sabato 14 ottobre 2017

Max Pohlenz, "La Stoa". Lettura commentata. XIX parte

Cicerone

La tradizione della scuola (p. 494)
Giasone, nipote di Posidonio, assunse la direzione della scuola di Rodi dopo la morte dello zio. Panezio e Posidonio avevano attaccato Crisippo, la colonna dell’ortodossia. Per esempio con l’universalità del sapere. Panezio diede valore alla conoscenza pura e la inserì tra le virtù cardinali come parte della frovnhsi", la virtù teoretica. Del resto anche le virtù pratiche avevano alcunché di teoretico.
Nel De legibus Cicerone utilizza la teoria stoica del diritto naturale. La giustizia non è altro che una manifestazione della vita secondo natura, una tesi che appare molto vicina alla definizione del fine della vita data da Antipatro.
Rispetto alla Stoà antica la quale pensava che l’uomo alla nascita è una tabula rasa con la disposizione a formare i concetti, Cicerone nel primo libro delle Leggi introdusse la variante che l’uomo venendo al mondo ha nella sua anima i concetti di tutte le cose, non chiari, tuttavia inchoatae, adumbratae intelligentiae, incompiute, ancora in ombra.
Ricordava forse la teoria platonica dell’anamnesi, il ricordo delle idee archetipe. Ma può averlo ricavato da Antipatro.
Posidonio e Panezio citavano spesso Platone che così fu studiato da tutti gli altri stoici. Catone poco prima di uccidersi aprì il Fedone.
Ci furono polemiche all’interno della Stoà, ma a questa scuola continuarono a volgersi quanti non trovavano appagamento nell’egoismo e nell’edonismo (511).
A Roma la retorica aprì la strada alla riflessione filosofica. La dialettica stoica con le sue definizioni precise e lasua sillogistica rigorosa apparve una sorta di oratoria compressa e fu considerata una propedeutica all’educazione retorica. Il retore più geniale è l’Anonimo Sul sublime. La magnanimità megalofrosuvnh trova la sua eco in uno stile sublime e solo l’oratore commosso dalle grandi cose che scrive può trascinare l’uditorio comunicandogli la sua commozione. Le suggestione posidoniane sono innegabili, soprattutto dove il sublime viene individuato nelle parole della Genesi: sia fatta luce e la fuce fu fatta.
Cicerone prese maggiori spunti dall’Accademia.

Il primato della Stoà nella filosofia p. 515 - 533
L’epicureismo fece meno proseliti.
La Stoà a Roma p. 535
I Romani erano alieni dal filosofare e piuttosto interessati agli scopi pratici. Legge suprema non era il sapere ma la volontà. Non qewriva (cfr. qeva, visione, vista) la contemplazione fine a se stessa era loro estranea. Lo scopo era l’utile. Si dedicavano con impegno ai doveri concreti senza sentirsi stimolati a risalire all’universale. Pensavano che su ogni azione vegliasse un dio e che bisognasse propiziarlo: dispensa, semina, raccolto. Sono gli dèi istantanei, tipo Rumīna, la deadell’allattamento.
 Dei non simili agli uomini e non fusi in una sola unità. I Romani avevano uno spiccato senso dell’ordine, della legge, della disciplina che li predispose al pensiero giuridico e alla creazione di quel diritto positivo che avrebbe fatto da modello a tutto l’Occidente. Nella legislazione si basavano su formulazioni giuridiche convalidate dalla prassi e conservate dagli editti del pretore. Alla formulazione del diritto contribuì la tradizione etica, ossia il mos maiorum.
In Grecia, un potente individualismo si ribellava al nomos che minacciavadi ostacolarlo, mentre a Roma anche i rivoluzionari si appellavano a leggi magari cadute in disuso.
I Gracchi dopo tutto volevano ripristinare la piccola proprietà agraria che stava scomparendo .
Un valore do cui erano orgogliosi i Romani era la pietas che riguardava i rapporti con la divinità, la famiglia, il prossimo. Poi la giustizia che insegnava a rispettare lo ius, poi la fides, la lealtà che fa nascere la fiducia, la laboriosià, la parsimonia, la semplicità, la capacità di resistere, non abbandonare il proprio posto in battaglia. Tale era la virtus e tale il vir.
Il vir bonus era tale per la virtus che assommava tutte le qualità.

Catone definì l’oratore vir bonus dicendi peritus (in Quintiliano, XII, 1)
Il cittadino doveva mettere le sue energie al servizio della res publica, un termine che si affermò intorno al 200 a. C
La moralità dell’azione si misura con il riconoscimento che ottiene dal popolo. Morale è quanto la collettività riconosce come honestum.
Il fine della virtus è ottenere gli honores, le cariche pubbliche che il popolo assegna a chi si è dimostrato ottimo fra gli uomini.
Tutto questo rimase finché i Romani non vennero a contatto con la grecità la quale diede loro i modelli della letteratura. I Greci mandarono cuochi, etere e anche molti pedagoghi, Sopravvenne una crisi spirituale. Atene l’aveva avuta 3 secoli prima. Le autorità prima indiscusse persero valore.
Dapprima sentirono il pericolo della filosofia: nel 173 furono cacciati due filosofi epicurei. Ma nel 155 Catone ascoltò Carneade il quale diceva che la politica estera dei Romani era fondta sull’ingiustizia. Poi però si adoperò per rispedirlo in patria con gli altri due: lo stoico Diogene e il Peripatetico Critolao.
I Romani per combattere la cavillosa dialettica degli altri pensatori greci scelsero la filosofia stoica che poteva fornire una base salda alle concezioni etiche tradizionali.

Per la positività dei Romani, il razionalismo della Stoà era la forma di pensiero più adatta. Era loro congeniale che nel mondo e nell’individuo regni la ragione, che una provvidenza divina abbia dato forma all’universo finalisticamente, che le singole divinità siano manifestazioni della divinità universale, che dèi e uomini formino insieme un’unica comunità naturale e che la virtus sia il compito della vita. Scoprivano che la virtus garantiva la vita beata, eujdaimoniva. Invece al romano ripugnavano le sottigliezze dialettiche e il dottrinarismo. Allora arrivò Panezio il quale trasformò la dottrina stoica in un’arte del vivere adeguata allo spirito occidentale (cfr. la socialdemocrazia rispetto al comunismo marxista, con Marx ebreo come Zenone).
Per giunta Panezio incontrò Scipione che univa la tradizione romana alla disposizione ad accogliere la cultura greca. Panezio insegnò a Scipione che la moralità è il compiuto sviluppo della natura umana universale e individuale. La tradizionale aspirazione romana al primato deve trasformarsi in megaloyuciva, una grandezza d’animo da porre al servizio della comunità. Ai Romani piacque lìideale della condotta basata sulla coerenza assoluta. Per loro il kalovn, il bello morale equivaleva all’honestum che comprendeva il desiderio degli honores.
Honestus è colui che con le sue caratteristiche morali e il suo operato merita gli honores. Poi il kaqh'kon che corrisponde a officium, quello che si deve fare di norma.
Tiberio Gracco seguiva Blossio scolaro di Antipatro, e l’antica teoria dell’uguaglianza degli uomini, mentre Panezio insegnava la santità della proprietà privata e contro Carneade difendeva l’imperialismo romano che però assicurasse il benessere dei popoli soggetti

Scipione fu per Panezio il modello dell’uomo perfetto, un uomo molto diverso da quello che era il vero romano secondo Catone: il contadino legato alla zolla.La sua sentenza forse più famosa è rem tene, verba sequentur, e mostra la preminenza data alla res, alla materia del discorso rispetto all’elocutio, alla sua realizzazione formale.


CONTINUA

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