venerdì 10 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXI


I giovani vogliono cultura e tolleranza

Da qualche tempo c'è chi sostiene che bisogna dare valore alla cultura tecnico-professionale. Io affermo che senza un poco di idealismo arriveremo a scannarci l'un l'altro.
Qui a Bologna una studentessa di liceo ha fatto un intervento significativo in una riunione insignificante di burocrati attenti solo ai numeri e al potere, al loro potere. Parlavano di tutto tranne che di cultura e di educazione. La ragazza ha chiesto che la scuola vada incontro ai bisogni di tutti, e alla domanda: "quali sono i bisogni di tutti?", ha risposto: "la cultura e la tolleranza"[1].
Ebbene la cultura non può essere priva di idee, ideali, idealità.


Tolleranza e intolleranza. Il relativismo erodoteo

Oggi serpeggia, tanto a destra quanto a sinistra, una forma di intolleranza verso le altre culture, in particolare verso quella musulmana.
In un giornale, pur progressista, lessi, a proposito dei secondi Giochi Islamici, riservati alle donne: "Siamo fantasmi, per una settimana. Fantasmi che svolazzano. Rondini nere, marroni, verde scuro, nei nostri chador, nei nostri impermeabili dall'orlo lunghissimo. Fantasmi insaccati come salami... " e così via con il biasimo o l'irrisione di costumi diversi dai nostri fino all'incredibile "Si divertono, in maniera schifosa, ma si divertono". E’ un esempio della “giornaliera luce/delle gazzette”[2].
Ho citato Emanuela Audisio dalla prima pagina di la Repubblica del 16 Dicembre 1997. Questa è la china in fondo alla quale, e speriamo sia davvero il fondo, alla fine del 2006 una donna, una vicina di casa è arrivata a sgozzare un bambino figlio di un arabo con la madre, la nonna, e un’altra vicina di casa. Del resto la televisione quasi ogni giorno racconta, senza marchiare tali notizie con biasimo e sdegno, che, al fine di snidare alcuni terroristi presunti, vengono bombardate comunità di civili con donne e bambini.
In un articolo mio di la Repubblica del 27 dicembre 1997 (p. II) viceversa utilizzai il "relativismo" erodoteo per incoraggiare i lettori a diventare ciascuno se stesso: "Erodoto insegna il relativismo delle culture e racconta di popoli che compiangono i nati mentre si felicitano con i parenti dei morti, e di altre genti che praticano usanze ancora più strane e lontane da quelle greche. Eppure lo storico non infligge condanne, ossia riconosce a ogni nazione, e di conseguenza a ogni individuo, il diritto di usare costumi suoi. Queste storie antiche, se vengono attualizzate e personalizzate, possono diventare uno strumento critico contro l'omologazione e l'annullamento delle identità personali cui spinge la pubblicità tutta, talora perfino la scuola, con la pressione della norma che vuole negare i caratteri individuali schiacciandoli in una poltiglia informe".
“Dimostrano di avere scarsa cultura i viaggiatori che si fanno beffe dei costumi e dei valori dei popoli che li ospitano”[3].


L'intolleranza è una vera e propria malattia. Terapia del rovesciamento. Per questa ci vuole esperienza di vita o immaginazione. Terenzio (Adelphoe). Vittorio Alfieri. T. Mann. Oscar Wilde. Pirandello e il “sentimento del contrario” come “disposizione propriamente umoristica”. Tre esempi: quello della vecchia signora, uno tratto da S. Ambrogio di Giusti, e uno da Delitto e castigo di Dostoevskij. Morin: vedere l’ego alter come alter ego. Ancora degli esempi: L’arbitrato di Menandro e il Vangelo di Giovanni. Pierre in Guerra e pace di Tolstoj. Leopardi e la dote del buon maestro che abbia abbastanza “forza di immaginazione” da “mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli”

E’ pur vero che mettersi nei panni degli altri non può giungere ad accettare le diversità criminali. Claudio Magris e il film M, il mostro di Düsserdolf di Fritz Lang. Romano Luperini: perché non bisogna tirare i sassi dal cavalcavia.
Maurizio Bettini suggerisce questa cura: " Possiamo però dire che, fra i rimedi più sicuri per guarire da questo morbo, sta la terapia del rovesciamento. Con questa espressione intendiamo un esercizio quasi quotidiano che consiste nel rovesciare sistematicamente il proprio punto di vista per assumere quello dell'"altro": in modo da poter guardare se stessi con gli occhi altrui. Di questo esercizio è stato maestro uno dei più grandi pensatori che l'Europa del XVI secolo possa vantare, Michele de Montaigne"[4].
Insomma dobbiamo essere capaci di uscire dalla parte che stiamo vivendo, o recitando, per assumerne un'altra.
Certamente per fare questo ci vuole esperienza di vita, o immaginazione: a proposito della prima, negli Adelphoe di Terenzio, Micio critica l’eccessiva severità del fratello Demea dicendo: “Homine imperito numquam quicquam iniustiust, /qui nisi quod ipse fecit nil rectum putat” (vv. 98-99), non c'è niente di più ingiusto di un uomo senza esperienza, che considera tutto sbagliato tranne quello che ha fatto lui.

Vittorio Alfieri venne mandato nell’Accademia di Torino, nel 1758, a nove anni, e dovette rimanervi fino al 1766, senza però trovarvi maestri adatti alla sua indole: “Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi ce l’avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria, né per pratica?” (Vita, 2, 1). Queste parole contengono un principio valido: che un educatore deve conoscere anche la vita, “conoscerla” quasi in senso biblico.

“La vita, giovanotto, è una donna, una donna distesa sopra un giaciglio, coi seni sporgenti e rigogliosi, con la superficie del ventre ampia e liscia tra i fianchi rilevati, con le braccia sottili, le cosce tondeggianti, gli occhi semichiusi. Con provocazione magnifica e sdegnosa essa esige il massimo nostro ardore, tutta la tensione delle nostre voglie maschili. Chi resiste a lei o ne esce con vergogna…vergogna e disonore sono parole troppo blande per simile rovina e bancarotta, per tale orrendo smacco”[5].

Per quanto riguarda l’immaginazione: “L’amore è alimentato dall’immaginazione, per cui diventiamo più saggi di quanto sappiamo, migliori di quanto sentiamo, più nobili di quanto siamo: per cui, e per cui soltanto possiamo capire gli altri nelle loro relazioni vere e ideali”[6].

La terapia del rovesciamento non è molto diversa dal “sentimento del contrario” di Pirandello. Tra i Greci “Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale”[7].
Il saggio L’umorismo[8] presenta tre esempi: il primo è quello celeberrimo della “vecchia signora coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa prima impressione cronica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario”.
Ma poi interviene la riflessione che suscita il sentimento del contrario ossia l'umorismo: "Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’ inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico"[9]. Si tratta insomma di riflettere sul dolore di chi ci farebbe ridere, di sentire con chi soffre e provare simpatia per lui-
Il secondo esempio è questo tratto da Dostoevskij: “Signore, signore! oh! Signore, forse, come gli altri, voi stimate ridicolo tutto questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica; ma per me non è ridicolo, perché io sento tutto ciò…”-Così grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto e Castigo[10] del Dostoevskij, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E questo grido è appunto la protesta dolorosa ed esasperata d’un personaggio umoristico contro chi, di fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento superficiale e non riesce a vederne altro che la comicità”[11].
Il terzo esempio deriva da S. Ambrogio di Giusti: “Un poeta, il Giusti, entra un giorno nella chiesa di S. Ambrogio a Milano, e vi trova un pieno di soldati…Il suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e duri son lì a ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono dell’organo: poi quel cantico tedesco lento lento,
D’un suono grave, flebile, solenne[12]
Che è preghiera e pure lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una disposizione insolita nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira politica e civile: determina in lui la disposizione propriamente umoristica: cioè lo dispone a quella particolare riflessione che, spassionandosi dal primo sentimento, dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno
La dolcezza amara/Dei canti uditi da fanciullo: il core/Che da voce domestica gl’impara, /Ce li ripete i giorni del dolore. /Un pensier mesto della madre cara, /Un desiderio di pace e d’amore, /Uno sgomento di lontano esilio[13].
E riflette che quei soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,
A dura vita, a dura disciplina, /Muti, derisi, solitari stanno, /Strumenti ciechi d’occhiuta rapina, /che lor non tocca e che forse non sanno[14]
Ed ecco il contrario dell’odio di prima:
Povera gente! Lontana da’ suoi, /In un paese qui che le vuol male[15].
Il poeta è costretto a fuggire dalla chiesa perché
Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, /Colla su’ brava mazza di nocciolo/Duro e piantato lì come un piolo”[16].

Questo è il terzo esempio di avvertimento del contrario passato a sentimento del contrario.
Sentiamo anche T. Mann sull’argomento: “Indifferenza e ignoranza della vita intima degli altri esseri umani finiscono per creare un rapporto affatto falso con la realtà, una specie di abbigliamento. Dai tempi di Adamo ed Eva, da quando uno divenne due, chiunque per vivere ha dovuto mettersi nei panni altrui, per conoscere veramente se stesso ha dovuto guardarsi con gli occhi di un estraneo. L’immaginazione e l’arte di indovinare i sentimenti degli altri, cioè l’empatia, il con-sentire con gli altri, è non solo lodevole ma, in quanto infrange le barriere dell’io, è anche un mezzo indispensabile di autopreservazione”[17].


“C’è una conoscenza che è comprensiva e che si fonda sulla comunicazione, sull’empatia e persino sulla simpatia inter-soggettiva. Così io comprendo le lacrime, il sorriso, le risa, la paura, la collera vedendo l’ego alter come alter ego, con la mia capacità di provare i suoi stessi sentimenti. Comprendere, quindi, comporta un processo di identificazione e di proiezione da soggetto a soggetto. Se vedo un bambino in lacrime, cerco di comprenderlo non misurando il tasso di salinità delle sue lacrime, ma rievocando in me i miei sconforti infantili, identificandolo in me e identificandomi in lui. La comprensione, sempre inter-soggettiva, richiede apertura e generosità…La comprensione permette di considerare l’altro non solo come ego alter, un altro individuo soggetto, ma anche come alter ego, un altro me stesso con cui comunico, simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque incluso nel principio di identità e si manifesta nel principio di inclusione "[18].
Proviamo a vedere qualche altro esempio.
 In L’arbitrato (Epivtreponte") di Menandro[19] Carisio, il marito che si crede tradito, definisce se stesso, ironicamente, l'uomo senza peccato attento alla reputazione (ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn, v. 588) e comprende che l'errore sessuale della moglie, presunto, ma da lui ritenuto reale, è stato un "infortunio involontario" (ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchm j, v. 594). Del resto la donna, Panfile, l’aveva condiviso proprio con Carisio. Nessuno dei due lo sapeva poiché, assai stranamente, non si erano riconosciuti.
 Il protagonista di questa commedia ripropone la formula antica della dovxa, la reputazione, ma poi la supera, con quell’ ejgwv ti" ajnamavrthto", che anticipa il Vangelo di Giovanni: "chi di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro di lei, oJ ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp j aujth;n balevtw livqon (8, 7). Qui non si tratta di un adulterio presunto. Infatti gli scribi e i farisei portano al tempio una donna còlta in adulterio (mulierem in adulterio deprehensam, 8, 3) e chiedono al Cristo, che insegnava in quel luogo, se dovesse essere lapidata secondo la legge mosaica. Lo dicevano per metterlo alla prova e magari poterlo accusare. Gesù allora si diede a scrivere con il dito sulla terra. E siccome lo incalzavano, il Redentore, rizzatosi, disse loro: " qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat ". E riprese a scrivere per terra. Tutti gli altri uscirono, e il Cristo, rimasto solo con la donna, la assolse, come tutti gli altri, aggiungendo: "vade et amplius iam noli peccare " (8, 11), vai e non peccare più. Che significa: scegli tra i due uomini quello che ami. Certamente non il marito.
Procedo con Tolstoj: “c’era ora in Pierre una nuova caratteristica che gli assicurava la simpatia generale: era il riconoscimento che ogni persona potesse pensare e sentire, sentire e vedere le cose a modo suo, il riconoscimento che è impossibile con le parole far cambiare opinione a un uomo. Questa legittima peculiarità di ogni persona, che un tempo disturbava e irritava Pierre, costituiva ora la base della simpatia e dell’interesse che gli uomini suscitavano in lui”[20].
La capacità di mettersi nei panni degli altri è indispensabile all’insegnante bravo cui non basta essere preparato.
A questo proposito sentiamo Leopardi: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare”[21].
E più avanti: “Ma il gran torto degli educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec., che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’ loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere…di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all’esperienza ec. ”[22].

Il mettersi nei panni dell’altro non significa accettare tutte le diversità: " Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la soddisfazione dell'esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang[23], M, l'assassino di bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi, e l'altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli impulsi, ma d'altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno reale. Pure il delitto di Raskol' nikov nasce da una passione sofferta e reale; se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura ma autentica esigenza, e d'altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia la difficoltà di tracciare un confine fra l'esigenza dell'universale e la rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano puramente sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può risolvere il dilemma di Raskol'nikov"[24]. A questo punto si può menzionare anche Match point, l’ultimo film di Woody Allen (gennaio 2006).

“ Si torna così alla crux dostoevskiana: perché Raskolnikov non deve uccidere la vecchietta? Perché non bisogna tirare i sassi dal cavalcavia? Davvero, se non c’è più garanzia oggettiva di valori, se sono posti in causa i loro fondamenti scientifici o metafisici, non si dà possibilità di intesa collettiva e di morale individuale e sociale? Il Novecento si apre e si chiude ponendo l’esigenza di valori laici, relativi, pragmatici. Se il dogmatismo e la vocazione all’assoluto e all’universale hanno prodotto il trionfo dell’Illuminismo come logica del dominio e come spietata razionalità del potere scientifico e tecnologico, il loro rovescio oscuro è il nichilismo che annienta le basi stesse –i significati comuni, l’intesa possibile-di qualsiasi comunità. Si tratta di insegnare il relativismo e la fiducia in valori storici che mutano e si realizzano nel carattere processuale, mobile e interdialogico della civiltà. Insegnando a leggere e a interpretare un testo, a dargli senso e valore, si insegna forse anche a non tirare i sassi dal cavalcavia”[25].


C'è un relativismo che considera le diverse età della vita umana come ruoli diversi. Le quattro parti di Orazio (Ars poetica) e i sette atti di Shakespeare (As you like it). La morte teatrale di Augusto nella Vita di Svetonio

Orazio nell' Ars poetica[26] distingue le quattro diverse parti che ciascuno di noi recita nella vita. Dobbiamo ricordarcene noi insegnanti per avvicinarci alla comprensione dei nostri ragazzi.
Dunque: "aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), si deve badare bene ai costumi specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle varie età: il puer il quale gestit paribus colludere (159), smania di giocare con i suoi pari, e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160).
Poi l' imberbus iuvenis il giovinetto imberbe il quale gaudet equis canibusque, è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere l'impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Poi, conversis studiis aetas animusque virilis/, quaerit opes et amicitias, inservit honori (vv. 166-167), cambiate le inclinazioni, l'età e la mente adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Poi c'è il vecchio: "difficilis, querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum" (vv. 173-174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo, critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi.
 Sentiamo anche Shakespeare: " All the world's a stage-And all the men and women merely players" (As you like it [27], II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti". Segue la descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso, si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".
Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die, fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie: " eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite.
La “corta buffa”[28] era giunta al termine.


Problematicità della tolleranza anche verso chi non è criminale. La democrazia, secondo Platone, eccede nella suggnwvmh, ed è una costituzione anarchica, variopinta. Il poikivlo", afferma Bettini, è spesso enigmatico e confuso. L’arcobaleno nell’Oedipus e la Sfinge nell’Edipo re.

Raccomanderei dunque tolleranza e comprensione nei confronti dei diversi, purché non commettano crimini. Eppure anche questo atteggiamento "politicamente corretto" è problematico. Contro la tolleranza (suggnwvmh) eccessiva si esprime Platone[29] quando biasima la mancanza di serietà della democrazia.
Il filosofo nell'VIII libro della Repubblica descrive la democrazia come una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo (558c). Essa è piacevole, anarchica, variopinta e distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa). Potrebbe avallare questa critica di Platone quanto insegnava Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali"[30].
Bettini, partendo dall’Oedipus di Seneca, connette la poikiliva ai molti colori dell'arcobaleno[31] il quale è un intreccio inestricabile e confuso, come l'incesto, e come l'enigma. Io penso piuttosto all' Edipo re di Sofocle quando Creonte spiega: " La Sfinge dal canto variopinto (poikilw/dov") ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi (to; pro;" posiv), e a lasciare perdere quanto non si vedeva (tajfanh'). (vv. 130-131).
"Anche altrove riscontriamo questo significato di poikivlo" come "oscuro", "enigmatico", "incomprensibile"[32]. Cito solo Aristofane Eq. 196, dove lo schiavo dice al salsicciaio che l'oracolo si esprime poikivlw" pw" kai; sofw'" h//jnigmevnw": letteralmente "per enigmi variegati e sapienti". Quel che segue, di fatto, è un vero e proprio enigma, naturalmente in esametri. Nelle Trachinie (v. 412) Lichas si lamenta col messaggero: " tiv pote poikivla" e[cei" ; " perché sei così enigmatico?". E più avanti, al v. 1121, Eracle dirà ad Hyllos oujde;n xunivhmi w|n suv poikivllei" pavlai " non capisco niente di tutti questi enigmi che tu mi vai facendo". L'azione di "colorare" "rendere variegato" qualcosa, coincide dunque, di fatto, con il renderlo enigmatico, di difficile comprensione. Si comprende bene, perciò, che uno degli epiteti di Odisseo[33] sia proprio poikilomhvvvth" "dai pensieri variegati". Si potrebbe dunque concludere che per i Greci ciò che è variegato, poikivlo", si presenta automaticamente come enigmatico, di difficile interpretazione…Anche per il mavnti" insomma, lo specialista dell'esegesi simbolica, la poikiliva dell'arcobaleno non può che significare la sua stessa struttura: confusione, imprevedibilità, indistinzione"[34]
22. I valori forti del rispetto, del pudore e della gratitudine sono anche predicati di nobiltà. L’etimologia di “rispetto” (Erich Fromm). La caduta dei valori supremi è il nichilismo. Nietzsche. Esiodo. La gratitudine. Senofonte (Ciropedia). Euripide (Medea, Alcesti, Eracle). Aristofane (le Nuvole). Sofocle (Aiace, Filottete). Teognide. Shakespeare (Giulio Cesare, Tito andronico). Seneca. Cèline. Per gli Sciti che incontrano Alessandro Magno la fides e il rispetto umano hanno la forza del sacro. Gončarov.
"La cultura umana nasce da una nobilitazione di istinti belluini in altri più elevati attraverso il pudore, la fantasia, la conoscenza"[35].
Il rispetto, il pudore e la gratitudine sono valori forti che vanno affermati con forza da una scuola la quale deve non solo incrementare le conoscenze ma anche civilizzare e moralizzare attraverso l'educazione.
Erich Fromm suggerisce di risalire all’etimologia della parola rispetto: " Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere =guardare), la capacità di vedere una persona com'è, di conoscerne la vera individualità. Rispetto significa desiderare che l'altra persona cresca e si sviluppi per quello che è. Il rispetto, perciò esclude lo sfruttamento; voglio che la persona amata cresca e si sviluppi secondo i suoi desideri, secondo i suoi mezzi, e non allo scopo di servirmi"[36]. E ancora: se amo una persona "io la rispetto, cioè (secondo il significato etimologico di re-spicere) io la guardo come essa è obiettivamente e non travisata dai miei desideri o dalle mie paure. La conosco, sono penetrato oltre la sua apparenza fino al fondo del suo essere e ho collegato me stesso con lei dal profondo del mio essere"[37].

La caduta dei valori forti è il nichilismo: “Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perche?”. Che cosa significa nichilismo?-che i valori supremi perdono ogni valore”[38].
Abbiamo già visto (16. 2) che Esiodo considera il pudore una colonna del vivere umano e civile e che con l’ultima età, la bassa età del ferro l’aijdwv~ sparirà dalla terra con la Gratitudine, e lo Sdegno; allora non vi sarà più scampo dal male "kakou' d j oujk e[ssetai ajlkhv" (Opere e giorni v. 201).
La descrizione dell'età del ferro è ancora attuale: i suoi delitti assomigliano a quelli dell' epoca moderna che "Fichte definisce epoca della colpevolezza, della "compiuta peccaminosità" ovvero della libertà vuota, del feroce conflitto che disgrega ogni ordine, della lotta egocentrica e spietata di tutti contro tutti, dell'anarchia dei particolari sradicati da ogni totalità"[39].
"Noi viviamo l'epoca degli atomi, del caos atomistico. Nel Medioevo le forze ostili furono più o meno tenute insieme dalla Chiesa e in una certa misura furono assimilate l'una all'altra dalla forte pressione che essa esercitava…Da allora la scissura si è allargata sempre più; oggi ormai quasi tutto sulla terra è determinato dalle forze più grossolane e malvagie, dall'egoismo degli affaristi e dai despoti militari". [40]
Grande apprezzamento del pudore quale virtù di base, Senofonte esprime nella Ciropedia[41] quando annette al vizio capitale dell'ingratitudine quello dell'impudenza che anzi considera madre di tutte le turpitudini: "e{pesqai de; dokei' mavlista th'/ ajcaristiva/ hJ ajnaiscuntiva: kai; ga;r au}th megivsth dokei' ei\nai ejpi; pavnta ta; aijscra; hJgemwvn" (I, 2, 7), pare che all'ingratitudine di solito si accompagni l'impudenza: questa infatti sembra essere la guida più grande verso tutte le brutture. "E qui ci torna in mente l'importanza data da Platone e da Isocrate all'aidòs, senso di onore e di pudore, per l'educazione dei giovani come per la conservazione di ogni ordine sociale"[42]. Come si vede Senofonte stabilisce un nesso tra cavri" e aijdwv".
Altrettanto fa Euripide nella Medea[43] che rappresenta un mondo in sfacelo morale. Nel primo stasimo il coro lamenta: " bevbake d j o{rkwn cavri", oujd j e[t j aijdw;"- JEllavdi ta'/ megavla mevnei " (vv. 439-440), se n'è andato il rispetto dei giuramenti né più rimane il pudore nell'Ellade grande.
Nell’Alcesti[44] il pudore è connesso alla nobiltà del carattere: “to; ga;r eugene;"-ejkfevretai pro;" aijdw'” (vv. 600-601), il carattere nobile infatti è portato al ritegno.
Il tragediografo mette in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente dell'amicizia nell'Eracle dove Teseo non ha dimenticato l'aiuto ricevuto dall'amico che lo ha riportato in luce dal regno dei morti (v. 1222) e, disponendosi ad aiutarlo, gli dice: " cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine degli amici che invecchia, e chi vuole godere delle cose belle ma non imbarcarsi con gli amici quando se la passano male.
Nelle Nuvole[45] di Aristofane la riservatezza e il ritegno contraddistinguono il giovane beneducato dal petulante sfacciato. Il Discorso Giusto prescrive al ragazzo di essere "th'" aijdou'"... ta[galm j " (v. 995), l'immagine del ritegno.

 Pure Sofocle attribuisce grande valore alla gratitudine considerandola una virtù senza la quale non può darsi animo nobile: Tecmessa per indurre Aiace a non suicidarsi ripete la parola chiave cavri" in poliptoto e la considera un predicato di nobiltà: "cavri" cavrin gavr ejstin hJ tivktous j ajeiv: -o{tou d j ajporrei' mnh'sti" eu\ peponqovto", -oujk a]n gevnoit j ou|to" eujgenh;" ajnhvr" (Aiace, vv. 522-524), la riconoscenza infatti genera sempre riconoscenza; quello dal quale cade il ricordo del bene ricevuto, ebbene costui non può essere un uomo nobile. Dopo il suicidio dell’eroe, nell’esodo della tragedia, Teucro aggredito da Agamennone lamenta la caducità della gratitudine: “Feu': tou' qanovnto" wJ" tacei'a ti" brotoi'"-cavri" diarrei' kai; prodou'" j aJlivsketai” (Aiace, vv. 1266-1267), ahi, come svanisce rapida per i mortali ogni gratitudine verso un morto e si scopre che tradisce”[46].
Nel Filottete Neottolemo afferma che l'amicizia di un uomo capace di gratitudine vale più di qualsiasi tesoro: "o{sti" ga;r eu\ dra'n eu\ paqw;n ejpivstatai-panto;" gevnoit j a]n kthvmato" kreivsswn fivlo" " (vv. 672-673), infatti chi sa fare il bene dopo averlo ricevuto, dovrebbe essere un amico più prezioso di ogni ricchezza.
L'ingratitudine dei vili viene stigmatizzata da Teognide quando afferma che è del tutto insensato il favore (mataiotavth cavri") di chi fa del bene ai deiloiv: " i\son kai; speivrein povnton aJlov" polih'" " (Silloge, vv. 105-106), è come seminare l'abisso del mare canuto[47].
Secondo Shakespeare fu l'ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, a vincere la resistenza del grande Cesare che allora cadde: "Ingratitude, more strong than traitors' arms, /quite vanquished him: then…great Caesar fell" (Giulio Cesare, III, 2).
Nel Tito Andronico l'imperatrice Tamora, ex regina dei Goti, suggerisce all'imperatore Saturnino di prendere tempo prima di annientare la fazione di Tito che lo ha appoggiato nell'ascesa al trono: rischierebbe di essere soppiantato "for ingratitude, /Which Rome reputes to be a heinous sin" (I, 1), che Roma considera essere un peccato odioso.
L'ingratitudine è anche una forma diffusa di disprezzo dell’ umanità, dell’altrui e della propria. Seneca: “ Torquet se ingratus et macerat; odit quae accipit quia redditurus sit Ep. 81, 23, l’ingrato si tormenta e strugge; odia i benefici ricevuti perché pensa al momento di contraccambiarli.
Lo nota pure il "collaborazionista" Céline che non si faceva pagare le visite mediche e subiva una gratitudine rovesciata: "Ero troppo compiacente con tutti, lo sapevo. Nessuno mi pagava. L’ho poi visitato gratis, soprattutto per curiosità. E' un torto. Le persone si vendicano dei favori che loro fate"[48].

I valori forti, la fides[49], il pudor e altri, sono forse universali e assoluti, comunque sono considerati contrassegni delle persone per bene anche in culture lontane dalla nostra e pure da autori di altre letterature.
Gli Sciti che vanno a parlare con Alessandro Magno, ai confini nord orientali delle sue conquiste, attribuiscono alla fides e al rispetto umano la forza del sacro: “nos religionem in ipsa fide ponimus: qui non reverentur homines, fallunt deos[50], noi riponiamo la religione nella lealtà stessa, chi non rispetta gli uomini, inganna gli dèi.
Sentiamo Gončarov che descrive l’animo buono di Oblomov: “ Per quanto avesse trascorso la gioventù in crocchi di giovanotti che presumevano di sapere tutto, che avevano già da un pezzo risolto tutti i problemi della vita, che non credevano in nulla e tutto analizzavano con gelida saggezza, nell’animo di Oblomov s’era conservata la fede nell’amicizia, nell’amore, nella dignità, nell’onore e, per quanto potesse essersi sbagliato e potesse ancora sbagliare nel giudicare la gente, se il suo cuore ne aveva sofferto, la sua fede nel bene non ne era mai stata intaccata. Egli si inchinava dentro di sé alla purezza femminile, ne riconosceva la potenza e i diritti e le offriva sacrifici…Oblomov era un giusto di fatto…Gli uomini ridono di simili originali, ma le donne li riconoscono subito; le donne pure e caste li amano per simpatia, le corrotte cercano di avvicinarli per dimenticare la propria rovina”[51].






[1] Ce la insegnano Erodoto e Cornelio Nepote, per esempio. Erodoto denuncia la follia intollerante di Cambise il quale molto matto era Cambise (" ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh"" (III 38) in quanto bruciava le immagini dei santuari e scherniva religioni e costumi.
Nel Proemio al Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium Nepote afferma che dalla sua opera si può imparare: "non eadem omnibus esse honesta atque turpia ", che non sono uguali per tutti gli atti onorevoli e turpi. 
[2] Leopardi, Palinodia al marchese Gino Capponi (del 1835), vv. 19-20.
[3] T. Mann, La montagna magica, p. 299.
[4] Le orecchie di Hermes, p. 242.
[5] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 247. E’ Peeperkorn che parla
[6] O. Wilde, De profundis, in Wilde, Opere, p. 70.
[7] Pirandello, L’umorismo, p. 45.
[8] Del 1908.
[9] Luigi Pirandello, Op. cit., p. 173.
[10] Parte I, cap. II.
[11] Luigi Pirandello, L’umorismo, p. 174
[12] Giuseppe Giusti (1809-1850) S. Ambrogio, v. 60
[13] S. Ambrogio, vv. 65-71.
[14] S. Ambrogio, vv. 81-84.
[15] S. Ambrogio, vv. 89-90.
[16] Luigi Pirandello, L’umorismo (1908), p. 175.
[17] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 117.
[18] E. Morin, La testa ben fatta., p. 96 e p. 132.
[19] 341-290. L’arbitrato è stata scritta nella piena maturità dell’autore, alla fine del IV sec. a. C.
[20] Guerra e pace, p. 1660.
[21] Zibaldone, 1376.
[22] Zibaldone, 1473.
[23] Si tratta di M- il mostro di Düsserdolf, del 1931. L’attore protagonista è Peter Lorre. Durante la scena finale l’assassino di bambine viene giudicato dagli stati generali della mala riuniti in assise. Cerca di difendersi dicendo che pensa sempre di essere inseguito “ma sono io che inseguo me stesso”. Solo quando uccide ha un momento di pace e di oblio. Poi domanda: “Chi può sapere come sono fatto dentro?”. La malavita vuole condannarlo a morte, ma arriva la polizia che lo porterà davanti a un tribunale regolare. (Ndr).
[24] C. Magris, L'anello di Clarisse, p. 27.
[25] R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 85.
[26] Composta tra il 18 e il 13 a. C.
[27] 1599-1600.
[28] Dante, Inferno, VII, 61.
[29] Repubblica 558b.
[30] Lettera a una professoressa, p. 55.
[31] Seneca, Oedipus, vv. 314 sgg. Manto, la figlia di Tiresia, che descrive il fuoco del sacrificio al padre cieco, paragona l’aspetto dell’arcobaleno a quello della fiamma cangiante e variopinta la quale fa presagire la catastrofe finale.
[32] Cfr. Herod. 7, 11; Plat. symp. 182 b; Soph. Oed. Col. 761 sg., Phil. 130; etc.
[33] Il 11, 482; Od. 3, 163; 13, 293.
[34] M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 142.
[35] H. Hesse (1877-1962), Scritti autobiografici, p. 196.
[36]L'arte d'amare, p. 43.
[37] E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, p. 40.
[38] F. Nietzsche, fr. 9 (35) in Frammenti postumi 1887-1888.
[39]C. Magris, L'anello di Clarisse, p. 17.
[40]F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer come educatore, p. 192
[41] In otto libri, composta dopo il 36I.
[42]Jaeger, op. cit., p. 285.
[43] Del 431 a. C.
[44] Del 438 a. C.
[45] La prima redazione è del 423 a. C. ; a noi è giunta la seconda, di qualche anno successiva.
[46] L’Aiax mastigophorus di Livio Andronico traduce liberamente: “praestatur laus virtuti, sed multo ocius/verno gelu tabescit”, si offre lode al valore ma essa si scioglie molto più in fretta del gelo a primavera 
[47] L'immagine risale ad Alceo: "chi fa doni a una puttana è come se li gettasse nelle onde del mare canuto" (fr. 117 Voigt).
[48] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 257.
[49] Ci torneremo con maggiore ampiezza al capitolo 56.
[50] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 7, 8, 29
[51] I. Gončarov, Oblomov, p. 348. 

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