NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 21 aprile 2017

Ifigenia - L'amore nel mare di Pesaro. I parte

in Ungheria sul Balaton, 2011

La spiaggia di Pesaro
L’amore nell’acqua colore del vino


Il 14 luglio Ifigenia in forma radiosa venne a Pesaro per fare l’amore con me; non temeva più le crude zie che in questa fase invero l’accoglievano con urbanità e sembravano averla accettata con sollievo suo e mio.
Quel giorno di quell’estate lontana diversi decenni parlammo, senza fraintenderci, di noi e delle nostre letture, si giocò, si remò, si nuotò; poi, verso il tramonto, facemmo l’amore semi immersi nel mare colore del vino, ejpi; oi[nopa povnton.
La ragazza era piena di luce: scintillava sulla sabbia, rifulgeva sopra e dentro i flutti dell’acqua salata, brillava nell’aria dell’estate matura. Dopo il tramonto, mandava raggi di gioia nella notte serena musicata sommessante dal verso tremante dei grilli, rischiarata appena da uno spicchio di luna.
Alle sette di sera la spiaggia orientale era quasi deserta; sulle cabine, sull’umida sabbia, sulle sdraie ripiegate e addossate alle reste degli ombrelloni mietuti, sull’acqua del mare che aveva assunto il colore del vino, si stendevano lunghe le ombre di tutti gli alberghi che si ergevano allineati subito dietro la spiaggia dove li avevano edificati, pazzamente, per folle brama di lucro.
Ifigenia aveva un costume che con il color ocra metteva in risalto l’abbronzatura, e con le sue grinze evidenziava la compattezza liscissima della pelle di tale femmina umana che sorrideva in armonia con la bellezza della sera estiva e dell’universo artisticamente ordinato.
Quando, verso le otto, sulla rena e nell’acqua non c’era nessuno, Ifigenia disse: “Vieni, Gianni, andiamo a fare l’amore nel mare”.
La proposta mi piacque. Sentivo che eravamo vicini al culmine della nostra storia e che era il momento di fare le mosse speciali cui stimola il vertice cui seguirà la discesa o la caduta in luoghi sempre più bassi.
Pensai pure che fare l’amore in piedi, e nell’acqua del mare, ci avrebbe dato non solo uno strano piacere ma anche qualche scomodo e certe difficoltà; però, se non l’avessimo fatto nel tempo speciale e breve dell’acme amorosa, che presto sarebbe trascorsa e non sarebbe tornata, se non l’avessi fatto con quella ragazza superbamente e rapidamente nel fiore, forse in quella maniera non l’avrei fatto mai più. Entrammo nell’acqua che non era calda, anzi faceva accapponare la pelle: Ifigenia si stringeva al mio corpo, forse per trarne calore.
“Hai la pelle d’ochina” dissi per canzonare ed esorcizzare quel freddo. Ridemmo, poi, per scaldarci, nuotammo fino agli scogli antistanti la riva. Fare l’amore lì sopra non si poteva: il giaciglio era troppo scabroso. Dove non si toccava il fondo non era possibile per mancanza d’appoggio.
Allora tornammo verso la riva del tutto deserta. Il sole, tramontato mezz’ora prima dietro l’alta terrazza di un albergo sovrastante la sabbia, era riapparso a sinistra dell’edificio e aggiungeva un tocco di arancione al mare del resto piuttosto cupo e capace di mantenere segreto il rito amoroso che poteva iniziarci a nuove fasi del nostro rapporto.
Ci fermammo dove l’acqua arrivava alle spalle, a metà strada tra gli scogli scabri e la riva sabbiosa. Ci togliemmo i costumi.
L’acqua ci dava carezze lascive: senza difficoltà penetrai nella ragazza come un pesce boccheggiante e silenzioso.
Arrivato alla base del fianco sinistro dell’albergo follemente costruito sulla riva marina, il sole, sgonfio di luce e calore, sembrava una palla rossiccia buttata via da un figlio di consumisti cretini, un bambino idiota che stanco di giocarci, l’aveva bucata per spregio e buttata giù dall’alto edificio.
A un tratto l’aria immobile fu squarciata dall’urlo orrendo di un bagnino mezzo vecchio e matto, Dante, che venticinque anni prima paternamente mi aveva insegnato a nuotare, ma con il volgere delle stagioni era impazzito e quella sera latrava come un demone della mitologia inferiore contro l’impudicizia marina. Stavano fissi i suoi occhi di fiamma.
Ifigenia terrorizzata dall’urlo disumano dell’anziano furente stava per cadere sott’acqua ma evitò l’immersione totale afferrando il laccio di cuoio che lei stessa mi aveva legato al collo come simbolo di fedeltà vincolante.
L’avrei tagliato la notte tra il 12 e il 13 giugno dell’anno di mia salvazione 1981; la notte che il piccolo Alfredo morì orribilmente nell’orribile pozzo dell’orrendo spettacolo televisivo. Ma non fu per quella creatura brutalmente lasciata morire verso le tre di quella notte fatale che con un coltello unto e affilato, nella cucina piena di piatti sporchi della casa mia di Bologna, tagliai il vincolo oramai sfilacciato. Eros, il dio della gioia, era diventato da mesi il dio del dolore[1] e rendeva amari anche i pochi momenti del risicato piacere.
Quando l’ebbi in mano lo baciai tre volte, sputai per terra tre volte, poi lo gettai nella spazzatura dov’era finito il legame con Ifigenia. Compiuto il rito, alle prime luci dell’alba presi la bicicletta e pedalai su per la strada della Futa fino a Monghidoro. Intanto Alfredo era morto.
Ma questo lo vedremo più avanti, se Dio vorrà.
Nel luglio del 1979 il nostro legame era ancora piuttosto robusto e salvò Ifigenia dal cadere sotto la superficie scura del mare.
“Ti amo - disse - se non ci fossi tu, perderei l’equilibrio”.
“Io ci sarò, finché tu vorrai restare in piedi con me”.
Intanto il demente si avvicinava remando in posizione eretta, traghettatore orrendo di terrificante squallore.
Era molto agitato: tendeva in avanti e piegava indietro le braccia frenetiche. Sembrava dotato di un’energia smisurata, quasi ultraterrena, data l’età. Urlava in dialetto volendo significare che il mare provocato esige e infligge pene tremende. Già alquanto vecchio ma cruda e verde era la sua vecchiaia. Stavo per rispondergli. “Caròn, non ti crucciare”. Ma poi lo vidi come un cane alato, vorace, che agita le ali in cerca di preda. Ho sempre avuto paura dei cani che non poche volte mi hanno aggredito per farmi del male.
Perciò, senza rispondere ai latrati del mostro, ci rimettemmo in fretta e furia i costumi, quindi tornammo affannati verso la riva oscurata: il sole era già tramontato del tutto, l’umida notte stendeva le sue nere tenebre, e tutte le vie per le quali fuggimmo erano immerse nel buio.

CONTINUA



[1] Cfr. Apollonio, Argonautihe, IV, 64 dove la Luna rivolta a Medea definisce Eros “daivmwn ajlginoveiς”

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