La bellezza ci
salverà
Paride
Il terzo canto dell'Iliade propone il contrasto tra
apparenza e sostanza.
In testa all'esercito troiano si fa vedere Paride con
l'aspetto di un dio (qeoeidhv",
v. 16), con pelle di pantera sopra le spalle, arco ricurvo e spada, e, per
giunta, squassando due lance a punta di bronzo.
Il bellimbusto
sfidava tutti i campioni degli Achei. Ma quando Menelao, contento della preda, saltò
a terra dal carro per affrontarlo, il seduttore di Elena sbigottì in cuore e si
ritirò presso i compagni. Allora Ettore lo assalì con parole infamanti: gli
diede del donnaiolo (gunaimanev")
e seduttore (hjperopeutav v. 39), poi
lo accusò di smentire l' aspetto splendido (ei\do"
a[riste) con un cuore senza forza né valore (45), in quanto era uomo capace
di portare via le donne agli uomini bellicosi ma non di affrontarli.
Allora Paride gli risponde di non biasimarlo e non
rinfacciargli i doni amabili dell'aurea Afrodite (mhv moi dw'r j ejrata; provfere crusevh" jAfrodivth"",
64): nemmeno per te sono spregevoli i magnifici doni degli dèi (qew'n ejrikudeva dw'ra, v. 65) che del
resto nessuno può scegliersi.
Quindi si presta ad affrontare in duello il rivale Menelao. Se
la caverà solo in quanto salvato da Afrodite
Nelle Troiane di
Euripide, Elena si giustifica dicendo che Paride fu aiutato da Afrodite, una
grande dea cui non resiste nemmeno Zeus. Ebbene, Ecuba risponde che Afrodite in
realtà era la ajfrosuvnh, la
stoltezza di Elena la quale fu attirata dall’eccezionale bellezza di Paride: “h\n ouJmo; ~ uiJo; ~ kavllo~ ejkprepevstato~” (v. 987) e la mente di Elena
vedendolo divenne quella Cipride che la trascinò a Troia.
Paride è visto dal fratello quasi come un “miles gloriosus”.
Nello stesso modo è spesso considerato lo spartano Menelao
nelle tragedie di Euripide (cfr. Oreste,
1532 ss, dove il marito di Elena, xanqov~, si
pavoneggia per i ricci biondi che gli scendono lungo le spalle.).
Tutt’altro guerriero è quello preferito da Archiloco:
"non amo lo stratego grande né dall'incedere tronfio
né compiaciuto dei riccioli, né ben rasato;
ma per me sia pur piccolo, e storto di gambe
a vedersi, però che proceda con sicurezza sui piedi, e sia
pieno di cuore/" [1]
frammento 60D.
Odisseo non era bello: "Non formosus erat, sed erat facundus[2] Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas
"[3].
Nel terzo canto dell’Iliade,
Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla
torre presso le porte Scee; uno gli parve "meivwn
me; n kefalh'/ jAgamevmnono" jAtreïdao,
/ eujruvtero" d& w[moisin ijde; stevrnoisin
ijdevsqai"(vv. 193 - 194), più piccolo della testa di Agamennone
Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi. La maliarda rispose che
quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di fitti pensieri (v. 202).
Quindi Antenore aggiunge che egli l'aveva visto una volta a Troia, in
ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma
quando stavano in piedi, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle ("stavntwn me; n Menevlao" uJpeivrecen
eujreva" w{mou"", v. 210).
Ulisse, in piedi, se non parlava, sembrava un uomo ignorante
o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori
parole simili a fiocchi di neve d'inverno (v. 222), ossia manifestava la
potenza della natura, e allora non si provava più meraviglia per l'aspetto.
La potenza di Afrodite
Cipride del resto è
davvero una grande divinità irresistibile
Ecco come si presenta entrando
in scena all’inizio dell’Ippolito: “Pollh; me; n ejn brotoi'"
koujk ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1 - 2), grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel
cielo.
Nel primo episodio la nutrice
di Fedra le attribuisce una forza d'urto ineluttabile: "Kuvpri" ga; r ouj forhto;n
h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride
infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.
Nell’Ippolito di Euripide, Afrodite è la
divinità più forte: “Zeus, non meno di Artemide, non ha voce in capitolo
riguardo a ciò che Afrodite può fare, ed ha fatto. Il comitato o corporazione
di divinità ha potere di vita e di morte su di “noi”, i mortali, ma tra loro
questi poteri sono in competizione: essi operano in un “libero mercato. [4]”
La potenza di Afrodite
dunque è massima, e la principale arma usata da questa dea è la bellezza degli
uomini (Paride, Giasone) e delle donne (Elena).
Sono forse più numerosi
i seduttori delle seduttrici.
La potenza di Cipride viene celebrata anche
all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle: "mevga ti sqevno" aJ
Kuvpri" ejkfevretai - nivka" ajeiv" (vv. 497 - 498), Cipride porta con sé una
grande potenza, sempre vittorie. Lo stesso Eracle le è soggetto.
E' la tota ruens Venus dell'Ode I 19 per Glicera di Orazio.
Seguirà Properzio: "Illa
potest magnas heroum infringere vires, /illa etiam duris mentibus esse dolor "
(I, 14, 17 - 18), quella dea può spezzare grandi forze di eroi, ella può
costituire un dolore anche per i cuori duri.
La bellezza di Elena
"In un colloquio con Priamo essa si definisce kuvnwpi", "svergognata"[5]. Eppure!
Gli anziani del travagliatissimo popolo dei Troiani stanno immobili, come le
cicale, seduti presso le porte della città: essi, i saggi, i bravi oratori, immuni
dal fascino femminile. Ma quando essa appare, accompagnata dalle sue due
fanciulle - e le lagrime dei suoi occhi non si potevano distinguere, perché
essa era involta in un luminoso velo bianco - gli anziani esclamano tra di loro:
"Ouj nevmesi" - non è una
nemesi, che per una tale donna Troiani e Greci soffrano da tanto tempo e
soffrano ancora. Essa è, infatti, come una delle dee immortali"[6]. Parole
semplici e naturali, in quella determinata situazione - e tuttavia per mezzo di
esse avviene qualche cosa di indicibilmente grande: il riscatto della bellezza
dal peccato"[7].
Elena del resto può essere anche Nemesi.
Nel secondo stasimo dell'Agamennone il coro presenta i diversi
aspetti di questa splendidissima donna: "Chi mai diede un nome così del tutto vero… ad Elena le cui nozze
furono causa di guerra, donna oggetto di contesa poiché chiaramente
distruggitrice di navi (eJlevna"), di uomini (e[landro"), di città
(eJlevptoli")? ” (vv. 681ss.).
Secondo la credenza antica del nomen - omen
Eschilo etimologizza in maniera fantasiosa il nome dell'adultera connettendone
la prima parte con il radicale eJl - (cfr. l'aoristo ei|lon di aiJrevw, "tolgo
di mezzo"). Nella seconda parte vengono ravvisate, non senza forzatura, le
parole nau'~,
ajnhvr
e ptovli".
Quando giunse a Ilio, la
splendidissima era come: "un pensiero di bonaccia senza vento, un
tranquillo ornamento di ricchezza, un tenero dardo degli occhi, un fiore
d'amore che morde l'animo; ma poi, mutata, compì l'amaro fine del matrimonio, funesta
compagna e funesta amante, scagliatasi contro i Priamidi scortata da Zeus
protettore degli ospiti, Erinni che reca pianto alle spose"(Agamennone, vv. 739 - 749).
Ampliamo e precisiamo una citazione già accennata dalle Troiane di Euripide dove Ecuba rinfaccia
la sensualità e l'avidità per le quali vanamente la donna fatale ha cercato di
incolpare una o più dèe: "Mio figlio era di bellezza sovrumana, e l'animo
tuo, vedendolo, si fece Cipride: infatti tutte le stoltezze sono Afrodite per
gli uomini; e il nome della dea comincia giustamente come quello di follia (ta; mw'ra ga; r pavnt' ejsti; n jAfrodivth brotoi'" - kai; tou[nom' ojrqw'" ajfrosuvnh" a[rcei
brotoi'"). E tu, dopo averlo visto fulgente nell'oro delle vesti
barbare, divenisti frenetica nell'anima. Infatti ti aggiravi in Argo con poca
roba e, abbandonata Sparta, sperasti di affondare nelle spese la città dei
Frigi dove l’oro scorreva a fiumi: non ti era sufficiente la casa di Menelao
per abbandonarti alle tue dissolutezze" (Troiane, vv. 987 - 997).
Isocrate celebra la potenza della bellezza
incarnata in Elena.
Elena ebbe la maggior parte delle prerogative della bellezza
che è il più nobile, il più prezioso e il più divino dei beni (Encomio di Elena, 64).
Le cose che non hanno bellezza non possono essere amate; anzi
vengono piuttosto disprezzate
La bellezza è superiore a tutte le cose esistenti (55). Verso
chi porta altre qualità possiamo provare invidia; mentre verso i belli siamo
benevoli (eu\noi, 56) al primo
vederli e li onoriamo come gli dei.
Preferiamo asservirci a uno bello che comandare agli altri
(57)
Anche Zeus il kratw`n
pavntwn (59) il signore dell’Universo, divenne umile nell’accostarsi
alla bellezza e prese varie forme per unirsi a lei: pioggia con Danae (e nacque
Perseo), cigno con Nemesi (Elena), Anfitrione con Alcmena (Eracle).
Elena
dimostrò la sua potenza (duvnamn) a
Stesicoro che scrisse la Palinodia dopo
avere usato parole irriverenti verso di lei che lo rese cieco.
Isocrate la bellezza delle parole (Panegirico, 47 - 49).
Tîn d lÒgwn tîn kalîj kaˆ tecnikîj
™cÒntwn oÙ metÕn to‹j faÚloij, ¢ll¦ yucÁj eâ fronoÚ -
shj œrgon Ôntaj, kaˆ toÚj te sofoÝj kaˆ toÝj
¢maqe‹j dokoàntaj enai taÚtV ple‹ston ¢ll»lwn diafš -
rontaj, œti d toÝj eÙqÝj ™x ¢rcÁj ™leuqšrwj teqram -
mšnouj ™k mn
¢ndr…aj kaˆ ploÚtou kaˆ tîn toioÚtwn
¢gaqîn oÙ gignwskomšnouj, ™k d tîn legomšnwn m£lista
katafane‹j
gignomšnouj, kaˆ toàto sÚmbolon tÁj paideÚ -
sewj ¹mîn ˜k£stou
pistÒtaton ¢podedeigmšnon, kaˆ toÝj
lÒgJ kalîj crwmšnouj oÙ mÒnon ™n ta‹j aØtîn dunamšnouj,
¢ll¦ kaˆ par¦ to‹j
¥lloij ™nt…mouj Ôntaj.
Dei
discorsi belli e ben costruiti non hanno parte gli sciocchi, ma essi sono opera
di una mente capace di pensare.
Le
persone reputate sagge e quelle reputate ignoranti, sono differenti tra loro
soprattutto in questo, e coloro i quali sono stati educati da persone libere, non
si riconoscono dal coraggio, e dalla ricchezza e da altri beni del genere, ma
riescono evidenti soprattutto dai loro discorsi, e questo è il segno più sicuro
ed evidente dell’educazione di ciascuno di noi
Quelli
i quali impiegano con bellezza l’eloquenza non solo sono potenti nelle loro
città, ma vengono onorati anche presso gli altri.
Altro punto di vista: Teognide
Il bello (kalòn) è il valore supremo, ed esso
coincide con il morire per la patria
"è bello morire (Teqnavmenai ga; r kalovn) da uomo valoroso
cadendo tra i primi
e combattendo per la propria patria" (fr.
10 W., vv. 1 - 2).
Vediamo dal De officiis di Cicerone che cosa è il decōrum, il prevpon, ciò che si
addice a una persona per bene.
Coincide con l’honestum.
Quello che decet è agire prudenter, considerate, con prudenza e
ponderazione, mentre dedecet falli, errare,
labi lasciarsi andare, decipi.
E’ decorum
quello che si compie viriliter animoque
magno (I, 94). Del decorum fanno parte moderatio et temperantia, moderazione ed equilibrio. La natura ha
assegnato al personaggio uomo le partes constantiae,
moderationis, temperantiae, verecundiae, e ci insegna a non trascurarle. La
pulchritudo corporis è data dall’apta
compositio
membrorum (I, 98), dalla
proporzionata disposizione delle membra, quando inter se omnes partes cum quodam lepōre consentiunt, costituiscono
un insieme armonico con una certa piacevolezza. Così lo stile di una persona
deve essere caratterizzato ordine et
constantia et moderatione dictorum omnium et factorum. Dunque il decorum, quod decēre dicimus, è non violare, non offendere homines.
Fondamentale è l’armonia con la natura quam si sequemur ducem, numquam aberrabimus
(I, 100). Bisogna approvare motus
corporis qui ad naturam apti sunt e pure motus animi qui item ad naturam accomodati sunt, appropriati. L’appetitus, oJrmhv, deve obbedire alla ratio. Non siamo bruti e non dobbiamo vivere “seguendo come bestie
l’appetito”[8]. Efficiendum autem est, ut appetitus rationi
oboediant (I, 101).
Questa è la paura dell’istinto che Nietzsche
considera sintomo della decadenza. Una paura che risalirebbe a Platone e a
Socrate.
Nel Fedro
di Platone l’appetitus è raffigurato
nel cavallo nero che è brutto: skoliov~, storto, poluv~, grosso, eijkh'/
sumpeforhmevno~[9], ammassato a casaccio, kraterauvchn, di collo grosso, bracutravchlo~, dal collo corto, simoprovswpo~, dal muso schiacciato, melavgcrw~, di pelo nero, glaukovmmato~, dagli occhi chiari (grigio - azzurri), u{faimo~, sanguigno, u{brew~ kai; ajlazoneiva~ eJtai'ro~, compagno della prepotenza e della iattanza, peri; w\ta lavsio~, villoso intorno alle orecchie, kwfov~, ottuso, mavstigi meta;
kevntrwn movgi~ uJpeivkwn, una bestia che a stento si assoggetta a
una frusta con pungoli.
Nel sistema platonico il cavallo bianco è lo qumoeidev~, la parte irascibile che si
allea alla razionalità, logistikovn,
contro il cavallo nero, l’ejpiqumhtikovn.
Per comprendere questo bisogna vedere com'è la natura
dell'anima.
E' immortale poiché si muove da sola: yuch; pa'sa ajqavnato"/: to; ga; r
aujtokivneton ajqavnaton. Descriviamola con immagini: assimilandola alla
potenza della stessa natura di una coppia di cavalli alati e di un auriga. Uno
dei cavalli però non è buono. L'auriga è il giudizio, il cavallo bianco è il
coraggio, il nero l'appetito.
Il cavallo bianco è bello, buono e di buona razza, l'altro
il contrario: "tw'n i{ppwn, o me; n
kalo; " te kai; ajgaqov", oJ de; ejnantivo"" (Fedro, 246c).
Le anime seguono gli dèi in una processione festiva intorno
al cielo e danno ordine alle cose. La meta del giro è la piana della realtà ( jAlhqeiva" pedivon, 248b) dove la
processione si ferma e gode di un riposo sabbatico. Nella pianura c'è il
pascolo congeniale alla parte migliore dell'anima. Questa pianura si trova
fuori dall'Empireo: è un uJperouravnio"
tovpo" (247c), un sito sopraceleste dove si trovano le idee: essenze
che essenzialmente sono, senza colore, figura, toccabilità. A volte, per colpa
dell'auriga che non riesce a controllare il cavallo nero, gli uomini cadono in
terra e non tornano in cielo finché non siano ricresciute le ali che si possono
riottenere mediante il ricordo delle idee. Chi segue tali ricordi è un
entusiasta. L'idea della bellezza è la più vivamente riprodotta nel mondo
sensibile ed è particolarmente efficace nel risvegliare il ricordo.
Solo la bellezza ha ricevuto questa sorte di essere l’idea
che rimane più manifesta e amabile qua sulla terra. Del resto nella pianura
della realtà, met’ ejkeivnwn, tra
quelle idee, e[lampen o[n, brillava
come essere (Fedro, 250d).
Chi vede una bella
persona e ricorda la bellezza ideale, la contempla e venera religiosamente, e
gli spuntano le ali.
Il ricordo fa crescere l’ala attraverso tutta l’anima: pa'sa ga; r to; pavlai pterwthv (251b), infatti
un tempo l’anima era tutta alata.
Se invece uno non è un nuovo iniziato (mh; neotelhv~) o è corrotto (diefqarmevno~), non si eleva da quaggiù a
lassù ejnqevnde ejkei'se, verso la
bellezza in sé (pro; ~ aujto; to; kavllo~),
sicché non onora la bellezza, ma hJdonh'/
paradou; ~ tetravpodo~ novmon,
dandosi al piacere secondo l’uso delle bestie, cerca di montare e di seminar
figlioli (baivnein ejpiceirei' kai; paidosporei'n,
250e), oppure si dà a rapporti contro natura
Vedendo la bellezza, ci ricordiamo di quando eravamo ajpaqei'" e kaqaroiv, senza dolori e puri, e contemplanti, ejpopteuvonte", intere, semplici, immobili
e beate visioni favsmata, in pura
luce e non eravamo marchiati da questa tomba che ora portiamo in giro e
chiamiamo corpo, chiusi al modo di ostriche (250). Ognuno si innamora di una
bellezza che gli ricorda il dio che seguiva. Chi andava dietro a Zeus è
attirato da un amante filosofov" te
kai; hJgemoniko; " th; n fuvsin, 252e.
Si tende a dare all'amato la natura del proprio dio.
Il cavallo nobile è bello, pudìco e ragionevole e si lascia
guidare senza la frusta, con l'uso della ragione; è di figura diritta e snella,
ha il mantello bianco, gli occhi neri e ama la gloria.
L'altro ha una
struttura contorta e massiccia, mantello nero e occhi chiari, è insolente, vanitoso
e peloso fino alle orecchie. Questo porta l'amante verso l'amato.
L'auriga vedendo la bellezza, cade riverso all'indietro, il
cavallo bianco, smarrito inonda di sudore l'anima intera, ma il nero infuria, rizza
il collo e la coda (ejgkuvya~ kai; ejkteivna~
th; n kevrkon) e tira avanti impudico: "met j ajnadeiva" e{lkei" 254d.
L'auriga tira indietro il morso, gli insanguina la lingua
malvagia e le mascelle e lo dà in preda ai dolori. Allora il cavallo brutto e
cattivo si lascia frenare e quando vede il bello muore dalla paura (254 e)
Così l'amato diviene oggetto di culto e accoglie
l'innamorato presso di sé: infatti tra i buoni non può non nascere l'amicizia
(255b). L'amato sente che nessun altro, compresi i famigliari, può offrirgli
qualcosa di paragonabile a quanto gli offre questo amico posseduto da un dio.
Allora il flusso d’amore scorre dall’innamorato
all’innamorato, li riempie e trabocca (e[xw
ajporrei`, 255c). Il flusso della bellezza (tou` kavllou~ rJeu`ma) allora va e viene dall’uno all’altro
Quindi la corrente di
bellezza attraverso gli occhi raggiunge l'anima, la eccita al volo e irrora i
condotti delle penne (ta; ~ diovdou~ tw`n
pterw`n) stimolando la crescita delle ali.
Se prevalgono gli elementi migliori dell'anima, questi si
oppongono ai peggiori met j aijdou'"
kai; lovgou, con pudore e ragione, ed essi sono ejgkratei'" auJtw'n, padroni di se stessi, kai; kovsmioi.
Allora queste le parti più elevate dell’anima conducono a
una vita ordinata e alla filosofia (256b).
Quindi, alla fine della vita, costoro hanno vinto una delle
tre gare veramente olimpiche necessarie per tornare in cielo.
I due amanti che fanno l'amore, pur senza mettere le ali, sentono
la sollecitazione a rivestirsene purché siano fedeli.
Ma l'intimità con chi non ti ama, dispensando beni mortali e
meschini, genera grettezza e condanna l'anima a rotolare per novemila anni
priva di intelletto256e.
Dunque, dice Socrate,
Amore, io ho fatto la palinodia; tu non negarmi il tuo talento amoroso e fammi
amare dai belli, più di prima: " divdou
d& e[ti ma'llon h] nu'n para; toi'" kaloi'" tivmion ei\nai".
Fai ravvedere anche Lisia e volgilo all'amore della sapienza come il fratello
Polemarco. Lisia dunque è stato battuto perché non sa cosa sia l'amore.
Ancora il Fedro di
Platone
L’anima umana dunque è formata da tre parti: un auriga, un
cavallo buono, di colore bianco, ben fatto, amante di gloria e di temperanza; e
un cavallo nero, contorto massiccio, messo insieme a casaccio (eijkh`/,), amico della protervia e
dell’impostura 253e. Il bianco è obbediente all’auriga (oJ me; n eujpeiqh; ~ tw`/ hJniovcw/, 254a) ed è tenuto a
freno dal pudore e si trattiene dal balzare addosso all’amato.
L’altro invece si porta avanti skirtw`n de; biva/, balzando con violenza. L’auriga e il
bianco vengono trascinati e si sentono costretti a cose vergognose e inique. Giunti
vicino all’amato, l’auriga ricorda la natura del Bello e lo vede collocato con la Temperanza (meta; swfrosuvnh~, 254b) su un piedistallo
immacolato. Sicché l’auriga tira indietro le redini e i due cavalli devono
piegarsi sulle cosce; il riottoso contro la sua volontà.
Quando riprende fiato, il cavallo nero lancia insulti con
ira (ejloidovrhsen ojrgh`/, 254c) contro l’auriga e il compagno
accusandoli di viltà e debolezza. Quindi riprende a tirare (met j ajnaideiva~ e{lkei (254d), trascina
con impudenza. Ma l’auriga tira indietro il freno dai denti del cavallo
protervo con maggior forza e insanguina la lingua maldicente e le mascelle e
gli fa piegare a terra le cosce. Dopo che questa mossa si è ripetuta più volte
il malvagio fa cessare la sua protervia, umiliato dalla previdenza dell’auriga,
e quando vede il bello si sente venir meno per la paura: kai; o{tan i[dh to; n kalovn, fovbw/ diovllutai
(254e).
Lo scopo cui tende amore, secondo Diotima
del Simposio platonico è la procreazione nel bello secondo il corpo e secondo
l'anima: "tovko" ejn kalw'/ kai; kata;
to; sw'ma kai; kata; th; n yuchvn" (2O6b).
Plotino
riprende Platone.
Le
cose belle sono quelle congeniali alla Yuchv che è una manifestazione del Nou`~
che è il primo prodotto dell’Uno.
Plotino
(205 - 270 d. C.) 6 Enneadi, ciascuna
con 9 scritti. Furono edite dal discepolo Porfirio che scrisse una Vita di Plotino.
La sesta parte della prima Enneade riguarda il bello: Peri; tou' kalou'. C’è il bello nella combinazione delle
parole, nei ritmi, nella virtù. Alcune cose come i corpi sono belli non per la
loro stessa sostanza, ajlla; meqevxei, per la
loro partecipazione. La natura della virtù invece è bella per se stessa. Tutti
affermano che la bellezza dei corpi consiste nella simmetria delle parti tra
loro (summetriva
tw'n merw'n pro; ~ a[llhla). Simmetria
e misura. Dottrina stoica. Per costoro il bello non è ajplou'n, semplice, ma composto da parti.
Teniamo conto che secondo Plotino noi
giungiamo al Sommo, all’Essere originario (to; prw'ton) quando ci innalziamo al di sopra anche del pensiero in uno stato di e[kstasi~ e di a[plwsi~, di semplificazione. Per costoro, i colori, come la luce del sole, sarebbero
privi di bellezza perché sono semplici. Ma la simmetria può esserci anche tra
pensieri cattivi, come che la temperanza sia una sciocchezza e che la giustizia
sia una generosa ingenuità.
La virtù è una bellezza dell’anima senza che
in lei ci siano parti simmetriche. Che cosa è dunque la bellezza dei corpi tiv dh'tav ejsti to; ejn
toi'~ swvmasi kalovn; (2).
L’anima respinge ciò che le è discordante ed
estraneo. L’anima (Yuchv) è manifestazione
del Nou'~ che è il primo prodotto dell’Uno. L’anima
dunque si compiace di contemplare ciò che vede dello stesso genere suo (suggenev~) o le tracce del congeniale (h] i[cno~ tou'
suggenou'~). Allora gioisce e
rimane stupita e lo riporta a se stessa e si ricorda di sé e di ciò che le
appartiene (cfr. Fedro 250 e Simposio 209). Le bellezze inferiori e
superiori hanno una oJmoivoth~, rassomiglianza
in quanto in loro c’è la metochv ei[dou~, la
partecipazione a una idea, a una forma.
Di nuovo Cicerone
Cicerone consiglia una semplicità elegante al suo gentiluomo
quando pone le basi del galateo nel De
officiis [10]:
“quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae
autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda
praeterea munditia est non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae fugiat
agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in
quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est” ( I, 130), viene
lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell'aspetto deve essere
conservata mediante il bel colore dell'incarnato, il colore con gli esercizi
fisici. Inoltre deve essere impiegata un'eleganza non sfacciata né troppo
ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile. Lo stesso
criterio si deve adottare nel vestire dove, come nella maggior parte delle cose,
la via di mezzo è la migliore. Lo stesso, abbiamo visto, afferma Seneca.
La bellezza può essere quella del corpo, del viso, dei
capelli, degli occhi: Properzio scrive “"si nescis, oculi sunt in amore duces " (II, 15, 12).
La bellezza può essere curata attraverso il cultus, ma anche trasandata. Ovidio
scrive: "Forma viros neglecta decet; Minoida Theseus/abstulit, a nulla
tempora comptus acu; / Hippolitum Phaedra, nec erat bene cultus, amavit; / cura
deae silvis aptus Adonis erat " (Ars amatoria, I, vv. 507 - 510),
agli uomini sta bene la bellezza trasandata; Teseo rapì la figlia di Minosse
senza forcine che tenessero in ordine i capelli sulle tempie; Fedra amò
Ippolito e non era gran che curato; Adone avvezzo alle selve era oggetto
d'amore di una dea.
Ancora Ovidio + Seneca
Ovidio "nelle sue oscillazioni poco tormentate si ferma
alla proposta di un cultus misurato
che eviti gli eccessi del lusso e, nello stesso tempo, di una raffinatezza
dannosa. Per l'uomo egli rifiuta un trattamento dei capelli e della pelle che
lo renda simile agli eunuchi servitori di Cibele (Ars I 505 sgg.): l'ideale virile è un equilibrio fra la mundities e la robustezza data dagli
esercizi del Campo Marzio (ibid. 513 sg.): Munditiae
placeant, fuscentur corpora Campo; /sit bene conveniens et sine labe toga.
Dunque, né rusticitas
né effeminatezza"[11]. L'eleganza
piaccia, siano abbronzati i corpi al Campo Marzio; la toga stia bene e sia
senza macchie (vv. 511 - 512).
Anche per Seneca è auspicabile la via di mezzo: "non
splendeat toga, ne sordeat quidem" (Epist. , 5, 3), non brilli la
toga, ma neppure sia sudicia.
E' interessante notare che nella Repubblica di
Platone la rivolta contro l'oligarchia parte dal povero snello e abbronzato ijscno; " ajnh; r pevnh" hJliwvmeno"
(556d) il quale è schierato in battaglia accanto al ricco cresciuto nell'ombra
con molta carne superflua (paratacqei; "
ejn mavch/ plousivw/ ejskiatrofhkovti, polla; " e[conti savrka"
ajllotriva"), , lo vede pieno di affanno e difficoltà e capisce che
non vale nulla e che quindi il suo potere non è naturale.
La semplicità insomma non sia rozza, sprovveduta e
inopportuna ma voluta e conquistata. Marziale[12] la
chiama prudens simplicitas (X, 47, 7) semplicità accorta e la considera
uno dei mezzi che abbelliscono la vita (vitam quae faciant beatiorem, v.
1). Si sente la lezione ovidiana: la simplicitas rudis (A. a. III,
113) non si confà alla Roma moderna.
Pirra è simplex
munditiis (Odi I, 5, 5) semplice nell'eleganza.
La bellezza nella morte
Alfieri nel 1770 tornò a Berlino e
andò a vedere il luogo dove si svolse una battaglia della guerra dei sette anni
(1756 - 1763): "Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia
tra’ russi e prussiani, dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento
rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali
vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza
del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era
cresciuto misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa
riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio (3, 9).
La riflessione impietosa, quasi
empia, non annulla la positività della vita che trionfa sulla morte dalla quale
rinasce sempre in forme rinnovate, nella folta e verdissima bellezza del grano.
Si può estendere a questo pensiero
quanto scrive Steiner di Omero e di Tolstoj: “Perfino nel mezzo della
carneficina la vita si leva a sovrastare tutto il resto. Attorno al tumulo
sepolcrale di Patroclo i capi greci lottano, gareggiano e lanciano il
giavellotto a celebrazione della loro forza e della loro vitalità. Achille
conosce il destino che incombe su di lui, ma "Briseide guancia
graziosa" lo raggiunge ogni notte. La guerra e la morte seminano
distruzione nel mondo di Omero come in quello di Tolstoj, ma il centro resiste:
ed è l'affermazione che la vita è, in se stessa, un avvenimento di bellezza, che
le opere e i giorni degli uomini sono degni di essere ricordati e che nessuna
catastrofe - neppure l'incendio di Troia o di Mosca - è mai definitiva. Poiché
oltre le torri fumanti e oltre la battaglia rolla il mare color del vino, e
quando Austerlitz sarà dimenticata le messi torneranno, per usare un'immagine
di Pope, "a imbiondire il pendio". Questa cosmologia è riunita tutta
intera nell'ammonimento di Bosola alla Duchessa
di Malfi [13] che maledice la natura in
un estremo impeto di ribellione: "Guarda, le stelle brillano ancora".
Sono parole tremende, piene di distacco e dell'aspra consapevolezza che il
mondo fisico contempla impassibile i nostri dolori. Ma superiamo la crudeltà
dell'impatto e vedremo che esse contengono l'assicurazione che la vita e la
luce delle stelle dureranno al di là di qualsiasi momentaneo caos"[14].
Saffo
Il fr. 2D è la parte dell'ode
conservata dall'Anonimo trattato di estetica Sul sublime. del I secolo d. C. E' forse la poesia più nota di
Saffo poiché è stata tradotta da Catullo nel carme 51. Cominciamo con il darne
una traduzione nostra:
"Quello mi sembra pari agli
dei
essere, l'uomo che davanti a te
sta seduto e da vicino ti ascolta
dolcemente parlare
e sorridere amabilmente, cosa che
a me certo
sconvolge il cuore nel petto:
appena infatti ti guardo per un
momento, allora non
è permesso più che io dica niente
ma la lingua mi rimane spezzata
ka;
m glw'ssa m j e[age[15]
un fuoco sottile subito corre
sotto la pelle
e con gli occhi non vedo nulla e
mi
rombano le orecchie
e un sudore freddo mi cola addosso,
e un tremore
mi prende tutta, e sono più verde
dell'erba, poco lontana
dall'essere morta
appaio a me stessa
ma bisogna sopportare tutto poiché…
"
strofe saffiche
Qui finisce la citazione
dell'Anonimo Sul Sublime il quale si
chiede (10) dove stia la grandezza di Saffo e risponde: “Saffo prende le
sofferenze che capitano nelle follie amorose dai fatti conseguenti e dalla
verità stessa in ogni occasione. Dove mostra la sua capacità? Nel fatto che è
straordinaria nello scegliere e collegare tra loro i vertici e gli aspetti di
massima tensione”.
Quindi cita l'ode e ripete che il
capolavoro è prodotto dalla scelta dei momenti più intensi e dal loro
collegamento. “h J lh'yi~ d j wJ~ e[fhn
tw'n a[krwn kai; hJ eij~ taujto; sunaivresi~ ajpeirgavsato th; n ejxochvn”,
la scelta, come dicevo, dei vertici e la loro concentrazione nello stesso
componimento nel medesimo punto ha prodotto l’eccellenza”.
La bellezza incute paura
Anche Leopardi, quando tratta di
bellezza nello Zibaldone (pp. 3443 - 3444),
cita, in greco, i vv. 5 - 6 del carme di Saffo, dopo avere riportato questi
della Canzone XIV[16] di
Petrarca (Rime, CXXVI, 53 - 55):
"Quante volte diss'io
allor pien di spavento/
"Costei per fermo nacque in
paradiso!".
Quindi fa seguire un commento relativo a
entrambi gli autori: " E' proprio dell'impressione che fa la bellezza... su
quelli d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare,
e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a
prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. "
Aristotele Politica 1311a
Lo scopo del tiranno è il piacere
(to; hJduv), quello del re to; kalovn, la bellezza.
Nella Retorica (1389b) Aristotele, sparlando a proposito e a sproposito
dei vecchi, dice che sono fivlautoi ma'llon
h] dei', egoisti più del dovuto e che questa è una forma di mikroyuciva, meschinità: kai; pro; ~ to; sumfevron zw'sin, ajll j ouj pro;
~ to; kalovn, vivono per
l’utile e non per il bello, proprio per il fatto di essere egoisti: l’utile
infatti è un bene individuale, mentre il bello è un bene assoluto (to; de; kalo; n
aJplw'~).
Secondo Jaeger nella cultura greca"la considerazione
dell'utile è indifferente o ad ogni modo accessoria e l'elemento decisivo è
invece il kalovn, cioè il Bello, col
valore impegnativo d'un miraggio, d'un ideale… Dai poemi di Omero alle opere
filosofiche di Platone e Aristotele la parola kalovn,
"il bello" denota una delle più significative forme del valore
personale. In contrasto a parole come hjduv
o sumfevron, il piacevole o l'utile,
kalovn significa l'ideale... Un'azione
è fatta dia; to; kalovn, ogni volta
che esprime semplicemente un ideale umano come fine a se stesso, non quando
serve a un altro fine. "[17]
Nel
romanzo I demoni di Dostoevskij, Stepan
Trofimovič, del resto un personaggio negativo, liberal - occidentalista, afferma
che l’umanità potrebbe vivere senza la scienza “solo senza la bellezza non
potrebbe, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo!... La stessa scienza
non resisterebbe un minuto senza la bellezza!”
(p. 524).
Bellezza e didattica. Dalla mia metodologia
59. 4. Le frasi belle sono la luce del pensiero e colpiscono
la sfera emotiva. Bettini: la citazione antologizza il classico fino alla carne
viva. Fellini, Seneca, Leopardi e Carlyle. Manzoni: l’utile, il vero e
l’interessante. La bellezza eleva anche la virtù. Dobbiamo scegliere testi che
piacciano prima di tutto a noi. Borges: non ho insegnato la letteratura inglese
ma l’amore per certe frasi. Tolstoj. Luperini e la scelta libera dei testi. La
Mastrocola e il piacere della condivisione. Alfieri aveva la testa
“antigeometrica” e, invece, “genio per le cose drammatiche”. Nietzsche e l’arte
che anestetizza il dolore. Proust: il lavoro dell’artista è un rivelamento di noi
stessi.
Vanno segnalate, possibilmente citate a memoria, le frasi
belle che sono la luce del pensiero, la sua parte poetica e artistica che, colpendo
la sfera emotiva, si presta a essere ricordata. Citare non è saccheggiare: “Agli
occhi dell’artista un pensiero in quanto tale non avrà mai un gran valore di
proprietà. A lui importa che possa funzionare nell’ingranaggio spirituale
dell’opera”[18].
“Esiste comunque un metodo sicuro, e soprattutto molto
rapido, per rendere sfizioso qualsiasi classico: quello della citazione. La
citazione infatti antologizza il classico fino alla carne viva, gli attribuisce
una tale misura minimale che a questo punto la sfiziosità è comunque garantita.
Questo spiega perché, negli ultimi tempi, le raccolte di citazioni si sono moltiplicate
(mettendo inaspettatamente in buona compagnia la gloriosa Ape Latina di Fumagalli): tanto che in alcuni paesi, come gli Stati
Uniti, le grandi librerie dispongono addirittura di un apposito settore in cui
sono allineati i libri di citazioni di ogni possibile letteratura. Il fatto è
che, nella citazione, il classico diventa talmente piccolo da poter entrare
persino in una “battuta”. [19]”
Sentiamo Fellini: "Il bello sarebbe meno ingannevole e
insidioso se cominciasse a venir considerato bello tutto ciò che dà un'emozione,
indipendentemente dai canoni stabiliti. Comunque venga toccata, la sfera
emotiva sprigiona energia, e questo è sempre positivo, sia dal punto di vista
etico che da quello estetico. Il bello è anche buono. L'intelligenza è bontà, la
bellezza è intelligenza: l'una e l'altra comportano una liberazione dal carcere
culturale"[20].
Un'idea simile si trova in una epistola di Seneca: "advocatum
ista non quaerunt: adfectus ipsos tangunt et natura vim suam exercente
proficiunt…erigitur virtus cum tacta est et inpulsa" (94, 28 e 29), queste
parole belle[21] non hanno bisogno di un
difensore: toccano direttamente la parte emotiva e giovano grazie alla natura
che esercita la sua forza…la virtù si drizza quando viene toccata e stimolata.
“qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non
il commuovere, così o così, ma sempre commuover gli affetti…Bello effetto[22] di
un dramma, di una rappresentazione, di una poesia; lasciare di se tal vestigio
negli animi degli spettatori o uditori o lettori, come s’e’ non l’avessero né
veduta né letta. Meglio varrebbe essere stato a uno spettacolo di forze, di
giuochi equestre, e che so io, i quali pur lasciano nell’animo alcuna orma di
maraviglia o di diletto o d’altro”[23].
“Da questo punto di vista, anche una frase di Goethe, tra le
altre, che ha molto stupito parecchi, può avere un significato: “Il Bello - egli
dichiara - è più alto del Bene; il Bello avvolge in sé il Bene”. Il vero Bello,
come del resto ho detto altrove, “differisce dal falso come il cielo differisce
dall’inferno”[24].
“Il nobile favorisce la bellezza dell’uomo, l’uomo comune la
bruttezza”[25].
La bellezza dunque è spesso morale, eleva anche la virtù, e
comunque, quale strumento didattico, serve a catturare l'attenzione degli
studenti, degli ascoltatori in genere; senza l'attenzione di chi ascolta, il lovgo" di chi parla si degrada a un
verso di papero.
L'attenzione si ottiene con racconti interessanti, quindi
belli, e non inutili. Lo dichiarano Tucidide e Polibio nelle loro Storie,
e pure Manzoni nella Lettera a Cesare
d'Azeglio[26]:
"Il principio di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi
sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba
proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo".
Interessante è la bellezza. Negli scritti come nelle donne e
negli uomini
I testi che scegliamo devono piacere innanzitutto a noi. Se
non piacciono a noi tanto meno piaceranno a quanti li racconteremo
A questo proposito
sentiamo J. L. Borges: "Nel mio testamento, che non ho intenzione di
scrivere, consiglierei di leggere molto, ma senza lasciarsi condizionare dalla
reputazione degli autori. L'unico modo di leggere è inseguendo una felicità
personale. Se un libro vi annoia, fosse pure il Don Chisciotte, accantonatelo:
non è stato scritto per voi… Non ho insegnato agli studenti la letteratura
inglese, che ignoro, ma l'amore per certi autori. O meglio per certe pagine. O
meglio, di certe frasi. Ci si innamora di una frase, poi di una pagina, poi di
un autore"[27].
Un consiglio del genere dà pure Tolstoj: "Se vuoi
insegnare qualcosa allo scolaro, ama la tua materia e conoscila, e gli scolari
ameranno te e la tua materia e tu potrai educarli; ma se tu sei il primo a non
amarla, per quanto li obblighi a studiare, la scienza non eserciterà nessuna
azione educativa". Gli studenti, aggiunge il maestro russo, sono i
migliori giudici dell'educatore, l'unico test per valutarlo: "E anche qui
la salvezza è una sola: la libertà degli scolari di ascoltare o non ascoltare
il maestro, di recepire o non recepire la sua azione educativa, cioè essi soli
possono decidere se il maestro conosce e ama la sua materia"[28].
“Non si può fare leggere dei testi solo per obbedire a una
costrizione e cioè perché sono imposti da un programma o da un canone; l’insegnante
deve invece mostrare, agendo all’interno della comunità ermeneutica della
classe, che tali testi sono letti perché hanno un significato e un valore per
noi…Né si può escludere a priori che un insegnante e la sua classe arrivino a
conclusioni opposte rispetto ai presupposti iniziali, e cioè alla presa d’atto
che un determinato testo o autore non abbia oggi un particolare valore e un
significato e che sia perciò giusto leggere altre opere o altri autori”[29].
“Una cosa ti piace? Bene, la condividi. Io direi che
esattamente questo è insegnare, niente di più: il piacere immenso della
condivisione”[30].
Credo pure che non sia necessario, e nemmeno opportuno, che
ciascuno studi tutte le discipline: ognuno deve dedicarsi presto a quelle per
le quali è portato.
Vittorio Alfieri non era incline alla geometria: “Di quella
geometria, di cui io feci il corso intero, cioè spiegati i primi sei libri di
Euclide, io non ho neppur mai intesa la quarta proposizione; come neppure la
intendo adesso; avendo io sempre avuta la testa assolutamente anti - geometrica”
(Vita, 2, 4).
Il maestro deve
aiutare il discepolo a scoprire i suoi talenti e incoraggiarlo a farli fruttare:
“Mi capitarono anche allora[31]
varie commedie del Goldoni, e queste me le prestava il maestro stesso; e mi
divertivano molto. Ma il genio per le cose drammatiche, di cui forse il germe
era in me, si venne tosto a ricoprire o ad estinguersi in me, per mancanza di
pascolo, d’incoraggiamento, e d’ogni altra cosa. E, somma fatta, la ignoranza
mia e di chi mi educava, e la trascuraggine di tutti in ogni cosa non potea
andar più oltre (Vita, 2, 4).
L'educatore deve essere un poco come l'artista e stimolare
il pensiero: "Ogni parola, espressa da un talento artistico, si tratta di
Goethe o di Fed'ka, si differenzia dall'espressione non artistica per il fatto
che essa suscita una quantità innumerevole di pensieri, di immagini e di
interpretazioni"[32].
"L'arte deve far brillare ciò che è significativo di
fra ciò che è inevitabilmente o invincibilmente brutto"[33].
Un antidoto alla pubblicità.
L'arte deve riscattare, estetizzare e anestetizzare l'atroce
e l'assurdo della vita, salvare l'uomo terrorizzato o disgustato dal pericolo
della paralisi: " Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si
avvicina, come una maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è
capace di volgere quei pensieri di disgusto per l'atrocità o l'assurdità
dell'esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime
come repressione artistica dell'atrocità e il comico come sfogo
artistico del disgusto per l'assurdo"[34].
“Questo lavoro dell’artista, vòlto a cercar di scorgere
sotto una certa materia, sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos’altro,
è esattamente inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo stornati
da noi stessi, l’orgoglio, la passione, l’intelligenza, e anche l’abitudine, compiono
in noi, ammassando sopra le nostre genuine impressioni, per nascondercele, le
nomenclature, gli scopi pratici, cui diamo erroneamente il nome di “vita”. Insomma,
quest’arte così complessa è davvero la sola arte viva”[35].
Bellezza e semplicità
“l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò
appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli
atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)[36].
La bellezza ha una potenza divina.
Per quanto riguarda l'instabilità e l'inaffidabilità delle
donne giovani e belle, Ovidio negli Amores è molto comprensivo: il
tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono: "
Esse deos credamne? Fidem iurata fefellit,
/et facies illi quae fuit ante manet... Longa decensque fuit: longa decensque
manet. /Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli, /per quos mentita est perfida
saepe mihi. /Scilicet aeterni falsum iurare puellis/di quoque concedunt, formaque
numen habet " (Amores, III, 3,
1 - 2 e 8 - 12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data, /eppure
le rimane l'aspetto che aveva prima… Era alta e ben fatta; alta e ben fatta
rimane. /Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli occhi, /con i
quali spesso la perfida mi ha ingannato. /Certo anche gli dèi eterni permettono
alle ragazze/di giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina.
Bellezza e virtù. La bellezza purtroppo è fugace.
"Non certo per i miei farmaci[37] ti
odia lo sposo/ ma se non sei adatta a vivere con lui. /E' un filtro amoroso
anche questo: non la bellezza, o donna,
/ ma le virtù fanno felici i mariti. " - (Euripide, Andromaca, vv. 205 - 208).
Lo stesso consiglio dà Ovidio nei Medicamina faciei
(1 d. C.): siccome l'aspetto piace se anche il carattere è attraente (ingenio
facies conciliante placet, v. 44) il poeta raccomanda la tutela morum (v. 43), la cura del
comportamento: "Certus amor morum est, formam populabitur
aetas, / et placitus rugis vultus aratus erit " (45 - 46), sicuro
è l'amore del costume, la bellezza verrà devastata dall'età, e il volto
piacente sarà solcato da rughe.
Bellezza e intelligenza
Sentiamo il seduttore di Kierkegaard: " Che cosa teme
una ragazza? Lo spirito. Perché? Perché lo spirito rappresenta la negazione di
tutta la sua esistenza femminile. Una bellezza maschile, un aspetto
lusinghevole eccetera, sono ottimi mezzi. Con essi si può anche giungere a
varie conquiste, ma non mai a una vittoria completa. Perché? Perché con essi si
porta guerra a una fanciulla nel suo stesso campo, e nel proprio campo ella è
sempre la più forte. Con tali mezzi si può spingere una fanciulla ad arrossire,
ad abbassare gli occhi, ma mai si arriva a ingenerarle quell'ansia soffocante e
indescrivibile che rende interessante la bellezza. Non formosus erat, sed
erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas "[38].
La bellezza giustifica la vita. Senza bellezza non si può
vivere.
La giustificazione estetica della vita umana, il culto della
bellezza, è un'altra delle ragioni per cui i Greci sono nostri padri spirituali.
Soltanto nella bellezza si può tollerare il dolore di vivere,
afferma Polissena quando antepone una morte dignitosa a una vita senza onore: "to; ga; r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, (Ecuba, v. 378), vivere senza bellezza è
un grande tormento".
Il culto della bellezza nella vita e nella morte non manca
in Sofocle: Antigone dice a Ismene: ma lascia che io e la pazzia che spira da
me/soffriamo questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non
morire nobilmente"peivsomai ga; r ouj
- tosou`ton oujden w{ste mh; ouj kalw`~ qanei`n ( Antigone, vv. 95 - 97).
Aiace il quale risponde al corifeo (vv. 479 - 480): "ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'"
teqnhkevnai - - to; n eujgenh' crhv"
ma il nobile deve o vivere con stile, o con stile morire.
Altrettanto afferma
Neottolemo, il figlio schietto dello schietto Achille, in faccia al subdolo
Odisseo del Filottete: "
bouvlomai d j, d', a[nax, kalw'" - drw'n ejxamartei'n ma'llon
h] nika'n kakw'" " (vv. 94 - 95), preferisco, sire, fallire
agendo con nobiltà che avere successo nella volgarità.
Nell'Eracle, Euripide
attraverso "il cantuccio" del coro fa questa sua dichiarazione
d'amore alla bellezza e alla poesia: "non cesserò mai di unire le Grazie
alle Muse, dolcissimo connubio. Che io non viva senza la Poesia ma sia sempre tra le
corone. Ancora vecchio l'aedo fa risuonare la Memoria "(vv. 673 - 679).
La bellezza si accompagna alla semplicità e alla sobrietà.
La bellezza deve essere coniugata con la semplicità, come
dice in sintesi il Pericle di Tucidide: "filokalou'mevn
te ga; r met j eujteleiva"[39]
kai; filosofou'men a[neu malakiva"" (Storie, II, 40, 1) in effetti amiamo il bello con semplicità e
amiamo la cultura senza mollezza.
Un aspetto della bellezza è la giovinezza
La giovinezza è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima
tanto nella prosperità quanto nella povertà: “kallivsta
me; n ejn o[lbw/, - kallivsta d j ejn peniva/”, Euripide, Eracle, vv. 647 - 648. Se gli dèi
avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi"
- kai; sofiva) secondo i criteri umani donerebbero una doppia giovinezza
(divdumon h{ban) come segno evidente
di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo nella luce
del sole (eij" aujga" pavlin
aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile
avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv. 661 - 669).
Marziale afferma che l’uomo buono, privo di rimorsi, gode
del frutto del suo passato e accresce lo spazio della propria esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc
est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7 - 8).
Nietzsche e l’Apollineo
Nietzsche parla di
giustificazione estetica della vita data dall’arte. Senza questa ci sarebbe la
sapienza silenica e la negazione buddistica della volontà, per l’impossibilità,
denunciata da Amleto di rimettere in sesto un mondo uscito dai cardini. Ma
l’arte trasforma l’atroce in sublime e l’assurdo in comico
“Il culto dell’immagine che è proprio della cultura
apollinea, quale si manifesta nel tempio, nella statua o nell’epos omerico, aveva
il suo scopo più alto nell’esigenza etica della misura, che corre parallela
all’esigenza estetica della bellezza…La misura, sotto il cui giogo si muoveva
il nuovo mondo di dèi (a fronte di un distrutto mondo di Titani), era quella
della bellezza: il limite, cui il greco doveva attenersi, quello della bella
apparenza”[40].
La bella apparenza spesso può nascondere il profondo ma può
anche prefigurarlo: “Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorreva arrestarsi animosamente alla
superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme,
suoni, parole, all’intero olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano
superficiali –per profondità! E non
facciamo appunto ritorno a essi, noi temerari dello spirito…Non siamo
esattamente in questo –dei Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle
parole? Appunto perciò…artisti”[41].
“E’ cosa abbastanza strana, per quanto ben comprensibile, che
la prima forma in cui lo spirito europeo si è ribellato all’età borghese sia
stato l’estetismo. Non a caso ho nominato insieme Nietsche e Wilde come ribelli,
e propriamente ribelli in nome della bellezza”[42].
“La vita può giustificarsi soltanto come fenomeno estetico”[43].
Confutazione e inversione della sapienza silenica.
Non bisogna trascurare la componente estetica della civiltà
ellenica che si distingue dalle altre anche per il culto della bellezza; secondo
Nietzsche i Greci hanno vinto l'orrore del caos e rovesciato la triste sapienza
silenica, la quale rifiuta la vita, attraverso la giustificazione estetica ed
eroica dell'esistenza umana: "Il Greco conobbe e sentì i terrori e le
atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a
tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza
verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su
tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il
destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che
costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre
con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai
Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante
quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter
vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo
evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario
ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso
apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della
gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli… Così gli dèi
giustificano la vita umana vivendola essi stessi - la sola teodicea
soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita
come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici
si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché
di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa
peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è
di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò
avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della
stirpe umana come le foglie[44], per
il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe
bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[45]. Nello
stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così
impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il
lamento si trasforma in un inno in sua lode"[46].
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma
anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei
kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco
col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di
bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata
dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette
soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[47].
Con il termine apollineo si esprime: l'impulso verso il
perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò
che semplifica, pone in rilievo, rende forte… Lo sviluppo ulteriore dell'arte è
legato all'antagonismo di queste due forze artistiche della natura così
necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell'umanità è legato
all'antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la più
alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l'apollinismo
della volontà ellenica"[48].
“Nel fondo del Greco c'è la mancanza di misura, la caoticità,
l'elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con il suo
asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della
naturalezza dei costumi - esse sono conquistate, volute, strappate - sono la
sua vittoria"[49]. .
L’apollineo è la giustificazione estetica della vita umana
terrorizzata dai mostri del Caos primordiale e negata dalla cupa tristezza
silenica che giudica non essere nati, non essere, la cosa più bella.
Lo stile della neglegentia
Seneca nella Fedra conferma la neglegentia di Ippolito: secondo la matrigna innamorata il figlio è
più bello del padre Teseo quando era giovane: "in te magis refulget
incomptus decor " (v. 657), in te brilla ha maggior fascino una
bellezza incurante.
Lo stile della neglegentia è quello dell'aristocrazia. Il
fascino e l'eleganza sono luce ed emanazione della persona. Vediamo come hanno
cercato di raffigurarli alcuni scrittori europei.
La studiata
disinvoltura, la sui neglegentia, l'apparente
noncuranza di sé come mancanza di affettazione, e "apparenza" di
naturalezza, quali virtù supreme dello stile vengono attribuite da Tacito a
Petronio, uomo erudito luxu dalla voluttà raffinata, elegantiae
arbiter, maestro di buon gusto alla corte di Nerone il quale infatti: "nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius
adprobavisset"[50],
niente considerava bello e fine in quel fasto se non quanto Petronio gli avesse
approvato.
Del resto l'eccessiva trascuratezza non viene mai approvata:
Seneca biasima una moda del genere seguìta soprattutto da cinici e stoici e
consiglia a Lucilio di evitarla: "asperum cultum et intonsum caput et
neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et
quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evīta" (Epist. ,
5, 1), evita una mancanza di cura ferina e la testa incolta e la barba troppo
trascurata e l'odio dichiarato all'argenteria e il giaciglio posto a terra e
tutto il restante apparato che segue l'ambizione per una via distorta
Petronio approvava
l'apparenza della semplicità: "Ac dicta factaque eius quanto solutiora
et quandam sui neglegentiam[51], praeferentia,
tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur"[52] le
sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza
di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità. Sembra un
manifesto del dandy antico, e in effetti il raffinato autore del Satyricon, Petronius Arbiter, probabilmente
la stessa persona, considera la propria opera caratterizzata da una
straordinaria semplicità "novae
simplicitatis opus " (Satyricon, 132).
Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme
liberata, "La vergine tra 'l vulgo uscì soletta, /non coprì sue
bellezze, e non l'espose, /raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, /con
ischive maniere e generose. /Non sai ben dir s'adorna o se negletta, se caso od
arte il bel volto compose. /Di natura, d'Amor, de' cieli amici/le negligenze
sue sono artifici" (II, 18).
Parini impiega il topos della neglecta coma e delle
artificiose negligenze a proposito dell'acconciatura del Giovin Signore suo
pupillo: "Ma il crin, Signore, /Forma non abbia ancor da la man
dotta/Dell'artefice suo… Non senz'arte però vada negletto/su gli omeri a cader…
Poi che in tal guisa te medesmo ornato/Con artificio negligente avrai; /Esci
pedestre a respirar talvolta/I mattutini fiati (Il mattino[53], vv.
1005 e sgg.).
Questo stile della semplicità ricercata è adottato anche dal
seduttore di Madame Bovary: "si scusò di essere anche lui così
trascurato. Nel suo modo di vestirsi era quel miscuglio di trasandataggine e di
ricercatezza in cui la gente, di solito, crede di intravedere la rivelazione di
un'esistenza eccentrica, le sfrenatezze del sentimento, le tirannie dell'arte, il
perpetuo disprezzo delle convenienze, insomma quanto può sedurre o
esasperare" (p. 113).
Nei Guermantes di
Proust, che costituiscono quasi il codice dell'aristocrazia redatto da un
borghese, si legge che "i nobili fraternizzano più volentieri coi loro
contadini che coi borghesi"[54]. Il
raffinato Saint - Loup appariva di un'eleganza " libera e trascurata"[55] che
si adattava perfettamente a "quel corpo, non opaco e oscuro…ma limpido e
significativo". Un corpo attraverso il quale " le qualità tutte
essenziali dell'aristocrazia …trasparivano, come si manifesta in un'opera
d'arte la industre ed efficace potenza che l'ha creata, e rendevano i movimenti
di quella corsa leggera…intellegibili e pieni di grazia come quelli di un
cavaliere su un fregio architettonico"[56]. Si
può avvicinare a questa descrizione quella che Plinio il Giovane dà di Aciliano
che propone come sposo per la figlia di un amico: "Est illi facies
liberalis, multo sanguine, multo rubore suffusa; est ingenua totius corporis
pulchritudo" (I, 14), ha una faccia nobile, inondata di molta vita e
molto colore; è schietta la bellezza di tutto il corpo.
Sentiamo John Keats
Incipit del poemetto Endymion
(1818)
“A thing of beauty is a joy for ever:
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness”,
una cosa bella è una gioia perenne: / la sua grazia aumenta sempre; mai/svanirà
nel nulla
Ultimi
versi dell’ Ode on a Grecian Urn
(1819)
“Beauty is truth, truth
beauty”, that is all -
Ye know on earth, and all ye need to know, ” “Bellezza è verità e verità bellezza”, questo è tutto/ quanto voi sapete sulla terra, e tutto quanto avete bisogno di sapere.
Ye know on earth, and all ye need to know, ” “Bellezza è verità e verità bellezza”, questo è tutto/ quanto voi sapete sulla terra, e tutto quanto avete bisogno di sapere.
Chiudo con Foscolo
Ode all’amica risanata. (1803)
“E in te beltà
rivive
L’aurea beltade
ond’ebbero
Ristoro unico a’
mali
Le nate a vaneggiar
menti mortali”.
Vediamo alcune parole dell'Idiota di Dostoevskij sulla bellezza femminile, quella di Aglaja
Ivanovna de L'idiota: "E'
difficile giudicare la bellezza… La bellezza è un enigma... Una bellezza simile
è una forza... con una simile bellezza si può rovesciare il mondo"[57].
giovanni ghiselli. Bologna 23 marzo 2017
[1]Questa alta valutazione del
cuore e del sentimento si ritroverà, com'è noto, negli autori dello Sturm und drang e del romanticismo: Goethe,
in I dolori del giovane Werther scrive
(9 maggio 1772): "egli apprezza la mia intelligenza ed i miei talenti più
del mio cuore, che è pure l'unica cosa della quale sono superbo, che è pure la
fonte di tutto, di ogni forza, di ogni beatitudine e di ogni miseria. Ah, quello
che io so, lo può sapere chiunque - ma il mio cuore lo possiedo io solo".
[2] Un limite alla facundia,
come del resto alla pietas, lo
suggerisce Orazio: "Cum semel
occideris et de te splendida Minos/ fecerit arbitria, / non Torquate, genus, non
te facundia, non te/restituet pietas" (Carm. IV, 7, vv. 21 - 24), una volta che sarai morto e Minosse avrà
dato sul tuo conto chiare sentenze, non la stirpe, Torquato, non la facondia, non
la devozione ti restaurerà. Questo limite dunque è la morte, solo la morte.
[3]
Ovidio, Ars Amatoria, II, 123 - 124. Bello
non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del
mare. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore.
[4] Havelock, Op. cit. , p. 146.
[5]Il. III, 180. Noi l'abbiamo trovato nell'Odissea (IV, 145) e l'abbiamo tradotto "faccia di cagna".
[6] Iliade, III, 156 - 158.
[7]K. Kerényi, Miti e misteri, p. 54.
[8] Dante, Purgatorio, XXVI, 84.
[9] Da sumforevw.
[10] Del 44 a. C.
[11]A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p.
201.
[12] 40 ca. - 104 d. C.
[13]Di John Webster (1575 - 1630)
[14]G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij p. 81.
[15] Cfr. Miles gloriosus
di Plauto l’ancilla paraninfa dice al Miles: "dum te obtuetur, interim
linguam oculi praeciderunt" (v. 1271) , mentre Acroteleuzia ti
guardava nel frattempo gli occhi le hanno tagliato la lingua.
[16] Chiare fresche e dolci
acque (v. 1) .
[17] Paideia, 1, p. 27 e nota 4
[18] T. Mann, Doctor
Faustus, p. 731.
[19] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p.
66.
[20]
F. Fellini, Intervista sul cinema, a cura di G. Grazzini, p. 114.
[21] Ha citato una sentenza di
Publilio Siro e un emisticho dell'Eneide (X, 284) .
[22] E’ ironico ndr.
[23] Leopardi, Zibaldone, 3455 - 3456.
[24] T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 117.
[25] K. Jaspers cita Confucio
in I grandi filosofi, p. 255.
[26] Del 1823.
[27]
Dall'articolo di P. Odifreddi Se in cattedra sale un genio in “Il Sole -
24 ore” del 13 gennaio 2002, p. 33.
[28]
Educazione e formazione culturale (del 1862), in Quale scuola?, p.
116.
[29] R: Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 98.
[30] P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 50.
[31] Nel 1760, quando il
ragazzino, nato nel 1749 aveva undici anni ndr.
[32]
Tolstoy, I ragazzi di campagna devono imparare da noi (del 1862) , in Quale
scuola? , p. 126.
[33] F. Nietzsche, Umano
troppo umano, II, p. 64.
[34] F. Nietzsche, La
nascita della tragedia, p. 56.
[35] M. Proust, Il tempo ritrovato, p. 228.
[36] Zibaldone 705.
[37] Con i favrmaka (v. 205) e il fivltron (v. 207) Andromaca allude ai
filtri e alle droghe delle maghe del mito e della letteratura: Circe, Calipso, Medea.
[38] S. Kierkegaard, Diario del seduttore, p. 75. La
citazione è tratta da Ovidio, Ars
Amatoria, II, 123 - 124. Bello non era ma bravo a parlare Ulisse e pure
fece struggere d'amore le dee del mare.
[39] E’ frugalità, parsimonia,
è il basso prezzo facile da pagare (eu\, tevloς) è la bellezza preferita dai veri
signori, quelli antichi, e incompresa dagli arricchiti che sfoggiano
volgarmente oggetti costosi.
[40] La visione dionisiaca del
mondo, p. 76.
[41] Nietzsche, Prefazione
alla seconda edizioni di La gaia scienza
(1886)
[42] T. Mann, Nobiltà dello spirito, p. 838.
[43] T. Mann, Nobiltà dello spirito, p. 813
[44] Cfr. Iliade, VI, 146:
"oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai;
ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche
quella degli uomini. (n. d. r.)
[45] Cfr. Odissea, XI, vv.
488 - 491. (n. d. r.)
[46] F. Nietzsche, La
nascita della tragedia, p. 33.
[47] F. Nietzsche, La
nascita della tragedia (1872) , p. 7 e p. 163.
[48] F. Nietzsche, Frammenti
postumi, Primavera 1888 - 14, p. 216.
[49] F. Nietzsche, Frammenti
postumi, Primavera 1888 - 14, p. 217.
[50] Annales, XVI, 18.
[52] Annales, XVI, 18.
[53] Pubblicato nel 1763.
[54] I Guermantes, (1920) . Trad.
it. , Torino, 1978, p. 534.
[55] M. Proust, I Guermantes, p. 96.
[56] M. Proust, I Guermantes, p. 448.
[57]F. Dostoevskij, L'idiota (del 1869) , p. 96 e p. 101.
giovanna tocco
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