sacrifici che non abbiamo permesso ci venissero addossati dal ludico, alquanto ridicolo dominus già tramontato. Costui era un magister ludi che ci ha fatto anche ridere con i suoi innumerevoli cachinni,
non sine candidis et nigris puellis.
Ora si mette di nuovo in gioco.
Questi sdegnosi servitori della finanza, se pure negano di averci spremuto sangue con lacrime, di sicuro non ci hanno fatto ridere. Siedono freddi nell’ombra fredda, molti uccelli giacciono spennati ai loro piedi.
Uccelli piccoli e deboli del resto. Mi sembra dunque il momento di passare in rassegna pregi e difetti, elogi e biasimi della democrazia, il regime che si fa derivar dalla costituzione e dal governo di quel grande e vero signore che fu Pericle.
Finché questo stratego visse, ad Atene vigeva un’aristocrazia con il consenso della massa, secondo la
definizione data da Aspasia nel Menesseno di Platone (238d). Inoltre questo governo era un regime educativo, tale che non escludeva nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei
padri; e neppure preferiva alcuno per i motivi contrari. Chi era reputato saggio e onesto, otteneva il consenso e le cariche. Questo era possibile poiché i cittadini nascevano uguali, ossia con le medesime possibilità di sviluppo.
Aspasia compose tale discorso encomiastico perché venisse recitato da Pericle, secondo Socrate.
Infatti gli stessi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia dal grande stratego ateniese nel discorso che Tucidide gli fa pronunciare, in encomio dei caduti nel primo anno di guerra, e in elogio di Atene, la scuola dell’Ellade. Vediamo alcune frasi iniziali del lógos epitáfios di Pericle: “In effetti ci avvaliamo di una costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia: per legge c’è una condizione di uguaglianza per tutti, e uno viene preferito alle cariche pubbliche, secondo la reputazione, per come viene stimato in qualche campo, non per il partito di
provenienza più che per il suo valore; né d’altra parte, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale” (Storie, II, 37, 1).
In altre parole nessuno era avvantaggiato, né svantaggiato per il partito da cui proveniva, né alcuno
veniva inceppato dalla povertà o dalla modesta posizione sociale, se poteva fare qualche cosa di buono per la comunità. Questo principio sacro, attualmente profanato, si trova altresì nell’articolo 3 della Costituzione italiana.
I nostri padri costituenti, che sicuramente avevano letto Tucidide, stabilirono che “Tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Entrambe le costituzioni ricordate evidenziano il fatto che se non c’è l’uguaglianza, non c’è vera libertà. Lo ripeterà Giacomo Leopardi nello Zibaldone (923). Di certo questi tecnocrati, banchieri e finanzieri vari, non si sono adoperati in favore dell’uguaglianza e delle pari opportunità per tutti, condizioni senza le quali non c’è vera democrazia.
Dopo l’encomio, sentiamo alcune opinioni contrarie al regime celebrato da Pericle.
Severo critico della democrazia demagogica, radicale e sfrenata, è Platone che nell’VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà di questa politeia che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi si vanta di essere amico del popolo. E’ una costituzione anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (558c). In questo passo c’è l’idea che l’uguaglianza imposta a persone diverse e disuguali sia opera di un regime privo di giustizia.
Può sembrare un’idea elitaria e reazionaria, ma la presenta anche Don Milani, in un contesto tutt’altro che elitario: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”.
Le commedie di Aristofane mettono in rilievo e in ridicolo l’impudenza dei demagoghi succeduti a Pericle,
in particolare quella di Cleone, e la parzialità del tribunale popolare dell’Eliea che avrebbe perseguitato i ricchi e i nobili. Come con Berlusconi c’è stata la psicosi del comunismo, allora c’era la fobia della tirannide.
Diffuse, entrambe, per coprire malaffare e malefatte.
Per esempio: se uno voleva comprare degli scorfani, il venditore di sardelle che non li aveva, accusava
l’appassionato di scorfani di volerne fare provvista per la tirannide (Vespe, 495). Se uno chiedeva una cipolla per condire le alici, l’ortolana, sprovvista di cipolle, gli domandava minacciosamente se voleva una cipolla per la tirannide (498). Sicché gli Eliasti, i giudici popolari, che valutavano in modo arbitrario tali denunce assurde, erano corteggiati e lusingati da tutti.Una critica più seria, sostenuta da diversi autori (oltre Platone, Isocrate, Aristotele, Senofonte, lo Pseudosenofonte, Polibio) sosteneva che il demos (popolo) non voleva sottostare alla legge e che il suo krátos (potere) in realtà era una forma di strapotere svantaggioso per le persone educate e abbienti. La demokratía ateniese, secondo il giurista Guido Fassò, era una specie di dittatura del proletariato molto prima di Lenin.
Tucidide fa l’elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa
lasciandola libera, ma non si faceva condurre più di quanto la conducesse lui (II, 65, 8). Morto Pericle nel 429, però le cose cambiarono in peggio. Dopo la battaglia delle Arginuse (del 406) il popolo voleva condannare a morte gli strateghi che pure vincitori, non avevano salvato la flotta e molti marinai dal
naufragio.
La proposta era illegale in quanto non prevedeva di distinguere, secondo la legge, le responsabilità
individuali degli accusati. Durante il processo ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa era stato inoculato il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva (Senofonte, Elleniche, I, 7, 12). E’ questa la formula che caratterizza la degenerazione della democrazia secondo Polibio il quale sostiene che non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, lo è quella politeia presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi. Quando prevale il parere dei più, allora possiamo parlare di democrazia (Storie, 6, 4, 4).
Nel 2012 il parere del popolo, di tutto il popolo sul governo del paese, non è mai stato richiesto, e
quest’anno in Italia non c’è stata democrazia. L’apparenza ha coperto e violentato la verità, come altre volte nella storia, e la sbandierata giustizia è stata, di fatto, l’utile dei più ricchi.
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it