in Ungheria sul Balaton, 2011 |
La spiaggia di Pesaro
L’amore nell’acqua colore del vino
Il 14 luglio Ifigenia in forma radiosa venne a Pesaro per
fare l’amore con me; non temeva più le crude zie che in questa fase invero
l’accoglievano con urbanità e sembravano averla accettata con sollievo suo e
mio.
Quel giorno di quell’estate lontana diversi decenni
parlammo, senza fraintenderci, di noi e delle nostre letture, si giocò, si
remò, si nuotò; poi, verso il tramonto, facemmo l’amore semi immersi nel mare
colore del vino, ejpi; oi[nopa povnton.
La ragazza era piena di luce: scintillava sulla sabbia,
rifulgeva sopra e dentro i flutti dell’acqua salata, brillava nell’aria
dell’estate matura. Dopo il tramonto, mandava raggi di gioia nella notte serena
musicata sommessante dal verso tremante dei grilli, rischiarata appena da uno
spicchio di luna.
Alle sette di sera la spiaggia orientale era quasi deserta;
sulle cabine, sull’umida sabbia, sulle sdraie ripiegate e addossate alle reste
degli ombrelloni mietuti, sull’acqua del mare che aveva assunto il colore del
vino, si stendevano lunghe le ombre di tutti gli alberghi che si ergevano
allineati subito dietro la spiaggia dove li avevano edificati, pazzamente, per
folle brama di lucro.
Ifigenia aveva un costume che con il color ocra metteva in
risalto l’abbronzatura, e con le sue grinze evidenziava la compattezza
liscissima della pelle di tale femmina umana che sorrideva in armonia con la
bellezza della sera estiva e dell’universo artisticamente ordinato.
Quando, verso le otto, sulla rena e nell’acqua non c’era
nessuno, Ifigenia disse: “Vieni, Gianni, andiamo a fare l’amore nel mare”.
La proposta mi piacque. Sentivo che eravamo vicini al
culmine della nostra storia e che era il momento di fare le mosse speciali cui
stimola il vertice cui seguirà la discesa o la caduta in luoghi sempre più
bassi.
Pensai pure che fare l’amore in piedi, e nell’acqua del
mare, ci avrebbe dato non solo uno strano piacere ma anche qualche scomodo e
certe difficoltà; però, se non l’avessimo fatto nel tempo speciale e breve dell’acme
amorosa, che presto sarebbe trascorsa e non sarebbe tornata, se non l’avessi
fatto con quella ragazza superbamente e rapidamente nel fiore, forse in quella
maniera non l’avrei fatto mai più. Entrammo nell’acqua che non era calda, anzi
faceva accapponare la pelle: Ifigenia si stringeva al mio corpo, forse per
trarne calore.
“Hai la pelle d’ochina” dissi per canzonare ed esorcizzare
quel freddo. Ridemmo, poi, per scaldarci, nuotammo fino agli scogli antistanti
la riva. Fare l’amore lì sopra non si poteva: il giaciglio era troppo scabroso.
Dove non si toccava il fondo non era possibile per mancanza d’appoggio.
Allora tornammo verso la riva del tutto deserta. Il sole,
tramontato mezz’ora prima dietro l’alta terrazza di un albergo sovrastante la
sabbia, era riapparso a sinistra dell’edificio e aggiungeva un tocco di
arancione al mare del resto piuttosto cupo e capace di mantenere segreto il
rito amoroso che poteva iniziarci a nuove fasi del nostro rapporto.
Ci fermammo dove l’acqua arrivava alle spalle, a metà strada
tra gli scogli scabri e la riva sabbiosa. Ci togliemmo i costumi.
L’acqua ci dava carezze lascive: senza difficoltà penetrai
nella ragazza come un pesce boccheggiante e silenzioso.
Arrivato alla base del fianco sinistro dell’albergo
follemente costruito sulla riva marina, il sole, sgonfio di luce e calore,
sembrava una palla rossiccia buttata via da un figlio di consumisti cretini, un
bambino idiota che stanco di giocarci, l’aveva bucata per spregio e buttata giù
dall’alto edificio.
A un tratto l’aria immobile fu squarciata dall’urlo orrendo
di un bagnino mezzo vecchio e matto, Dante, che venticinque anni prima
paternamente mi aveva insegnato a nuotare, ma con il volgere delle stagioni era
impazzito e quella sera latrava come un demone della mitologia inferiore contro
l’impudicizia marina. Stavano fissi i suoi occhi di fiamma.
Ifigenia terrorizzata dall’urlo disumano dell’anziano
furente stava per cadere sott’acqua ma evitò l’immersione totale afferrando il
laccio di cuoio che lei stessa mi aveva legato al collo come simbolo di fedeltà
vincolante.
L’avrei tagliato la notte tra il 12 e il 13 giugno dell’anno
di mia salvazione 1981; la notte che il piccolo Alfredo morì orribilmente
nell’orribile pozzo dell’orrendo spettacolo televisivo. Ma non fu per quella
creatura brutalmente lasciata morire verso le tre di quella notte fatale che
con un coltello unto e affilato, nella cucina piena di piatti sporchi della
casa mia di Bologna, tagliai il vincolo oramai sfilacciato. Eros, il dio della
gioia, era diventato da mesi il dio del dolore[1] e
rendeva amari anche i pochi momenti del risicato piacere.
Quando l’ebbi in mano lo baciai tre volte, sputai per terra
tre volte, poi lo gettai nella spazzatura dov’era finito il legame con
Ifigenia. Compiuto il rito, alle prime luci dell’alba presi la bicicletta e
pedalai su per la strada della Futa fino a Monghidoro. Intanto Alfredo era
morto.
Ma questo lo vedremo più avanti, se Dio vorrà.
Nel luglio del 1979 il nostro legame era ancora piuttosto
robusto e salvò Ifigenia dal cadere sotto la superficie scura del mare.
“Ti amo - disse - se non ci fossi tu, perderei
l’equilibrio”.
“Io ci sarò, finché tu vorrai restare in piedi con me”.
Intanto il demente si avvicinava remando in posizione
eretta, traghettatore orrendo di terrificante squallore.
Era molto agitato: tendeva in avanti e piegava indietro le
braccia frenetiche. Sembrava dotato di un’energia smisurata, quasi
ultraterrena, data l’età. Urlava in dialetto volendo significare che il mare
provocato esige e infligge pene tremende. Già alquanto vecchio ma cruda e verde
era la sua vecchiaia. Stavo per rispondergli. “Caròn, non ti crucciare”. Ma poi
lo vidi come un cane alato, vorace, che agita le ali in cerca di preda. Ho
sempre avuto paura dei cani che non poche volte mi hanno aggredito per farmi
del male.
Perciò, senza rispondere ai latrati del mostro, ci
rimettemmo in fretta e furia i costumi, quindi tornammo affannati verso la riva
oscurata: il sole era già tramontato del tutto, l’umida notte stendeva le sue
nere tenebre, e tutte le vie per le quali fuggimmo erano immerse nel buio.
CONTINUA
[1] Cfr. Apollonio, Argonautihe, IV, 64 dove la Luna rivolta a Medea
definisce Eros “daivmwn ajlginoveiς”
bellissimo. Giovanna Tocco
RispondiElimina