chiesa sul mare, Vico Equense |
Due giorni dopo, il 16 luglio, andai a Marabello per fare
l’amore con Ifigenia. Come fui giunto alla spiaggia, la vidi distesa sopra un
lettino: aveva la schiena puntellata e sollevata sui gomiti, la faccia rivolta
all’acqua marina. La riconobbi dai capelli nerissimi che cadevano sulle spalle
rotonde, lisce, abbronzate. Mi venne in mente la mamma quando nei primi anni
Cinquanta, giovane ancora, bella, formosa, molto bruna di capelli e di pelle,
mi faceva la grazia di portarmi al mare con sé e mi sembrava una dea che si
degnava di accompagnare un bambino mortale, non buono né bello per giunta come
avrebbe dovuto essere il figlio di tale creatura splendidissima, più divina che
umana.
Ifigenia era con i genitori e davanti a loro non potevamo
parlare né agire liberamente come non si poteva a Pesaro davanti alle zie,
sicché aspettavamo il momento di poterci allontanare senza peccare di scortesia
verso i due anziani che ci osservavano, benevolmente invero. Il matrimonio
della ragazza stava andando in tanta e santa malora. L’attesa non troppo lunga
era paziente in vista del premio che ci attendeva: lo chiamavamo la “borsa di
studio” dovuta alla nostra bravura di giovani insegnanti studiosi. Le labbra
della ragazza erano tese, gli occhi aperti pur nel sole abbagliante, i muscoli
delle braccia, dello stomaco, delle gambe abbronzate, fremevano pronti a
scattare come quelli di una puledra di ottima razza. Eravamo dunque pieni di
brama amorosa, però sulla riva o nell’acqua marina del meriggio affollato non
era possibile. Sicché ci incamminammo in cerca di un luogo adatto al nostro
proposito bello. Lungo la strada costiera, su un lato, vedemmo una chiesa; guardandola
ci facemmo piamente il nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, e
dopo avere detto amen con devozione,
notammo sull’altro lato un edificio prospiciente la spiaggia. Era grande, tetro
e cadente sopra un giardino deserto recintato da una rete fitta di squarci.
Eravamo in costume da bagno. Io mi ero portato dietro un telo per la schiena di
Ifigenia, nel caso che avessimo trovato un luogo acconcio all’unione tanto
attesa e desiderata. Un’unione sacra, una specie di ierogamia.
Al di là della rete però c’era uno spazio sporco di fogli
anneriti, lattine, bottiglie, siringhe, stracci unti, ferri vecchi, resti di bivacchi
immondi e altre cose inamene. Insomma un panorama di porcherie. La chiesa
sull’altro lato della strada gettava un’ombra cupa dentro il lurido
immondezzaio. Le diedi un’ultima occhiata e feci di nuovo il nome del padre.
“Verrai con me, pauroso gesuita?” fece Ifigenia. Apprezzai la
citazione[1] che
mi incoraggiò, e con allegria piena di gratitudine, risposi:
“Figurati! Andiamo e mettiamo a repentaglio le nostre vite:
chi non è vile mi segua!” Risposi con enfasi.
La brama amorosa doveva essere insopprimibile e
inarrestabile. Attraversammo quel prato tartareo facendo attenzione a non calpestarne
la fioritura funesta, quindi giungemmo a tre gradini sbrecciati e forati che
conducevano al primo piano dell’edificio che durante il ventennio fascista doveva
essere stato una colonia marina. Con cautela superammo gli scalini e ci
affacciammo sul piano. Lì dentro la confusione e la sporcizia erano ancora più
grandi e spiacenti: bottiglie vuote, siringhe sporche di sangue, carte bruciate
o insozzate, e cumuli di rovine dovunque: pezzi di muro, di soffitti caduti, di
scale precipitate, cocci di latrine, di cucine, di mense: segni e figure di una
catastrofe immane e non tanto lontana erano un po’ dappertutto.
A un tratto da uno di quelle macerie sbucò una piccola serpe
nera che saettò per qualche metro sul pavimento, poi si infilò in un altro
cumulo immondo. Ne sbucarono due sorci obesi, poi un terzo ferito forse dal
serpentello o da una pantegana cannibale: sanguinava da un fianco che mostrava
della carne scoperta, appena tagliata Si udivano gli acuti ululati di un cane
provenire dall’ombra. Due amanti meno appassionati sarebbero fuggiti via da
tali orrori per lo schifo e per la paura.
Ci incoraggiava del resto la vista della distesa marina al
di là di uno squarcio del muro.
Si vedevano quattro candide vele portate velocemente al
largo dal garbino sempre propizio al varo delle barche e al distacco rapido
dalla costa affollata. “Scafi di imbarcazioni veloci accolgono il vento da
poppa. Navighiamo secondo la rotta, secondo il destino, e non rivolgiamo la
prua delle nostre vite contro l’onda del fato”, recitai con aria profetica e
pure canzonatoria, ricordando alcuni versi delle Troiane[2] di Euripide.
Ifigenia applaudì ammirata. Non rinuncio mai a una citazione
che possa rivelare la mia natura di studioso. E’ un test che infastidisce i
cretini e me li tiene a dispettosa distanza. La ragazza invece si avvicinò e mi
fece notare un gabbiano posato sull’aplustre di un barcone: agitava le ali per
spiccare il volo nel vento. “Ottimo segno!”, le dissi, ma non ne ero proprio
sicuro.
I segni mandati dagli dèi non sono mai chiari del tutto.
Dobbiamo rifletterci sopra.
continua
mi piace giovanna tocco
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