martedì 17 ottobre 2017

Max Pohlenz, "La Stoa". Lettura commentata. XX parte

Lo Stoà di Attalo

Polibio scrisse di Scipione che aveva condotto la vita in perfetta coerenza e in piena armonia con se stesso. (p. 542)
Polibio XXXI 25 8: “Skipivwn kata; pavnta trovpon oJmologouvmenon kai; suvmfwnon eJauto;n kataskeuavsa" kata; to;n bivon” Scipione foggiando se stesso in ogni verso come accordato e armonioso nella vita, in circa cinque anni si creò la fama di uomo rigoroso e temperante .
Il circolo era formato da Scipione, Panezio, Lelio detto sapiens, i suoi generi Gaio Fannio e Quinto Muzio Scevola l’Augure, Quinto Elio Tuberone, nipote di Scipione, Publio Rutilio Rufio, e Scevola il Pontefice, nipote dell’Augure. Poi altri come Spurio Mummio, Furio Filo, e il giurista Marco Manilio. Il poeta Lucilio era vicino a questo circolo e scrisse che la virtus consiste nel potere giudicare rettamente il valore delle cose pretium persolvere verum quis in versamur, quis vivimus rebus potesse e nel sapere che cosa è bene, giusto, utile, onesto, e che cosa è male
Virtù è mettere al primo posto gli interessi della patria, poi quello dei genitori e al terzo i nostri. Riflette anche lui lo spirito di Panezio. Essere nemico degli uomini cattivi e sostenitore dei buoni.
Commoda praeterea patriai prima putare,
deinde parentum, tertia iam postremaque nostra. (Esametri).
La teologia delle persone colte si separò dalla religione della massa per la quale il Pontefice Scevola difese la religione di Stato.
Del resto accettò la teologia tripartita di Panezio
Scevola il Pontefice trattò tutto lo ius civile in un’opera di 18 libri
Accanto allo ius civile si era formato lo ius gentium che regolava i rapporti giuridici con gli stranieri. L’eterna legge del logos degli Stoici suggerì ai Romani la dottrina del diritto naturale fissato dalla natura razionale per tutti gli uomini. Da questo diritto naturale presero le mosse i giuristi dell’età imperiale. Ulpiano (170 - 228) si differenziò estendendo il diritto naturale a tutti gli esseri viventi: “ Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientiaDig. I, 1, 10).
 Ulpiano è uno dei cinque giuristi che hanno avuto più considerazione nel periodo imperiale. Inoltre, le sue opere furono ampiamente impiegate nella redazione del Digesto di Giustiniano.
Contro la difesa della lettera della legge fatta da Scevola, l’oratore Crasso propugnava l’aequitas che si affermò dando vita alla massima summum ius summa iniuria. Già nell’Heautontimorumenos: “ius summum saepe summast malitia”IV, 5, v. 796). Lo dice lo chiavo Siro a Cremete.
Il sentimento etico deriva dalle suggestioni della Stoà.
Cicerone nel De officiis scrive che nascono dei torti da cavilli (calumnia) e da una troppo scaltra ma capziosa interpretazione della legge: summum ius summa iniuria (I, 33).

La Stoà influì anche sulla linguistica. Il latino non aveva ancora una forma definitiva e anche motivi pratici portavano a riflettere sulla morfologia e l’ortografia. Fondatore della linguistica latina fu considerato Lucio Elio Stilone che ebbe tra i discepoli anche Varrone e Cicerone. Stilone subì l’influenza di Panezio. Cercò una posizione conciliativa tra l’analogia e l’anomalia.
Varrone nel De lingua ltina (su 25 libri abbiamo i libri dal V al X con molte lacune) parteggiò per l’analogia. Ci sono arrivati anche i tre libri del De re rustica.
La grammatica scolastica risale al 100 a. C. la tradizione alessandrina, cioè l’analogia a poco a poco prevalse.
 La stoà offrì un aiuto nel momento della crisi morale. Chi non trovò rifugio nelle religioni orientali fece appello alla filosofia. Catone aderì ostentatamente allo stoicismo.
Il suo nipote e genero Bruto non ne approvò il suicidio. Ma poi si suicidò anche lui. Giustificò il proprio suicidio citando un distico di una tragedia di Euripide, dei versi pronunciati da Eracle:
w\ tlh'mon ajrethv, lovgo" a[r j h\sq j a[llw", ejgw, de; se
wJ" e[rgon h[skoun: su; d j a[r j ejdouvleue" tuvch/ (Cassio Dione, Storie, 47, 49), o misera virtù, non eri altro che un nome, mentre io ti perseguivo come un fatto reale; ma tu eri asservita al caso
 La virtù che egli avrebbe voluto attuare agendo era solo un vuoto nome, una schiava della Tuvch.
Cfr. Leopardi, Bruto minore del 1821: “stolta virtù” v. 16
Varrone seguì in sostanza la Stoà. Nelle Antiquitates rerum humanarum et divinarum prese da Scevola la trilogia tripartita di Panezio: c’è la religione dei poeti, quella naturale e razionale dei filosofi e quella politica e civile utile per il governo.
 Da Posidonio, Varrone aveva appreso la legge della degenerazione e da buon laudator temporis acti la utilizzava per mettere in bella luce la Roma antichissima. Già Posidonio aveva rilevato che anche presso i Romani antichi, come presso gli Ebrei, c’era un culto aniconico e Varrone asserisce con prove che Tarquinio Prisco per la prima volta nell’anno 170 di Roma aveva commissionato a un artista etrusco una statua di Giove.
Nelle Satire Menipee di Varrone il tema più diffuso è la nostalgia del buon tempo antico. La sua teologia è il panteismo stoico. Citò Posidonio: Dio è il pneuma dotato di ragione che compenetra tutto l’essere. Per i Romani può essere Iuppiter, il dio che raccoglie in sé tutti gli spermatikoi; lovgoi, i germi di tutte le singole cose future. Questo non esclude la fede popolare.
Varrone fu un erudito, non un filosofo, ma oome Erudito influenzò la cultura romana e le Antiquitates divinae si imposero come l’opera classica sulla religione, tanto che autori cristiani come Tertulliano e Agostino lo considerarono un’autorità nel campo della teologia romana.
Cicerone da giovane a Roma seguì Filone che lo conquistò allo scetticismo dell’accademia, poi nel 79 seguì ad Atene le lezioni di Antioco e si convertì alla sua filosofia

Antioco di Ascalona (Άντίοχος Ascalona, 120 a.C.Siria, 67 a.C.) di origine siriana, è considerato il fondatore della cosiddetta Quinta Accademia.
Discepolo e avversario di Filone di Larissa, ultimo scolarca dell'Accademia di Atene, ma anche di Dardano e Mnesarco, entrambi seguaci dello stoicismo, insegnò ad Alessandria d'Egitto, in Siria e ad Atene, dove ebbe come allievo attorno al 79 a.C. Cicerone, grazie al quale parte delle sue dottrine è giunta fino a noi.
Antioco si stacca nettamente dalla corrente scettica, che aveva caratterizzato l'Accademia platonica fin dai tempi di Arcesilao, grazie ad una teoria della conoscenza a base prevalentemente sensistica, certamente influenzata dallo stoicismo, ma che, attraverso una mediazione aristotelica, si ricongiunge alla dottrina platonica delle idee. L'etica di Antioco, invece, pur partendo da una base terminologica stoica, si avvicina più alle dottrine peripatetiche confutando la tesi stoica dell'autosufficienza della virtù.

Cicerone è un eclettico e sullo Stato segue il modello platonico, non senza quello polibiano. Per i problemi concreti del presente ricorreva a Panezio.
Per esempio che la base dello Stato non è lo ius formale ma la iustitia fondata sullo ius naturale. Solo l’uomo politico che opera per il bene del suo popolo realizza la virtus suprema che sopravvive alla morte.
Nel 45 gli morì la figlia Tullia e l’oratore trasse conforto dalla filosofia; per giunta costretto alla inattività, pensò di servire il suo popolo presentando la filosofia greca in veste latina. Si rendeva conto infatti di non essere un filosofo creativo. Né voleva legarsi a un sistema dogmatico. Voleva iniziare i Romani alla filosofia, Procedeva con metodo eclettico, scegliendo volta per volta. Riabilitò l’Accademia nuova di Carneade e Filone. Escluse invece l’epicureismo il cui edonismo e utilitarismo gli ripugnavano e pure il quietismo che rifiutava ogni servizio prestato alla società. Rifiutò il rigorismo e l’astrattezza della Stoà.
Nel secondo libro del De natura deorum, Cicerone espone la teoria paneziana della pronoia che ha dato forma perfetta a tutto il cosmo.
Nella mantica Cicerone vedeva poco più che una superstizione : nel De natura deorum (I, 71) scrive che un aruspice non può incontrare un altro aruspice senza ridere.
 eujdoxiva Cruciali sono i versi con i quali Andromaca accusa i Greci di essere loro i veri barbari: “w\ bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav - tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion; (eziologia - discorso sulle cause764 - 765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di niente? Ammazzare un bambino per paura di suo padre è la viltà e la barbarie più grande che ci sia.

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