33 Vi appello io dunque in mie veraci carte,
 34 Non Medio-ceto, no, ma Sesqui-plebe.

La XII satira, Il commercio, riprende il tema. Vediamone la conclusione.
154 In qualche error, ma sempre vario, impazza
 155 Ogni età: Cambiatori, e Finanzieri;
 156 Gli Eroi son questi, ch'oggi fa la Piazza:
 157 Questi, in cifre numeriche sì alteri,
 158 Ad onta nostra, dall'età future
 159 Faran chiamarci i Popoli dei Zeri.
 160 Ma morranno anco un dì queste imposture,
 161 Come tant'altre ch'estirpò l'Obblìo:
 162 E si vedrà, basi mal ferme e impure
 163 Aver gli Stati, ove il Commercio è Dio;
 164 E tornerassi svergognato all'Orco,
 165 Donde, uccisor d'ogni alto senso uscio,
 166 Quest'obéso impudente Idolo sporco.

Le satire furono scritte fra il 1786 e il 1797.

Vittorio Alfieri nella Vita[2] racconta che un banchiere cui aveva regalato un cavallo di pregio, in Spagna, nel 1772, lo contraccambiò truffandolo attraverso una cambiale: “ Ma io non avea neppur bisogno di aver provato questa cortesia banchieresca per fissare la mia opinione su codesta classe di gente, che sempre mi è sembrata l’una delle più vili e pessime del mondo sociale; e ciò tanto più, quanto essi si van mascherando da signori, e mentre vi danno un lauto pranzo in casa loro per fasto, vi spogliano per uso d’arte al loro banco; e sempre poi sono pronti ad impinguarsi delle calamità pubbliche” (3, 12).
Il mercante, indocilis pauperiem pati, incapace di accettare una condizione modesta, e antitetico al poeta, si trova nella prima ode di Orazio (vv. 15-18) e nell'ode Alla Musa del Parini: "Te il mercadante che con ciglio asciutto/fugge i figli e la moglie ovunque il chiama/dura avarizia nel remoto flutto, /Musa, non ama" (vv. 1-4) Questa figura negativa del resto trova una rivalutazione, sebbene velata di ironia, in Gozzano: "Oh! questa vita sterile, di sogno!/Meglio la vita ruvida concreta/del buon mercante inteso alla moneta". [3]

Abbiamo già detto che Schopenhauer vede il borghese come "l'uomo privo di ogni bisogno spirituale... è per l’appunto ciò che viene chiamato…un filisteo. Costui è e rimane cioè l' a[mouso" ajnhvr", ossia l'uomo estraneo alle muse (Parerga e Paralipomena, Tomo I, p. 462).
Oscar Wilde nel De Profundis (del 1897) identifica il filisteo con il nemico della spiritualità. Cristo “capì che gli uomini non dovevano prendere troppo sul serio gli interessi materiali, quotidiani; che non essere pratici è una gran cosa; e che non occorreva angustiarsi eccessivamente per gli affari…la guerra più dura la muoveva ai filistei. La guerra che ogni figlio della luce deve combattere. Tutti eran filistei nel tempo e nella comunità in cui viveva. Nella loro cieca incapacità d’accogliere nuove idee, nella loro ottusa rispettabilità, nella loro tediosa ortodossia, nel loro culto dei meschini successi, nel loro preoccuparsi esclusivamente del lato grossolano, materiale dell’esistenza, nella loro ridicola presunzione e vanagloria, gli ebrei di Gerusalemme al tempo di Cristo corrispondevano esattamente ai nostri filistei britannici”[4].

 H. Hesse in Il lupo della steppa definisce il borghese: "una creatura di debole slancio vitale... l'assoluto gli è intollerabile" (p. XVII).
Quando si esclude l’assoluto fiorisce la chiacchiera: “Perché c'è soltanto un'antitesi assoluta all'assoluto e cioè la chiacchiera vana"[5].

 In La montagna incantata di T. Mann ci sono due personaggi che si contendono l’anima del giovane protagonista Hans Castorp. Ebbene il quasi gesuita[6] Naphta considera il rivale, l’umanista, “il signor Settembrini, il letterato…l'uomo del progresso, del liberalismo, della rivoluzione borghese”. Ma “il progresso era puro nichilismo ed il borghese liberale l’uomo del nulla e del diavolo. Anzi egli negava Dio, l'Assoluto, per darsi in braccio al diabolico antiassoluto, e nel suo pacifismo di morte si credeva chissà quanto devoto e pio"[7]. Questo grande libro di T. Mann, un “romanzo come architettura di idee”[8], è una di quelle opere che i giovani dovrebbero legge per il loro arricchimento mentale e per la loro educazione.

Torniamo a Pasolini e sentiamo un suo anatema contro la cultura pragmatica che è poi quella borghese: “io per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai borghesi all’opposizione, ai “soli” (come son io). Il borghese - diciamolo spiritosamente – è un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui. [9]
“Nessuna opera, di narrativa, di poesia, di filosofia che conti può conciliarsi ideologicamente-per la contradizion che nol consente-con il lettore medio borghese: ogni opera di poesia è fondamentalmente innovativa, e quindi scandalosa. E il borghese teme soprattutto, come la peste, l’innovazione e lo scandalo: egli è conservatore quando non è reazionario. La poesia lo contraddice alle radici”[10].
Il borghese è pure il conformista, spesso razzista: “L’uomo per vivere, ha bisogno di fondamenta sicure: di abitudini. Quando una di tali abitudini scompare, un’altra ne prende il posto modellandosi sulla precedente, perché ne prende la meccanica funzione di protezione contro il caos. Dai campi di Buchenwald o di Dachau, il razzismo può giungere a dei fenomeni apparentemente piccoli, ma fondamentalmente gravi, come l’assassinio di domenica sera”. Un ladruncolo, tal “Moscucci Rossano” era stato ammazzato a Roma, in piazza Navona, da “un idiota” che andava in giro armato di pistola. “Il razzismo, infatti, è una meccanica: non gli importa l’oggetto. Che può essere sostituito con la massima facilità. L’odio contro gli Ebrei può essere sostituito dall’odio contro i Negri: l’importante è che ci sia una minoranza di persone, una categoria, da odiare. In nome, naturalmente, della maggioranza, di coloro che sono tutti uguali fra loro, la cui vita è regolata dalle stesse norme, i cui lineamenti finiscono per assumere una analogia quasi fisica, ecc. ecc.: in nome del conformismo, insomma. Sono certo che nella testa di quell’essere odioso che andava in giro armato di pistola, i giovani ladruncoli del quartiere si erano inseriti in una idea generalizzante di tipo razzistico. Il suo odio contro di loro era dunque, in definitiva, una forma sia pur degenerata e particolare, di odio di classe… mi interessano le “conferme” che l’assassino ha avuto della sua aberrazione ideologica, del suo classismo razzista. Non c’è giornale italiano, anche il meno borghese come impostazione politica, che in qualche modo non abbia la sua pur minima parte di responsabilità. I giornali borghesi per autentico conformismo borghese, quelli anti-borghesi per timore di andare contro quel conformismo, ossia di urtare l’opinione pubblica-a cui tengono tanto-, non hanno mai saputo o voluto dare una immagine esatta di persone come è stato nella sua breve vita il povero Moscucci Rossano…Così anche i giornali dei radicali o dei socialisti o dei comunisti quando parlano di persone come Moscucci Rossano ne parlano come di tipi di una “razza” diversa, predestinati al disprezzo, all’inesistenza, alla condanna morale. Persone prive di peso umano. Di prestigio umano. Capri espiatori di una situazione umana infetta, di una vita nazionale corrotta e ipocrita…Bisogna avere il coraggio di scandalizzare. Non bisogna mai, per nessuna ragione di tattica o di compromesso, adottare di fronte all’opinione pubblica, il suo punto di vista di perbenismo borghese, non bisogna confondere la morale col moralismo conformista”[11].

La borghesia non lascia tra uomo e uomo "altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. Essa ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco"[12].
“E che cosa d’altronde poteva esserci di comune tra lui e quella borghesia che s’era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d’imporre il rispetto dei suoi misfatti e delle sue ruberie…Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa infieriva senza pietà contro l’eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse alla gola delle vecchie caste…Conseguenza della sua salita al potere, era stata la mortificazione di ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte di ogni arte. Gli artisti umiliati, s’eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano…. Era insomma la galera in grande dell’America trapiantata nel nostro continente; era l’inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all’empio tabernacolo delle Banche”[13].

“Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione. Se occorresse “cambiare tutto perché non cambi nulla” non esiterà a abbracciare il comunismo”[14].
“La vita borghese è micrologia, visione analitica e riduttiva nella quale l'esistenza non fa più balenare un senso globale che la illumini e le dia valore”[15].
La cultura pragmatica, che diventerà quella del borghese, arriva a strumentalizzare tutto. Si pensi al secondo coro della Medea di Seneca che rimpiange, in dimetri anapestici, il tempo della non strumentalizzazione degli astri.
"Alla breve presentazione dell'audacia del primo navigatore segue la descrizione (vv. 309-317) del tempus precedente come tempo di pura contemplazione o comunque di non strumentalizzazione del cosmo-starei per dire dello spazio-da parte dell'uomo: “nondum quisquam sidera norat, /stellisque quibus pingitur aether/non erat usus[16]. Nessuno ancora conosceva i nomi degli astri né faceva uso delle stelle di cui è dipinta la volta celeste.

Il fatto è che il borghese deve continuamente riaffermare e rafforzare la propria identità attraverso la roba: “Il borghese deve affermare quella che sarà la sua identità per tutta la vita. L’aristocratico si manifesta per quello che è già al momento della nascita. Il borghese si sente costretto ad accumulare, o quanto meno a salvaguardare”[17].

E’ per lo meno stravagante e bizzarra l’idea che dà, del Socrate borghese, Santo Mazzarino quando contrappone la visione aristocratica di Tucidide a quella del maestro di Platone: "La profonda differenza fra quei due grandi contemporanei riproduce un dualismo che caratterizza tutta la storia greca. Tucidide esprime una società aristocratica, la quale svolge sino alle estreme conseguenze la capacità greca di contemplare teoricamente le aporie del lògos, ed insomma fonda il suo pensiero sullo antilogeîn "parlare in sensi opposti", ugualmente validi. Dobbiamo ribadire questo punto: per la società aristocratica tucididèa non ci può essere una Dìke sola, come aveva già detto Eschilo; "utilità" si oppone a "giustizia", come nel tucidideo dialogo dei Melii. La cultura borghese di Socrate ha invece bisogno di un punto fermo: e lo può trovare soltanto nell'identificazione dell'utile col giusto, nella presenza di una giustizia assoluta"[18].







[1] Cfr. G. Ghiselli, Medea, p. 124.
[2] La prima stesura della Vita, datata 1790, comprende la prima parte. Alfieri continuò a comporre la propria autobiografia fino alla morte, avvenuta nel 1803.
[3] La signorina Felicita, vv. 301-303.
[4] De Profundis in Wilde Opere, p. 737.
[5]S. Kierkegaard, In vino veritas, p. 58.
[6] “Il signor Naphta non è padre. La malattia gli ha impedito finora di diventarlo. Ma ha fatto il noviziato ed anche i primi voti…Ma è un membro dell’Ordine. ”, T. Mann, La montagna incantata, II, p. 74. E’ Settembrini che parla.
[7] T. Mann, La montagna incantata (del 1924), p. 201, II vol.
[8] T. Mann, Saggio autobiografico in Thomas Mann Nobiltà dello spirito e altri saggi, p. 1466.
[9] P- P. Pasolini, Il caos, p. 39.
[10] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 128,
[11] P. P. Pasolini, Detesto chi gira con la pistola in tasca “Paese sera”, 14 marzo 1963 in Pasolini Saggi sulla politica e sulla società, p. 114
[12] Manifesto del partito comunista di Marx-Engels, p. 59.
[13] J. K. Huysmans, Controcorrente (del 1884) p. 218.
[14] La frase fra virgolette è nel romanzo “Il Gattopardo”. La dice un principe siciliano all’arrivo dei garibaldini (1860). Poi fa il garibaldino anche lui e così non perde né i soldi né il potere. Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa, p. 74.
[15] C. Magris, L’anello di Clarisse, p. 191
[16] G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981 p. 427. Sono citati i vv. 309-311 del secondo coro della Medea.
[17] Sàndor Màrai, La donna giusta, p. 18.
[18]Il pensiero storico classico, I vol., p. 329. Sulla doppia dike di Eschilo torneremo al cap. 33. 

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