domenica 29 ottobre 2017

I classici in Thomas Mann. La morte a Venezia

Bjorn Andresen interpreta Tadzio
in Morte a Venezia di Luchino Visconti

I classici in Thomas Mann

conferenza che tengo a Roma nell’ambito linguistico dei lunedì avviati da Tullio De Mauro.
Proseguono con la direzione della moglie Silvana Ferreri.
Gli incontri si svolgono il lunedì, tolti i periodi di vacanza e le eventuali coincidenze con feste nazionali, presso la sede della Fondazione Leusso, in viale Regina Margherita 1 (portone d’angolo con via Salaria), IV piano. L’orario è 17-19.


La morte a Venezia 1912 - Der Tod in Venedig
Gustav von Aschenbach aveva un’immensa tenacia e volontà. Era convinto che tutto quanto esiste di grande, esiste come una sfida, e può diventare realtà nonostante ogni sorta di ostacoli (cfr. il De Providentia di Seneca: “ marcet sine adversario virtus (II, 4). La fermezza di fronte alle avversità per lui era non solo un patire ma anche un positivo trionfo
La figura di San Sebastiano è il simbolo di quest’arte.
Tutta la sua evoluzione era stata una metodica ascesa alla dignità oltre gli ostacoli del dubbio e dell’ironia. Cfr. il prevpon - decōrum degli Stoici.
A Venezia gli appaiono esistenze deformi e truffaldine come un finto giovinotto, un bellimbusto cadente che indossava indebitamente garrule vesti da ganimede. Prefigura la sua involuzione. Con la punta della lingua si leccava gli angoli della bocca.
La gondola gli evoca l’idea della morte, dell’ultimo viaggio con Caronte. Non paga l’obolo, rovesciando il paradigma mitico (cfr. Aristofane, Rane, 270 quando Dioniso dice a Caronte: “e[ce dh, twjbolwv, eccoti i due oboli)
La solitudine predispone alla bellezza ma anche all’assurdo e all’abnorme.
Nell’hotel des Bains dove approda nota un ragazzo sui 14 anni di una bellezza perfetta, dallo stile aureo, dalla grazia noncurante, come ritroveremo nella Chauchat di La montagna incantata.

E’ lo stile della sui neglegentia.
Cfr. il Petronio degli Annales di Tacito e la nova simplicitas del Satyricon o la sprezzatura dei convitati del conte zio di Don Rodrigo in I promessi sposi.

La sui neglegentia, la noncuranza di sé quale virtù suprema dello stile, viene attribuite dallo storico a questo elegantiae arbiter, maestro di buon gusto alla corte di Nerone, l'imperatore che: "nihil amoenum et molle adfluentiā putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset"[1].
Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam, praeferentia, tanto gratius in speciem[2] simplicitatis accipiebantur"[3] le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità.

Nel Satyricon, l’io narrante Encolpio si rivolge in distici elegiaci ai Catoni chiedendo loro di non guardarlo accigliati e di non condannare quest'opera novae simplicitatis (132, 15).

Gli occhi del ragazzo erano di uno strano colore grigio di alba - ed erano espressivi di rigore, disciplina, dignità.
La Cauchat con i suoi stretti occhi tra l’azzurro e il grigio e il verde, sopra i larghi zigomi (p. 133).

La bellezza sovrumana di quella creatura rimanda Aschenbach a Senofonte quando nei Memorabili ricorda che Socrate consigliava di astenersi con tutta la forza dai belli tw'n kalw'n ijscurw'" ajpevcesqai (III, 8).

Infatti non è facile che chi li tocca mantenga il buon senso (swfronei'n). Il bacio dato al bello punge come un ragno e inietta veleno.
Socrate avverte Senofonte di fuggire se vede un bello,
e a Critobulo che ha baciato il figlio di Alcibiade suggerisce di stare via per un anno, il tempo appena necessario perché tu possa risanarti dal morso (III, 14, movli" ga;r a]n i[sw" ejn tosouvtw/ crovnw/ to; dh'gma uJgih;" gevnoio).

La bellezza rende inverecondi, pensò Aschenbach (p. 96).
La cornice era la sordidezza truffaldina della città regale e pitocca (p. 97)
Il destino, un risucchio del destino (102) lo tiene a Venezia.

Cfr. l’eiJmarmevnh degli Stoici (moi'ra) la parte assegnata (meivromai, ho la mia parte), la parte guadagnata, meritata (mereo e mereor)

In Tazdzio l’anziano ammirava il bello in sé, incarnava un’idea rigorosa di bellezza e disciplina. La bellezza terrena suscita il ricordo dell’idea del bello che abbiamo visto nella pianura della realtà.
Gli viene in mente il Fedro di Platone con la cornice nel luogo ameno. Se vedessimo direttamente la divinità stessa, bruceremmo come Semele di fronte a Zeus.

Cfr. le Baccanti di Euripide:
Dioniso
Sono giunto, figlio di Zeus, a questa terra dei Tebani,
Dioniso, che un giorno la figlia di Cadmo mette al mondo,
Semele, fatta partorire dal fuoco folgorante (vv. 1 - 3)

Nella bellezza vediamo un riflesso del divino.
Ricorda che Socrate l’astuto corteggiatore dice che l’amante ejrasthv" è più divino dell’amato ejrwvmeno" poiché è entusiasta ejnqousiavzwn, il pensiero più dolce e canzonatorio che sia mai stato pensato, traboccante di tutta l’arcana voluttà del desiderio.

Palinodia di Socrate nel Fedro di Platone
La follia dell'innamorato è più saggia della saggezza del mondo, come quella della Pizia e dei poeti. C'è una pazzia che è alienazione volgare e porta alla possessività, ma una che è un dono degli dèi ed è una fortuna: “ ejpj eujtuciva/ th`/ megivsth/ para; qew`n hJ toiauvth maniva devdotai” (Fedro, 245c).
La pianura della realtà si trova fuori dall'Empireo: è un uJperouravnio" tovpo" (247c), un sito sopraceleste dove si trovano le idee: essenze che essenzialmente sono, senza colore, figura, toccabilità. A volte, per colpa dell'auriga che non riesce a controllare il cavallo nero, gli uomini cadono in terra e non tornano in cielo finché non siano ricresciute le ali che si possono riottenere mediante il ricordo delle idee.
Chi segue tali ricordi è un entusiasta. L'idea della bellezza è la più vivamente riprodotta nel mondo sensibile ed è particolarmente efficace nel risvegliare il ricordo

Aschenbach dunque abbraccia il delirio.
Gli viene in mente anche Giacinto che fu ucciso dal disco lanciato da Apollo e deviato da Zefiro rivale in amore di Apollo “che dimentico dell’oracolo, dell’arco e della cetra, non faceva che dilettarsi del bel fanciullo” (p. 115)
Nec citharae nec sunt in honore sagittae, Ovidio, Metamorfosi, X, 170)
Nel poema di Ovidio il disco rimbalza dalla terra sul volto del fanciullo che ripiega il capo come un fiore appassito
Apollo allora gli promette che lo canterà e che il ragazzo diventerà un fiore con su scolpiti i lamenti di Febo. Allora dal sangue nasce un fiore simile al giglio ma purpureo. Febo impresse sulle foglie i suoi lamenti, per cui il giacinto porta le lettere AI AI (X, 215). Sparta celebra ogni anno le feste giacinzie con grandi processioni.
“E sul fiore germogliato dal dolce sangue era scritto il suo compianto interminabile” (p. 115)

Il colera non lo fa scappare poiché “alla passione come al delitto non si addice l’ordine costituito” (p. 120).

Cfr. lo qumov" di Medea: " Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav, - qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn, - o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078 - 1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali"

Nello scompiglio, nelle calamità Aschembach vedeva la possibilità di nuovi vantaggi. Seguiva passo passo i cenni del demone che si diletta a calpestare sotto i piedi l’umana ragione e la dignità.
Comincia a delinearsi la storia di Penteo nelle Baccanti.
E’ attirato dal caos che poteva dargli dei vantaggi.
Poi fece un sogno che del futuro gli squarciò il velame.
Sente invocare il dio forestiero, e gli appaiono le Menadi forsennate, i Satiri, guidati dall’esotico avversario della calma e della dignità dello spirito, tra grida, baccano e il grave suono del flauto. Poi si scopre e si innalza enorme ligneo l’osceno simbolo. Segue un’orgia pazzesca, una copula scatenata con l’aggiunta dell’wjmofagiva.
Nelle Baccanti di Euripide del resto non c’è alcuna copula.
Da quel sogno Aschenbach si svegliò, definitivamente consegnato al demone. Si fa truccare da un linguacciuto parrucchiere come Penteo si lascia travestire da donna nella tragedia di Euripide

Dio. Indossa dunque sulla pelle vesti di lino finissimo.                               821
Pen. Che significa questo? Da uomo devo essere censito tra le donne?
Dio. Perché non ti uccidano se ti fai vedere là come uomo.
Pen. Ben detto anche questa volta: sei come uno sapiente da molto tempo!
Dio. Dioniso mi ha insegnato questo.                                                           825
Pen. Come dunque potrebbe avvenire quello che tu mi consigli bene?
Dio. Sarò io ad abbigliarti dopo essere entrato nel palazzo.
Pen. Quale abbigliamento? Forse da femmina? Ma la vergogna mi trattiene.
Dio. Non sei più bramoso di osservare le menadi?
Pen. Ma quale abbigliamento dici di mettere addosso al mio corpo?          830
Dio. Intanto distenderò lunga la chioma sul tuo capo.
Pen. E il secondo pezzo del mio ornamento?
Dio. Pepli lunghi fino ai piedi: e sul capo ci sarà la mitra.                                     
Pen. Oltre questo mi metterai addosso dell’altro?
Dio. Certo: un tirso in mano e una screziata pelle di cerbiatto.                   835
Pen. Non potrei indossare una veste femminile.
Dio. Ma tu verserai del sangue attaccando battaglia con le baccanti.
Pen. Giusto: bisogna prima andare in esplorazione.

"Adesso il signore può innamorarsi tranquillamente, gli fece, e il frastornato se ne andò in estasi confuso e tremante. Si era capovolto l’artista che aveva fustigato lo spirito zingaresco e la tenebra degli abissi.
L’artista cerca la bellezza e quando la trova ne resta sconvolto. Noi artisti siamo come le donne poiché è la passione che ci esalta. Noi poeti siamo attirati dall’abisso. A noi non è dato elevarci ma solo imbestiarci”.
Alla fine Asc vede Tadzio in acqua e gli parve di scorgere lo psicagogo (Ermes, Odissea XXIV), che staccava la mano dall’anca e accennava a un punto lontano e lo precedeva a volo verso benefiche immensità.
Quel giorno stesso un mondo reverente e attonito seppe della sua morte.




[1] Annales, XVI, 18.
[2] Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme liberata, "le negligenze sue sono artifici" (II, 18).
[3] Annales, XVI, 18.

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