Remo Bodei
Generazioni
Età della vita, età delle cose.
Editori Laterza, Roma-Bari 2014.
Terza parte
(Ereditare e restituire),
secondo capitolo, pp. 85-90
“Le cose
materiali, passate attraverso il lavoro umano, sono cariche di
simboli immateriali (personali, familiari e sociali) che vengono
trasmessi e rielaborati attraverso le generazioni)”. (p. 85)
Di questi oggetti
carichi di significati non mancano esempi in letteratura: si può
pensare al letto costruito da Ulisse. Per Penelope il segno certo di
riconoscimento
(shvmat'
ajrifradeva)
non è, come per Euriclea, la cicatrice
, ma il loro letto matrimoniale.
“Anche in
questo senso, vale la massima espressa da Goethe nel Faust,
secondo cui “ciò che hai ereditato dai padri, conquistalo per
possederlo”.
La menzione dei
Ricordi
di Marco Aurelio con l’indicazione dei primi 17 come “esemplari”
mi ha spinto a ricordarne alcuni.
Vediamoli poiché
sono belli e molto educativi.
Dalla madre
Domizia Lucilla, il figlio diventato imperatore ricorda di avere
ricevuto la volontà di astenersi non solo dal commettere cattive
azioni ma anche dal pensarle, inoltre la semplicità nel tenore di
vita (to; lito;n
kata; th;n divaitan) e a tenersi
lontano dal modo di vivere dei ricchi (kai;
povrrw th̃ς
plousiakh̃ς
diagwgh̃ς, 3)
Dal precettore,
Marco Aurelio ha imparato a non tifare per gli aurighi verdi o per
gli azzurri, né per i gladiatori armati di scudi piccoli o grandi, e
la resistenza alle fatiche (kai;
to; ferevponon) e l’avere
bisogno di poco (kai;
to; ojligodeevς). Poi la
capacità di fare il proprio lavoro, il non immischiarsi nelle
faccende altrui e non accogliere le calunnie (5).
Da Sesto di
Cheronea, filosofo stoico nipote di Plutarco, il principe ha
imparato, tra l’altro, la benevolenza (to;
eumenevς), e la concezione del
vivere secondo natura (kai;
th;n e[nnoian toũ
kata; fuvsin zh̃n)
e la dignità senza pose (to;
semno;n ajplavstwς),
l’attenzione nei confronti degli amici non priva di premura (kai;
to; stocastiko;n tw̃n
fivlwn khdemonikw̃ς)
e la tolleranza nei confronti degli incolti e di chi fa supposizioni
senza esame. In fondo alla lunga lista c’è to;
polumaqe;ς
ajnepifavntwς,
una vasta cultura senza ostentazione (9).
Il maestro
Frontone
gli ha fatto capire oi{a
hJ turannikh; baskaniva kai; poikiliva kai; uJpovkrisiς,
qual è l’invidia, la doppiezza e l’ipocrisia del tiranno e come
in generale “questi chiamati da noi nobili sono in un certo senso
i più anaffettivi” (oiJ
kalouvmenoi ou|toi par j hJmĩn
eujpatrivdai ajstorgovteroiv pwς
eijsiv, 11).
Dal consuocero
Severo, Marco Aurelio ha imparato ad amare la famiglia, la verità e
la giustizia (to;
filovkeion kai; filavlhqeς
kai; filodivkaion)
Questo maestro
gli ha fatto conoscere gli oppositori dei tiranni, quasi tutti
martiri per la libertà: Trasea Peto, Elvidio Prisco, Catone
l’Uticense, Dione di Siracusa e Bruto. Quindi l’imperatore ha
concepito l’idea di un governo democratico, retto con il criterio
della uguaglianza e della libertà di parola e ha pensato a un regno
che rispettasse sopra tutto la libertà dei sudditi (kai;
basileivaς
timwvshς
pavntwn malvista th;n ejleuqerivan tw̃n
ajrcomevnwn, 14).
Dal filosofo
stoico Claudio Massimo, l’imperatore ha imparato, tra l’altro,
to; krateĩ̃n
eJautoũ , il dominio di se
stesso, la serenità (to;
eu[qumon) in tutte le circostanze
e specialmente nelle malattie, un buon equilibrio di dolcezza e
maestà nel carattere, il non stupirsi né turbarsi (to;
ajqauvmaston kai; ajnevkplhkton),
e il dare l’idea di un uomo piuttosto retto che corretto (kai;
to; ajdiastrovfou mãllon
h} diorqoumevnou fantasivan parevcein, 15)
Dal padre
adottivo Antonino Pio, il figlio ha imparato (16) la mitezza e la
perseveranza piva di fluttuazioni (to;
h{meron kai; menetiko;n ajsaleuvtwς),
la mancanza di vanagloria nei confronti di quelli che sono
considerati onori, l’amore per il lavoro e la perseveranza; la
disponibilità ad ascoltare (to;
ajkoustikovn) chi può
contribuire al bene comune e il desiderio di distribuire a ciascuno
imparzialmente secondo il merito (kat
j ajxivan), quindi la proibizione
della pederastia, il bastare a se stesso in ogni occasione e la
serenità (kai;
to; au[tarkeς
ejn panti; kai; to; faidrovn),
l’insofferenza delle acclamazioni e di ogni specie di adulazione
rivolta alla sua persona, la tolleranza delle critiche sulla sua
amministrazione, l’assenza di superstizione nei confronti degli
dèi, del desiderio del favore popolare e il rifiuto di
atteggiamenti ossequiosi o adulatori nei confronti della folla, e
invece la presenza della sobrietà in tutto e della fermezza ( ajlla;
nh̃fon
ejn pãsi
kai; bevbaion) e in nessun caso
mancanza di gusto e smania di innovazioni (kai;
mhdamoũ
ajpeirovkalon mhde; kainovtomon).
E poi: il sapersi
servire senza superbia ma anche senza scuse dei beni che rendono più
comoda la vita e di cui la fortuna sia stata generosa, in modo da
trattarli senza affettazione quando ci sono, e non sentirne la
mancanza quando non ci sono (w[ste
…ajpovntwn
de; mh; deĩsqai).
Da Antonino Pio inoltre Marco Aurelio ha preso l’affabilità (e[ti
de; to; eujovmilon) e la cortesia
non stucchevole ( kai;
eu[cari oij katakovrwς). Poi gli
è stata esemplare la giusta cura che il padre adottivo si prendeva
del corpo senza essere uno che ricorre alla cosmesi e nemmeno si
trascura, ma si comporta con attenzione nei propri confronti in modo
da avere bisogno il meno possibile bisogno della medicina, o di
farmaci e impiastri. Poi Antonino Pio gli ha insegnato a cedere il
passo senza invidia agli specializzati nell’oratoria o nella
conoscenza delle leggi o in altri campi, e ad aiutarli perché ognuno
avesse il riconoscimento adeguato ai suoi pregi. Inoltre la fermezza
priva di agitazione, la resistenza al male: dopo dei culmini di mal
di testa, Antonino Pio tornava subito e vigorosamente alle
occupazioni abituali; poi gli ha insegnato a non avere molti segreti
(polla; ta;
ajporrhta),
anzi pochissimi e limitati agli
affari di Stato, inoltre la prudenza e la moderazione nel concedere
spettacoli e nell’intraprendere opere pubbliche e nelle
elargizioni. Le sue decisioni venivano prese con ponderazione, con il
beneficio del tempo, senza confusione né disordine, con forza e
coerenza (16)
Infine i doni
ricevuti dagli dèi (17).
“Dagli dèi
avere avuto buoni nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni
maestri, buoni compagni, parenti, amici, più o meno tutti, e non
essere scaduto a comportarmi male con nessuno di loro, nonostante il
mio carattere per cui avrei potuto farlo”.
Credo davvero che
dovremmo essere riconoscenti al nostro gevnoς
per le qualità mentali e fisiche che ci ha trasmesso. C’è stata
una tendenza a sottovalutare l’ereditarietà, eppure una parte non
piccola del nostro percorso, delle nostre scelte è predisposta fin
dalla nascita. Se non ci viene dai genitori la parte innata, verrà
dai nonni, o dai bisnonni, o dagli zii o dai prozii. Poi di sicuro
conta molto l’educazione che riceviamo, gli ambienti che
frequentiamo e le esperienze che facciamo, ma anche queste le
cerchiamo in base al carattere, il daivmwn
che abbiamo fin dalla nascita, o per averlo ereditato o per averlo
scelto, come si legge nel mito di Er della Repubblica
di Platone. Certo è che tra tutti gli impulsi ereditati dai
“maggior nostri” dobbiamo fare una scelta.
Quindi Marco
Aurelio ricorda un altro aspetto della buona educazione ricevuta dal
padre adottivo che gli ha insegnato a vivere senza lussi e apparati,
ma quasi come un privato cittadino, pur senza perdere la dignità e
trascurare i doveri che spettano a un sovrano. Quindi la gratitudine
verso il fratello adottivo Lucio Vero con il quale condivise il
potere per alcuni anni.
Poi la nascita di figlioli non incapaci né storpi. Per questo buon
risultato andrebbe ringraziata anche la madre dei figli ben riusciti.
Comodo del resto non ha avuto questa reputazione. Marco Aurelio
considera una grazia del cielo anche il non avere fatto progressi
maggiori nella retorica, nella poesia e negli altri studi nei quali
forse si sarebbe fermato se si fosse accorto di progredire con
facilità. Comunque il principe è contento di avere manifestato
riconoscenza ai suoi educatori prevenendo i loro desideri con
l’elevarli alle cariche.
In effetti è
molto grande anche l’influenza della scuola sul nostro sviluppo e
gli educatori bravi ci hanno fatto da altri padri e da altre madri e
ci hanno lasciato eredità cospicue.
Gli dèi hanno
influito direttamente su Marco Aurelio perché vivesse kata;
fuvsin, secondo natura, che poi
per l’uomo equivale a vivere secondo ragione, e se lui non ci è
sempre riuscito, la colpa (aijtiva)
è soltanto sua.
Altro motivo di
gratitudine è il fisico ricevuto, un sw̃ma
capace di tenere duro (ajntisceĩn)
in una vita così piena di carichi. Inoltre è contento di non essere
soggiaciuto alla passione amorosa e insomma non avere fatto niente di
serio di cui doversi pentire.
L’imperatore è
grato agli dèi anche perché gli hanno dato la possibilità di
vivere con la madre gli ultimi anni di lei, morta purtroppo giovane.
Poi per avere potuto aiutare i bisognosi senza che nessuno lo
biasimasse, e per non essere stato bisognoso lui stesso
Finalmente
compare la moglie Faustina con il suo essere docile (to;
ei\nai peiqhvnion)
affezionata (filovstorgon)
semplice (ajfelh̃).
Poi i rimedi per
la salute suggeriti dai sogni.
E’ stato un
bene anche non avere avuto per maestro un sofista e non avere
intrapreso studi inutili e non congeniali alla sua natura (analisi di
opere letterarie, sillogismi, interpretazione di fenomeni celesti).
La conclusione di
questo ringraziamento sul quale mi sono soffermato per gratitudine
verso questo mio antico maestro è “pavnta
ga;r taũta
qew̃n
bohqw̃n
kai; tuvchς
deĩtai”
, tutti questi beni sono dovuti agli aiuti degli dèi e alla
fortuna.
Ma torniamo a
Generazioni.
Le cose ereditate
dagli antenati possono aggiungere significati alla nostra vita o
per lo meno chiarirli.
Gli spostamenti
delle famiglie o degli individui da una città a un’altra, o magari
perfino da un continente a un altro, può offuscare “il senso di
appartenenza alle proprie origini” (p. 86). Un fatto che
indebolisce la coscienza di sé.
“Cambia allora
anche la percezione qualitativa del tempo: ci si sottrae alle
“memorie di pietra” della casa in cui gli antenati o i genitori
hanno trascorso la loro esistenza (…) e si finisce per ammettere,
mentalmente ed emotivamente, che qualche altro possa occupare quei
luoghi che eravamo abituati a ritenere nostri” (p. 86).
Nell'Eracle
di Euripide (vv.337-338), Megara
minacciata di morte con i figli dal tiranno Lico ordina ai bambini di
seguirla :"patrw'/on
ej" mevlaqron, ou| th'" oujsiva"- a[lloi kratou'si,
to; d j o[nom j e[sq& hJmw'n e[ti",
nella casa paterna della quale altri hanno la proprietà, ma il nome
è ancora nostro.
Può
succedere che andando nel paese dove sono sepolti i nostri avi
troviamo tracce del loro passaggio in quella terra dalla quale noi
magari viviamo lontani. Quando si tratta di un edificio o di terre
che, passati ad altri, conservano ancora il nostro nome, sentiamo che
quelle mura e quelle zolle hanno qualche cosa di sacro per noi. Come
le tombe dove giacciono i nostri antenati.
E
anche se sono palazzi o case in rovina, ai nostri occhi quelle
rovine rimangono vive poiché portano impresso il ricordo della gente
cui apparteniamo.
“Anche
materialmente, le cose tramandate, rifulgono della gloria dei
materiali forniti dalla natura e lavorati dagli uomini” (p. 87)
“Vi è una
sorta di translatio imperii
che fa sì che i beni trasmessi per via ereditaria circolino e che-a
causa della loro natura inorganica-la loro esistenza continui anche
dopo la morte di chi li possedeva. Attraverso i testamenti essi
diventano un possesso di cui, nel corso delle generazioni, si può
godere a turno”
(p. 88).
La natura
inorganica di queste cose consente loro una vita più lunga della
nostra individuale, eppure le impronte che esse conservano delle vite
che hanno preceduto e consentito la nostra, rendono in qualche modo
più lungo il tempo pur troppo breve della nostra vita organica.
Una sentenza di
Seneca ci consola della brevità della vita confutandone la verità,
o per lo meno relativizzandola: “vita,
si uti scias, longa est”,
la vita, se sai farne uso, è lunga. Ebbene, un modo di allungare la
nostra vita è conoscerne i significati e questi si trovano anche
nel tempo che l’ha preceduta: quello della nostra famiglia, della
nostra nazione e dell’intera umanità. Le cose antiche, se pure non
parlano, significano.
“Spesso,
tuttavia, queste cose si disperdono e finiscono-per le necessità
economiche o per il disinteresse di chi li ha ricevuti-nei negozi
degli antiquari, nelle bancherelle dei rigattieri, nelle soffitte,
nelle cantine o nella spazzatura. Diventano oggetti desueti,
abbandonati o trascurati dai loro proprietari, venduti a ignari
compratori o semplicemente dimenticati da quasi tutti. A qualcuno
però piacciono così: “Bellezza riposata dei solai/dove il rifiuto
secolare dorme! (…) Tra i materassi logori e le ceste/ v’erano
stampe di persone egregie; (…) topaie, materassi,
vasellame/lucerne, ceste, mobili, ciarpame//reietto (…)”.
Nelle cose che si tramandano vi è però una translatio
imperii anche politica, come, ad
esempio, nei piatti di porcellana della prima fase del dominio
sovietico, i quali, accanto al marchio della fabbrica imperiale di
Nicola II, portano in aggiunta la falce e martello.
O come nei francobolli di certi Stati o regimi soppressi, che vengono
utilizzati fino all’esaurimento grazie a timbri sovrapposti dai
vincitori (si vedano gli esemplari dello Stato Pontificio che
circolano anche dopo la sua annessione al Regno di Sardegna nel
1859)” (p. 89).
Le cose dunque
possono svolgere una funzione simile a quella dei palinsesti.
Con il testamento
noi lasciamo in eredità ai parenti che ci sopravvivono quanto
abbiamo ricevuto da quelli morti prima di noi, magari con l’aggiunta
di altri beni o con la sottrazione di eventuali perdite.
La trasmissione
dei beni conservati o accresciuti è “di fatto obbligatoria” e
rappresenta “un risarcimento differito per quanto si è ricevuto
dagli antenati” (p. 89)
“La solidarietà
familiare instaura allora quel circolo virtuoso del dono, che-nella
simbologia antica, ad esempio nel De
beneficiis di Seneca- è raffigurato
dalle Grazie o Cariti, espressione della charis,
della “grazia”, non tanto nel senso della bellezza, quanto,
soprattutto, in quello della gratuità. Le Grazie, tre giovani
fanciulle che danzano in tondo tenendosi per mano, rappresentano il
beneficio (il dare, il ricevere, il restituire) che, passando di mano
in mano, ritorna accresciuto a chi lo ha inizialmente concesso
Cavriς
significa “grazia” e anche “gratitudine”. L’ingratitudine è
una grave forma di u{briς
per i Greci
L'ingratitudine è
biasimata come vizio capitale da Penelope saggia ( "perivfrwn")
quando rimprovera gli Itacesi dicendo all'araldo:"ajll
j oJ me;n uJmevtero" qumo;" kai; ajeikeva e[rga--faivnetai,
oudev tiv" ejsti cavri" metovpisq j eujergevwn"(
Odissea
, IV, 694-695), il vostro animo appare evidente e indegne le vostre
azioni, e non c'è più gratitudine alcuna in seguito ai benefici.
Nei Memorabili
Socrate fa notare al figlio Lamprocle che particolarmente grave è
considerata ad Atene l'ingratitudine verso i genitori, e per questa
mancanza di riconoscenza sono previste delle pene, mentre negli altri
casi, la città si limita a disprezzare coloro i quali ricevendo del
bene non mostrano gratitudine:"periora'/
tou;" eu\ peponqovta" cavrin oujk ajpodovnta""(II,
2, 13).
Nella Ciropedia
di Senofonte leggiamo che un motivo serio di punizione e disonore è
l'ingratitudine (ajcaristiva):"kai;
o}n aj;n gnw'si dunavmenon me;n cavrin ajpodidovnai, mh; ajpodidovnta
dev, kolavzousi kai; tou'ton ijscurw'". Oi[ontai ga;r tou;"
ajcarivstou" kai; peri; qeou;" aj;n mavlista ajmelw'"
e[cein kai; peri; goneva" kai; patrivda kai; fivlou""(I,
2, 7), e quello di cui sanno che potendo contraccambiare un favore,
non lo contraccambia, lo puniscono severamente. Credono infatti che
gli ingrati trascurino completamente gli dei, i genitori, la patria e
gli amici. "Come cosa caratteristica dei Persiani-osserva
Jaeger- Senofonte rileva che l'ingratitudine è severamente punita
in questo tribunale, in quanto essa appare come origine
dell'impudenza e pertanto di ogni malvagità".
Bodei quindi
ricorda la presenza delle Grazie nelle arti figurative: “La loro
figura è stata esaltata nella poesia di Foscolo, nella scultura di
Canova e nella pittura di Raffaello, Cranach il Vecchio e Rubens,
dove però prevale il solo elemento della bellezza” (p. 90)
Giovanni Ghiselli
p. s.
presenterò
Generazioni
di Remo Bodei il 30 ottobre alle 18, 30 nella biblioteca
Scandellara di Bologna.
Ne parlerò anche
nel corso che terrò all’Università Primo Levi di Bologna (dal 13
ottobre)
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