venerdì 28 aprile 2017

Ifigenia. L'amore nel mare di Pesaro. II parte

chiesa sul mare, Vico Equense

Due giorni dopo, il 16 luglio, andai a Marabello per fare l’amore con Ifigenia. Come fui giunto alla spiaggia, la vidi distesa sopra un lettino: aveva la schiena puntellata e sollevata sui gomiti, la faccia rivolta all’acqua marina. La riconobbi dai capelli nerissimi che cadevano sulle spalle rotonde, lisce, abbronzate. Mi venne in mente la mamma quando nei primi anni Cinquanta, giovane ancora, bella, formosa, molto bruna di capelli e di pelle, mi faceva la grazia di portarmi al mare con sé e mi sembrava una dea che si degnava di accompagnare un bambino mortale, non buono né bello per giunta come avrebbe dovuto essere il figlio di tale creatura splendidissima, più divina che umana.
Ifigenia era con i genitori e davanti a loro non potevamo parlare né agire liberamente come non si poteva a Pesaro davanti alle zie, sicché aspettavamo il momento di poterci allontanare senza peccare di scortesia verso i due anziani che ci osservavano, benevolmente invero. Il matrimonio della ragazza stava andando in tanta e santa malora. L’attesa non troppo lunga era paziente in vista del premio che ci attendeva: lo chiamavamo la “borsa di studio” dovuta alla nostra bravura di giovani insegnanti studiosi. Le labbra della ragazza erano tese, gli occhi aperti pur nel sole abbagliante, i muscoli delle braccia, dello stomaco, delle gambe abbronzate, fremevano pronti a scattare come quelli di una puledra di ottima razza. Eravamo dunque pieni di brama amorosa, però sulla riva o nell’acqua marina del meriggio affollato non era possibile. Sicché ci incamminammo in cerca di un luogo adatto al nostro proposito bello. Lungo la strada costiera, su un lato, vedemmo una chiesa; guardandola ci facemmo piamente il nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, e dopo avere detto amen con devozione, notammo sull’altro lato un edificio prospiciente la spiaggia. Era grande, tetro e cadente sopra un giardino deserto recintato da una rete fitta di squarci. Eravamo in costume da bagno. Io mi ero portato dietro un telo per la schiena di Ifigenia, nel caso che avessimo trovato un luogo acconcio all’unione tanto attesa e desiderata. Un’unione sacra, una specie di ierogamia.
Al di là della rete però c’era uno spazio sporco di fogli anneriti, lattine, bottiglie, siringhe, stracci unti, ferri vecchi, resti di bivacchi immondi e altre cose inamene. Insomma un panorama di porcherie. La chiesa sull’altro lato della strada gettava un’ombra cupa dentro il lurido immondezzaio. Le diedi un’ultima occhiata e feci di nuovo il nome del padre.
“Verrai con me, pauroso gesuita?” fece Ifigenia. Apprezzai la citazione[1] che mi incoraggiò, e con allegria piena di gratitudine, risposi:
“Figurati! Andiamo e mettiamo a repentaglio le nostre vite: chi non è vile mi segua!” Risposi con enfasi.

La brama amorosa doveva essere insopprimibile e inarrestabile. Attraversammo quel prato tartareo facendo attenzione a non calpestarne la fioritura funesta, quindi giungemmo a tre gradini sbrecciati e forati che conducevano al primo piano dell’edificio che durante il ventennio fascista doveva essere stato una colonia marina. Con cautela superammo gli scalini e ci affacciammo sul piano. Lì dentro la confusione e la sporcizia erano ancora più grandi e spiacenti: bottiglie vuote, siringhe sporche di sangue, carte bruciate o insozzate, e cumuli di rovine dovunque: pezzi di muro, di soffitti caduti, di scale precipitate, cocci di latrine, di cucine, di mense: segni e figure di una catastrofe immane e non tanto lontana erano un po’ dappertutto.
A un tratto da uno di quelle macerie sbucò una piccola serpe nera che saettò per qualche metro sul pavimento, poi si infilò in un altro cumulo immondo. Ne sbucarono due sorci obesi, poi un terzo ferito forse dal serpentello o da una pantegana cannibale: sanguinava da un fianco che mostrava della carne scoperta, appena tagliata Si udivano gli acuti ululati di un cane provenire dall’ombra. Due amanti meno appassionati sarebbero fuggiti via da tali orrori per lo schifo e per la paura.
Ci incoraggiava del resto la vista della distesa marina al di là di uno squarcio del muro.
Si vedevano quattro candide vele portate velocemente al largo dal garbino sempre propizio al varo delle barche e al distacco rapido dalla costa affollata. “Scafi di imbarcazioni veloci accolgono il vento da poppa. Navighiamo secondo la rotta, secondo il destino, e non rivolgiamo la prua delle nostre vite contro l’onda del fato”, recitai con aria profetica e pure canzonatoria, ricordando alcuni versi delle Troiane[2] di Euripide.
Ifigenia applaudì ammirata. Non rinuncio mai a una citazione che possa rivelare la mia natura di studioso. E’ un test che infastidisce i cretini e me li tiene a dispettosa distanza. La ragazza invece si avvicinò e mi fece notare un gabbiano posato sull’aplustre di un barcone: agitava le ali per spiccare il volo nel vento. “Ottimo segno!”, le dissi, ma non ne ero proprio sicuro.
I segni mandati dagli dèi non sono mai chiari del tutto. Dobbiamo rifletterci sopra.



continua



[1] Cfr. J. Joyce, Ulisse, I capitolo Telemaco, la torre-
[2] Cfr. vv. 102-104.

1 commento:

Ifigenia CLVIII. Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare.

  Pregai il sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura. “Aiutami Sole, a trovare dentro questo lungo travagli...