giovedì 2 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XIV

don Lorenzo Milani

Ambiguità (oJmwnumiva)  di novmo". Antigone e Creonte. Callicle nel Gorgia. Don Lorenzo Milani.  Antifonte sofista, Giocasta delle Fenicie di Euripide e l’uguaglianza come legge cosmica.

Significati diversi può avere la parola novmo".
"Può trattarsi di un'ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama homōnymiva (ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua[1]. Il drammaturgo gioca su queste per esprimere la sua visione tragica di un mondo in urto con se stesso, lacerato dalle contraddizioni. In bocca ai diversi personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune[2]. Così, per Antigone, novmos designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui novvvmos [3]. Per la fanciulla il termine significa  "norma religiosa"; per Creonte, "editto promulgato dal capo dello Stato". E in realtà il campo semantico di novmos è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi. L'ambiguità traduce allora la tensione fra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le parole scambiate sullo spazio  scenico, anziché stabilire la comunicazione e l'accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l'impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell'universo che gli è proprio, dà alla parola un senso ed uno solo. Contro questa unilateralità urta violentemente un'altra unilateralità"[4].

Secondo il sofista Callicle del Gorgia di Platone i novmoi della povli" democratica sono innaturali in quanto costituiscono la barriera difensiva che gli ajsqenei'" , i deboli, e oiJ polloiv, i più, erigono per sé e per il loro utile (suvmferon), onde difendersi dalla legittima pre-potenza dei forti i quali vogliono, secondo la natura del diritto, kata; fuvsin th;n tou' dikaivou e secondo la legge della natura, kata; novmon  ge  to;n th'" fuvsew", stare meglio di loro, e vengono invece inceppati, incantati e stregati da questi vincoli contrari alla natura (para; fuvsin).
Ma è  giusto che il più forte prevalga sul più debole, e l'uomo davvero forte lo dimostrerà spezzando tutti i vincoli e facendo brillare to; th'" fuvsew" divkaion, il diritto della natura ( 483 b sgg)[5].

Don Lorenzo Milani, al contrario di Callicle,  sostiene che le leggi degli uomini sono giuste"quando sono la forza del debole." Quando invece esse "sanzionano il sopruso del forte", è bene "battersi perché siano cambiate"[6].

Schierato per il rifiuto delle leggi scritte dagli uomini troviamo Antifonte sofista[7]:" e[sti de; pavntw" tw'nde e{neka touvtwn hJ skevyi", o{ti ta; polla; tw'n kata; novmon dikaivwn polemivw" th'/ fuvsei kei'tai" (Della verità , fr. B 44 D. K.), per queste ragioni  soprattutto si svolge la nostra indagine: che la maggior parte di quanto è giusto secondo la legge si trova in contrasto con la natura.
Sono state emanate leggi per gli occhi, su ciò che devono vedere e non vedere, per le orecchie, su ciò che devono sentire e non sentire, e per la lingua, su quanto deve dire e non deve dire e così via. Fino alla mente su quello che deve desiderare e quello che no.   Fatti di natura, continua Antifonte, sono il vivere e il morire, e il vivere per gli uomini deriva da ciò che è utile (kai; to; me;n zh'n aujtoi'" ejstin ajpo; tw'n xumferovntwn) la morte da ciò che è dannoso. Ebbene riguardo all'utile le prescrizioni sottoposte alla legge sono ceppi per la natura (ta; me;n uJpo; tw'n novmwn keivmena desma; th'" fuvsewv" ejsti), mentre ciò che è prescritto dalla natura è libero (ta; d j uJpo; th'" fuvsew" ejleuvqera). E certamente quello che addolora non giova alla natura, secondo la retta ragione, più di quello che rallegra.
La legge istituita dunque non è giusta né utile poiché non incrementa ma danneggia la vita.  Antifonte giunge a conclusioni opposte rispetto a Callicle, denunciando come innaturali le differenze che le leggi e le usanze stabiliscono tra gli uomini: "quelli che provengono da una casata non illustre non li rispettiamo né onoriamo. In questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri. Infatti per natura in tutto tutti siamo costituiti  per essere uguali barbari ed Elleni…tutti di fatto inspiriamo nell'aria attraverso la bocca e le narici e tutti mangiamo con le mani "[8].

Nelle Fenicie  di Euripide troviamo un contrasto fra Eteocle che sostiene il proprio potere assoluto, e Giocasta che gli fa notare la presenza dell’uguaglianza nel cosmo.
 "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[9], Giocasta obietta:"tiv d  j e[sti to; plevon; o[nom  j e[cei monon:/ejpei; tav g  j ajrkounq  j  iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a  turno, ce le portano via di nuovo.
Ma  Giocasta, dicevo,  propugna l'uguaglianza più in generale:"kei'no kavllion, tevknon,-ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535-536),  quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica:"nukto;" t  j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'"-i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543-544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[10], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d  j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd  j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa? - 
“Euripide fa pronunciare a Giocasta un atto di fede nell’organizzazione democratica ed egualitaria della città, messa a repentaglio dall’incontrollata filotimiva di  chi cerca il potere personale anche a scapito del bene collettivo…Se Eteocle preferirà il potere, esporrà Tebe al rischio della distruzione e le sue concittadine a quello della schiavitù e della violenza. La ricchezza che sta tanto a cuore a Eteocle si rivelerà così un plou'to~ dapanhrov~, una “ben dispendiosa ricchezza” (v. 566)…Le parole conclusive di Giocasta saranno suonate nel teatro di Dioniso come un accorato monito a una generazione di politici ateniesi così vicini ai due fratelli del mito: mevqeton to; livan, mevqeton (“abbandonate l’eccesso, abbandonatelo”, v. 584).
Ed è un monito diretto a entrambe le parti: alla parte oligarchica, perché si renda conto che la ricerca del potere porta alla rovina della città; alla parte democratica, perché capisca che anche con la ragione dalla propria parte non si può praticare la violenza all’interno della polis senza danno per tutti. Non c’è nulla di peggio della somma di due ajmaqivai contrapposte”[11]. Le Fenicie vennero scritte intorno al periodo del colpo di Stato oligarchico del 411, ma il rifiuto dell’eccesso e della dismisura è una posizione topica molto diffusa.





[1] "I nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite. Quindi è inevitabile che un nome unico abbia più sensi": Aristotele, Confutazione dei sofisti I, 165a 11.
[2] Cfr. Euripide, Fenicie, 409 sgg.:" Se la stessa cosa fosse ugualmente per tutti bella e saggia, gli umani non conoscerebbero la controversia delle contese. Ma per i mortali non esiste nulla di simile o di uguale, salvo nelle parole; la realtà è tutta diversa".
[3] La stessa ambiguità appare negli altri termini che occupano un posto di rilievo nella trama dell'opera: divkh, fivlo"  e filiva, kevrdo" , timhv, ojrghv, deinov" .
[4]J. P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia nell'antica Grecia , p. 89. L'interpretazione della tragedia come collisione tra due unilateralità risale all'Estetica di Hegel la quale fu pubblicata nel 1836-1838, dopo la sua morte (1831), dai discepoli sugli appunti delle lezioni tenute dal maestro tra il 1817 e il 1829.
[5]Socrate confuta Callicle, ma non senza averne apprezzata la parrhsiva, la franchezza non ignobile. La conclusione del maestro di Platone nel Gorgia indica dikaiosuvnh e swfrosuvnh, giustizia e temperanza, come i bersagli cui deve mirare l'uomo buono che vuole essere felice, non permettendo che le passioni divengano sfrenate (507d-e). E tra commettere ingiustizia e subirla, il male minore è subirla (mei'zon mevn famen kako;n to; ajdikei'n, e[latton de; to; ajdikei'sqai, 509c).
[6]L'obbedienza non è più una virtù , p.38
[7] Vissuto ad Atene nella seconda metà del V secolo.
[8] Oxyrh. Pap. XI Fragmetum I
[9]Lanza, op. cit., p. 53.
[10] Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
 I mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo, continua Giocasta (Fenicie, v. 555-556). Seneca echeggia questo topos in Ad Marciam de consolatione (del 37d.C.) :"mutua accepimus. Usus fructusque noster est" (10, 2), abbiamo ricevuto le cose in prestito. Nostro è l'usufrutto.
[11] E Medda, (a cura di) Euripide, Le Fenicie, p.  46.

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