NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 31 gennaio 2015

Twitter, LXXVII antologia. L’elezione del Presidente della Repubblica

30 gennaio


Mi sono  schierato per Mattarella fin dal primo momento, in quanto l’uomo non è colluso né implicato in luridi affari o in giri di potere criminale, dei quali piuttosto ha sofferto.

Fin dal primo momento ho deprecato l’elezione di Giuliano Amato, il candidato di Berlusconi e della sua banda: gli eterni nemici della cultura.

Il patto del nazareno non c'è più" (Berlusconi). Meno male! Era un patto scellerato. Mattarella ha il merito di avere unito la sinistra.

L'elezione di Mattarella: un classico, in quanto discordia conciliata e angoscia risanata (nel Pd). La contesa suscitata nei confronti della banda degli eterni nemici della cultura, è la buona Eris di Esiodo.

L'economia bancaria sperpera il bene più prezioso, lo spirito dell'uomo; cerca l'utile e rende inutile la vita; per il lucro perpetra stragi e altre infamie su infamie con mani sporche di sangue..

Idiozia e falsità dei luoghi comuni: ora va di moda ripetere "sommessamente". Lo fanno spesso anche i beceri più forsennati.

Una cosa non mi piace di Mattarella e spero che me la faccia dimenticare: la guerra nel Kosovo. Ma prevalgono gli aspetti buoni. Questa volta mi unisco all’appello di Renzi perché venga eletto Sergio Mattarella come persona degna della presidenza della nostra Repubblica.

giovanni ghiselli

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Polis e Kalòn - di Giovanni Ghiselli

Povliς e Kalovvn


Venezia palazzo Morosini, 31 gennaio ore 15
La povliς degli Ateniesi, secondo i suoi elogiatori è caratterizzata dalla democrazia o isonomia, dalla parresia, dalla cultura, dall’aiuto dato ai supplici,  dall’arte  e quindi anche dal kalovn.
Allora vediamo quali sono gli autori e i testi che elargiscono questi elogi.
Vediamo del resto anche qualche critica.

Democrazia
Eschilo nei Persiani  contrappone al potere assoluto il sistema democratico quando la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell'esercito. Allora il corifeo risponde:"ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd j uJphvkooi"  (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
Il grande re Serse infatti pur se sconfitto, non è "uJpeuvquno" povlei" (v. 213), tenuto a rendere conto[1] alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Nei versi precedenti la regina madre Atossa racconta un suo sogno: le apparvero due donne (vv. 180 ss.), una munita pepli dorici, l'altra adorna di vesti persiane, entrambe grandi, belle e sorelle di stirpe. Simboleggino la Grecia e la Persia. Tra le due scoppiò una lite: quindi il re Serse cercava di ammansirle  e le aggiogava al carro con le cinghie sotto il collo. Una delle due si esaltò per questa bardatura e porgeva la bocca docile alle briglie, mentre l’altra recalcitrava (ejsfavda/ze, v. 194), con le mani spezzò  le redini del carro, lo trascinò a forza senza freni e ruppe il giogo a metà. Allora, continua la regina, cadde il figlio mio, e gli si accostò Dario e lo compianse; e Serse, come lo vide, si lacerò le vesti addosso al corpo (pevplou~ rJhvgnusin ajmfi; swvmati, v. 199).
Euripide nell’ Ifigenia in Aulide fa dire alla fanciulla che ha deciso di offrire la sua vita alla patria.
"è naturale che gli Elleni comandino sui barbari, e non i barbari, madre, sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi liberi( vv. 1400-1401) "[2].
 
Isocrate  nel Panegirico[3] denigra i Persiani attribuendo loro la morale degli schiavi: essi sono educati alla servitù più compiutamente che i servi degli Ateniesi (150). 
Aristotele[4] nella Politica sostiene che i barbari non hanno la parte che per natura comanda (o[ti to; fuvsei a[rcon oujk e[cousin) e quindi la loro comunità è fatta di schiavi (1252b).
I Greci dunque, in particolare gli Ateniesi sono liberi, mentre i barbari, soprattutto gli orientali, sono schiavi.
 
Platone considera vera educazione dell’uomo pepaideumevnoς solo quella che mira alla virtù sin dall’infanzia, e rende il cittadino capace di comandare e di obbedire secondo giustizia mentre quella che tende al denaro è volgare e servile (Leggi, 644).
La formazione dell’uomo a[paideutoς invece tende alla ricchezza e alla forza del potere o a qualche sofiva a[neu noũ kai; divkhς. Insomma un sapere senza sapienza. Ebbene tale formazione è cosa volgare e servile-bavnauso;n  kai; ajneleuvqeron, e per niente degna di essere chiamata educazione. 
 
La libertà principale è quella della parola
Paideia è ab origine connessa a parresia . Se viene meno la parola libera - e la parola può cessare di essere libera soltanto per 'autocensura' - , la parola che intende discutere ogni presupposto e ogni 'stato', non vi è più scuola, ma, per dirla con Nietzsche, "produzione di impiegati", se va bene di "impiegati intelligenti"[5].
 
Parrhsiva potrebbe essere scelta come parola chiave della didattica. Il suo significato può essere chiarito a partire dallo Ione[6] di Euripide dove il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[7] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
 Analogo concetto si trova nelle Fenicie[8], quando  Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.
 
"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[9].
Nella Lettera agli Efesini, Paolo Dio ha attuato il suo disegno eterno in Cristo “ ejn  w̃/ e[comen th;n parrhsivan kai; prosagwghvn ejn pepoiqhvsei dia; th̃ς pivstewς aujtoũ (3, 12), nel quale abbiamo la libertà e l’accesso nella sicurezza per la fede in lui.  
Nella Lettera agli Ebrei, Paolo scrive che dopo Cristo il gran sacerdote che può simpatizzare con noi nelle nostre infermità, possiamo accostarci con libertà al trono della grazia-prosercwvmeqa ou\n meta; parrhsivaς tw̃/ qrovnw/ th̃ς cavritoς, 4, 16) per ottenere misericordia e trovare grazia per essere soccorsi al momento opportuno
Nelle Leggi di Platone l’Ateniese ricorda che Ciro (559-529) tra i Persiani c’era una democrazia militare nella quale il re non era invidioso e concedeva parresia e onorava quanti erano in grado di dare consigli (tou;ς dunamevnouς sumbouleuvein, 694b). Quindi in quel tempo ogni cosa progredì grazie alla lbertà, alla concordia e alla condivisione delle intelligenze (dij ejleuqerivan te kai; filivan kai; noũ koinwnivan)
Tuttavia  quell’assetto si guastò con Cambise (529-522) e fu restaurato da Dario (522-485). Questo perché Ciro, pur essendo un valente condottiero, non ebbe un’educazione del tutto corretta e non la diede ai figli che lasciò in mano alle donne le quali li viziarono costringendo tutti a lodarli
Platone dunque attribuisce tale mala educazione alle donne della casa reale persiana del tempo di Ciro il Vecchio il quale, sempre impegnato in operazioni militari, delegò alle femmine la cura dei figli. Queste li viziarono impartendo loro una trofh;n gunaikeivan (Leggi, 694d) , una cura da donne, per giunta donne del re  divenute ricche da poco.
I padri combattevano e conquistavano, ma non insegnavano ai figli la disciplina persiana, quella di pastori e guerrieri molto resistenti alle fatiche. Insomma: “periei'den uJpo; gunaikw'n te kai; eujnouvcwn paideuqevnta~ auJtou' tou;~ uJei'~(Leggi, 695a), Ciro il Vecchio permise che i suoi figli, Cambise e Smerdi, fossero educati da donne e da eunuchi.
Sicché essi crebbero come ci si doveva aspettare, dato il loro essere stati allevati trofh'/ ajnepiplhvktw/ (695b) in maniera licenziosa. E quando i due giovani ereditarono il regno, trufh'~ mestoi; kai; ajnepiplhxiva~, gonfi di lussuria e di sregolatezza, per prima cosa uno uccise l’altro perché non sopportava uno stato di parità, quindi costui, ossia Cambise, mainovmeno~[10] uJpo; mevqh~ te kai; ajpaideusiva~, pazzo in seguito al bere smodato e alla mancanza di educazione, perse il potere a opera dei Medi e del cosiddetto “eunuco”[11], che aveva disprezzato la stupidità del re ( katafronhvsanto~ th`~ Kambuvsou mwriva~, Leggi, 695b.    
 
Su questa parola chiave gioca Victor Hugo quando riporta queste frasi “ingenuamente sublimi” scritte da padre Du Breul nel sedicesimo secolo: “Sono parigino di nascita e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa libertà di parola della quale feci uso anche verso i monsignori cardinali”[12].
 
Atene è la scuola   dell’Ellade secondo il Pericle di Tucidide che nell’inverno 431-430 pronuncia il suo lovgoς ejpitavfioς sui caduti nel primo anno di guerra (II, 35-46). Lo stratego aggiunge che la sua città sarà sempre ammirata, senza avere bisogno delle lodi di un Omero o di altri poeti capaci di dilettare per breve tempo. Saranno il mare e la terra a conservare per sempre il ricordo della sua cultura e delle sue imprese.
 “Riassumendo dico che l’intera città è la scuola dell’Ellade (xunelwvn te levgw thvn te pãsan povlin th̃ς  JEllavdoς paivdeusin ei\nai) e mi sembra che ciascun uomo singolarmente da noi possa presentare la propria persona indipendente a moltissimi generi di formazione anche con la massima eleganza e con versatilità” ( Storie, II, 41, 1).
Parti di questo discorso ha ispirato alcuni punti della nostra Costituzione
Vediamo alcune altre frasi di questo lovgoς ejpotavfioς  attribuito da Tucidide a Pericle che esercitava un potere che pur concesso dai suoi concittadini, era molto forte
Tucidide usa un'espressione ( " ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou' prwvtou ajndro;" ajrchv", II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che "la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata”[13]
Noi, dice il capo degli Ateniesi “abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin)  né uno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il valore (to; plevon ejς ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan) se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai) Storie, II,  37, 1. 

Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. 
L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese.

Nel Menesseno di Platone, Aspasia dice che nessuno è stato escluso per povertà (peniva/), né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore (238d)
Sarebbe stata Aspasia a comporre questo discorso per Pericle.
Sentiamola: “La nostra democrazia di fatto è un’aristocrazia con il consenso della massa. Noi abbiamo sempre avuto dei re. (Il secondo arconte che presiedeva al culto, aveva il titolo di re)
Il popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde; toĩς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ς o{roς): ha il potere e le carichre (krateĩ kai; a[rcei)  chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς ei\nai (238d).

Del resto non mancano critiche alla costituzione e al governo della polis ateniese.

Nella Costituzione degli Ateniesi , scritta da un pubblicista di parte oligarchica, il dialogante A  biasima la democrazia come prepotenza del popolo,  e sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso il potere e ha reso forte la città o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau'~ (1, 2), in quanto è il popolo che fa andare le navi.

Platone nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo.
E' una costituzione populista, piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se  è vero quanto dice Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali"[14].  
Io credo che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.
I demagoghi furono Cleone, Iperbolo e Cleofonte, ma Platone ( nel Gorgia) non salva nemmeno Pericle quando scrive che i vari Temistocle, Cimone, Pericle sono i veri responsabili dei mali" in effetti senza preoccuparsi della temperanza e della giustizia (a[neu ga;r swfrosuvnh" kai; dikaiosuvnh") hanno riempito la città di porti, di arsenali, di mura,  di contributi e di altre sciocchezze del genere (toiouvtwn fluariw'n ejmpeplhvkasi th;n povlin, 519a).
Corrisponde a quello sviluppo" quale "fatto pragmatico ed economico" senza "progresso" come "nozione " di cui parla Pasolini negli Scritti corsari  (p.220).
Anche l'altro discepolo di Socrate, Senofonte, critica la democrazia ateniese quando racconta un episodio che mostra la prepotenza del popolo che pretese la condanna sommaria degli strateghi pur vincitori della battaglia delle Arginuse (406)
La difesa fatta da Eurittolemo mise in rilievo l’illegalità della proposta di condannare a morte gli strateghi senza distinguere le responsabilità individuali e denunciò Teramene come colui che avrebbe dovuto raccogliere i naufraghi, mentre nell’assemblea precedente il processo, il Coturno aveva accusato gli strateghi (o{~ ejn th'/ protevra/ ejkklhsia/ kathvgorei tw'n strathgw'n, Senofonte, Elleniche, 1,7, 31)
Durante il processo  ci fu dunque un tentativo di difesa, ma nella massa  era stato inoculato l'odio e il desiderio del capro espiatori ed essa nell’assemblea gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein   o}  a]n   bouvlhtai", Senofonte, Elleniche, I, 7, 12)."E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", ed è "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole")”.[15]
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è  quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli  erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.

Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove non comandano le leggi non c’è costituzione: o{pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva.
 
Atene nei drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide è anche la città che protegge e aiuta i  supplici.
 
Nelle Eumenidi di Eschilo,  Oreste viene assolto da metà degli areopagiti e dalla dea poliade Atena e le Erinni che lo perseguitavano vengono rese benevole.
 
Le tragedie di Euripide mettono in rilievo più di una volta  l’accoglienza dei supplici da parte della polis ateniese: nella Medea, la donna che si è vendicata del marito traditore verrà accolta da Egeo.
 
Negli Eraclidi[16] il re di Atene, in questo caso Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, riceve e accoglie una richiesta di aiuto dai supplici figli di Eracle che l'argivo Euristeo perseguita: nella parodo il coro composto di cittadini ateniesi avverte: "a[qeon iJkesivan meqei'nai povlei-xevnwn prostropavn" (vv. 107-108), è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri. Più avanti i vecchi del coro ribadiscono che da sempre la loro terra vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse: "ajei; poq j h{de gai'a toi'~ ajmhcavnoi~-su;n tw'/ dikaivw/ bouvletai proswfelei'n", (vv. 329-330).
Questa tragedia rientra "in un modello tragico ben adicato nel teatro del V secolo: le tragedie "di supplica", che hanno come argomento l'arrivo di un supplice e il suo accoglimento all'interno della polis , che si prende cura di proteggerlo dai prepotenti che vogliono strapparlo dall'altare, infrangendo le regole civili e religiose dell'ospitalità. Il più antico esempio di questo tema, nei drammi conservati, sono le Supplici di Eschilo, cui si affiancano due drammi euripidei, le Supplici e gli Eraclidi. Pur inserendosi però in questo modello drammatico, l'Edipo a Colono sviluppa molto origunalmente il tema tradizionale, soprattutto perché sposta il fulcro dell'azione dall'accoglimento (risolto, in sostanza, nella prima parte della tragedia) a quello, molto più ampio, dell'eroe davanti alla polis, alla morte, al destino: l'accoglimento del supplice non risolve la tragedia, ma è la premessa di un dramma che si sviluppa poi in altre direzioni…in nessun' altra tragedia sofoclea lo spazio che fa da contorno all'azione ha un risalto simile, tanto che Colono potrebbe essere considerata più un muto e invisibile personaggio che un semplice sfondo"[17].    
Questo mito che illustra la generosità degli Ateniesi lascia echi che si prolungano per secoli: Arriano[18] nell'Anabasi di Alessandro racconta che a Callistene, storico ufficiale di Alessandro Magno, Filota domandò se un tirannicida poteva trovare rifugio e salvarsi presso qualche popolazione greca, e il pronipote di Aristotele rispose che un fuggitivo poteva salvarsi, se non presso altri, certo dagli Ateniesi, essi infatti si erano battuti per i figli di Eracle anche contro Euristeo "turannou`nta ejn tw`/ tovte th`~  JEllavdo~" ( 4, 10, 4) che allora tiranneggiava la Grecia.
Nelle Supplici[19] di Euripide Etra, la madre di Teseo, incoraggia il figlio a soccorrere i morti e le donne che hanno bisogno di aiuto. La loro patria, Atene, si ingrandisce nei travagli (“ ejn ga;r toi'" povnoi" au[xetai, v. 323). Alla fine del primo stasimo  il coro delle donne supplici che hanno perduto i loro cari  prega la città di Pallade di soccorrere le madri: "suv toi sevbei" divkan, to; d  j h|sson ajdikiva/-nevmei", dustuch' t j ajei; pavnta rJuvh/ " ( vv. 379-380), tu onori la giustizia, tu non dai spazio all'ingiustizia, e proteggi i disgraziati.

Il mito di Stato in Sofocle
La fama dell'ospitalità di Atene è nota anche all'Edipo di Sofocle, il vecchio cieco giunto  a Colono con Antigone ricorda al corifeo che la città, per essere all'altezza della sua reputazione non può non accoglierlo: qual è, domanda, il vantaggio della fama, o di una bella rinomanza diffusa invano, se dicono che Atene è la città più pia ( jAqhvna" fasi; qeosebestavta" ei\nai, Edipo a Colono, vv. 260-261) la sola capace di salvare lo straniero maltrattato, la sola che può resistere? Del resto Edipo merita quel soccorso; infatti subito dopo aggiunge:" ejpei; tav e[rga mou-peponqovt j ejsti; ma'llon  h] dedrakovta" (Edipo a Colono, vv. 266-267), poiché le mie azioni sono state subite piuttosto che fatte[20].
Nell’Edipo a Colono c’è un forte contrasto fra Edipo e Creonte: “La sfida tra personaggi contrapposti si sposta però a un livello più ampio: Atene protegge Edipo, Tebe lo perseguita. Come spesso avviene nella tragedia, la contrapposizione si sviluppa quindi tra due forme nello stesso tempo politiche e simboliche: vale a dire, tra la città “sana” e quella “malata”. La tirannide è caratteristica di Tebe (del resto, storicamente, in guerra contro Atene quando il dramma fu composto); la giustizia lo è di Atene, impersonata sulla scena dal suo re “democratico”, Teseo. Tebe è la città delle guerre civili, Atene offre ai perseguitati la giustizia e la pietà ed è il solo spazio sulla terra in cui un uomo può essere effettivamente accolto e aiutato. Il fatto che questo nobile quadro di una città giusta e buona sia stato tracciato negli ultimissimi anni della grandezza di Atene, quando tutti sapevano che la guerra era ormai perduta e che lo splendore di Atene apparteneva al passato, aggiunge emozione al clima già solenne e quasi sacrale dell’Edipo a Colono. Così il nobile Teseo dell’Edipo a Colono richiama il Teseo che alla fine dell’Eracle di Euripide ospita un eroe generoso e sventurato, offrendogli uno spazio cittadino in cui inserirsi[21], anche se l’ottica tutta umana e laica di Euripide, per il quale l’unica speranza di riscatto sta nella solidarietà tra gli uomini, mentre gli dèi sono ostili e malvagi, è lontana da quella dell’Edipo a Colono dove anche le forze invisibili del divino si affiancano agli uomini nel tendere la mano a Edipo…Accettare un supplice in città e integrare uno straniero che, in quanto estraneo alle leggi cittadine, rappresenta un elemento di parziale sovversione, mette in moto meccanismi profondi, non solo della socialità politica greca, ma di quella che si potrebbe definire una psicologia collettiva dell’ambivalenza. Un supplice soprattutto presenta un’ambiguità di fondo: è un essere divino posto sotto la tutela di Zeus Ikesios e sacralizzato dal contatto con l’altare ma anche un pericolo. Per eccellenza però, un supplice rischia di portare con sé la rovina o la contaminazione: Odisseo porterà con sé l’ira di Poeidone e l’alone di misterioso pericolo che circonda un supplice era ancora attuale nella cultura del V secolo (come dimostra tra l’altro anche il racconto erodoteo di Adrasto e Creso[22]). Anche Edipo porta con sé una duplice e ambigua natura: espulso come un maledetto dalla sua città, entra in un’altra nella veste di supplice e salvatore, due categorie solo apparentemente contraddittorie, che s’incrociano come si erano incrociate, nell’Edipo del primo dramma, quelle di re e farmakov~, di reietto e di prescelto”[23]
 
 Anche Isocrate ricorda più di una volta questo ruolo protettivo. Nel Panegirico [24] l'oratore fa un caldo elogio di Atene e sottolinea l'antichità dei benefici elargiti ai supplici dalla su città, "dalla quale è giusto che prendano le prove di fiducia quelli che discutono sulle tradizioni patrie: molto prima della guerra di Troia infatti vennero da noi i figli di Eracle e prima ancora Adrasto, figlio di Talao, re di Argo" (54).

Infine Stazio nella Tebaide rappresenta Giunone che parteggia per gli Argivi e dopo la loro sconfitta si muove verso le mura di Atene: " Theseos ad muros, ut Pallada flecteret, ibat,/supplicibusque piis faciles aperiret Athenas" (XII, 293-294), per convincere Pallade e aprire Atene bendisposta alla pie donne supplici.  
 
L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici.

La componente estetica, il kalovn.
 C’è una frase dell'epitafio di Pericle-Tucidide che mi sembra emblematica non solo dell'Atene periclèa ma di tutta la cultura greca, anzi di tutta la migliore cultura europea:"filokalou'mevn te ga;r met  j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva""(II, 40, 1), amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.

I paradigmi mitici di questo culto della bellezza si trova nelle tragedie dove l’eroe preferisce la morte al vivere fuori dalla bellezza
 l'Aiace  di Sofocle e non sopporta di sopravvivere al suo disonore, e prima di uccidersi dice:"ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai-to;n eujgenh' crhv"[25], ma il nobile deve vivere nobilmente o nobilmente morire.
Nè manca la giovane donna eroica che preferisce la morte ad una vita ignobile: Polissena nell'Ecuba di Euripide chiede alla madre di lasciarla morire senza opporre resistenza:"to; ga;r zh'n mh; kalw'" mevga" povno""(v. 378), infatti il vivere senza bellezza è una grande fatica.
Antigone presenta tutti i tratti dell’eroina: ella non cede alle obiezione dettate dal buon senso di Ismene, anzi replica :" io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nella bellezza" (w{ste mh; ouj kalw'" qanei'n, Antigone, vv. 96-97).

Nella filosofia, Platone fa dire a Socrate che la bellezza terrena risvegli il ricordo di quella eterna dell’idea del bello, il bello in sé.
L'idea della bellezza è la più vivamente riprodotta nel mondo sensibile ed è particolarmente efficace nel risvegliare il ricordo.
Solo la bellezza ha ricevuto questa sorte di essere l’idea che rimane più manifesta e amabile qua sulla terra. Del resto nella pianura della realtà, met’ ejkeivnwn, tra quelle idee, e[lampen o[n, brillava come essere (Fedro, 250d).
 Chi vede una bella persona e ricorda la bellezza ideale, la contempla e venera religiosamente, e gli spuntano le ali.
Il ricordo fa crescere l’ala attraverso tutta l’anima: pa'sa ga;r to; pavlai pterwthv (251b), infatti un tempo l’anima era tutta alata.

     Aristotele  scrive che lo scopo del tiranno è il piacere (to; hJduv), quello del re to; kalovn, la bellezza “e[sti de; skopo;ς turannikoς me.n to; hJduv, basiliko;ς de; to; kalovn” (Politica 1311A) 
Nella Retorica (1389b) Aristotele, sparlando a proposito e a sproposito dei vecchi, dice che sono fivlautoi ma'llon h] dei', egoisti più del dovuto e che questa è una forma di mikroyuciva, meschinità: kai; pro;~ to; sumfevron zw'sin, ajll j ouj pro;~ to; kalovn, vivono per l’utile e non per il bello, proprio per il fatto di essere egoisti: l’utile infatti è un bene individuale, mentre il bello è un bene assoluto (to; de; kalo;n aJplw'~).  
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo" :"Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[26].
La "Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata".[27]
giovanni ghiselli
 
The lesson of that past tell us that a Polis able to create the Beautiful, as well as a Res Publica able to root (fare attecchire the Good), were based on the concept of Scholè, that is leisure-tempo libero-, free time spent gazing- fissando- or theorizing into the true nature of things, and embodying- includendo. a moral dimension requiring a catharsis from the body’s perturbations and from all value standards and metrics.
Nelle Supplici[28] di Euripide  Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica[29] dialogando con l'araldo mandato da Creonte re, anzi tiranno di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Il re di Atene in questa tragedia scritta poco prima della pace di Nicia, è addirittura ottimista. Egli confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce. Dunque Teseo  elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da  confusa e bestiale  che era (ejk pefurmevnou[30]- kai; qhriwvdou"),  innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201-205).
L'araldo delle Supplici ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti esclude i demagoghi i quali gonfiando la folla con le parole la volgono di qua e di là a proprio profitto. Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta.
 Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449). Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere. l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne:"ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945-946).
“Che Atene sia la terra della giustizia è un Leitmotiv ideologico della cultura ateniese, ed è il presupposto di tagedia “di supplica” come le Supplici euripidee…Il motivo ha una sua trattazione anche nell’oratoria epidittica, come assicura tra l’altro il parallelo di Lisia, 2, 17-9: ‘i nostri antenati seguirono sempre il principio di battersi per la giustizia (peri; tou` dikaivou diamavcesqai)… con la legge premiando i buoni e punendo gli scellerati’ ”[31].
 
La scolhv, il tempo libero
 
Vediamo Euripide, Platone e Aristotele sul tempo libero. Brevissima appendice senecana
 
Abbiamo già visto che L'araldo delle Supplici di Euripide sostiene che per giungere all’apprendimento è necessario il tempo libero che la fatica di lavorare la terra non lascia: “oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta.
 
Passiamo a Platone
Nel Fedone, Socrate dice che il corpo con i suoi desideri ci fa impiegare il tempo in guerre, rivoluzioni, battaglie per il possesso delle ricchezze. Noi, se siamo schiavi al servizio corpo e non ce ne emancipiamo, manteniamo la mancanza del tempo libero (ajscolivan a[gomen filosofivaς pevri) indispensabile per la filosofia.  E anche se interviene un poco di tempo libero (eavn tiς  hJmĩn kai; scolh; gevnhtai) i desideri del corpo portano confusione e turbamento (66D).
Dunque il corpo ci procura innumerevoli occupazioni (murivaς ga;r hJmĩn ajscolivaς parevcei to; sw̃ma) per la sua necessità di essere nutrito.
 Anche le malattie che ci cadono addosso ci impediscono la caccia dell’essere (novsoiejmpodivzousin hjmw̃n th;n toũ o[ntoς qhvran (66B) 
 
Nella Repubblica, Platone fa dire a Socrate che ogni cosa riesce meglio kavllion kai; rJa//on, più bella e fatta più facilmente, quando uno si dedichi a una cosa sola, secondo natura e nel tempo opportuno, tenendosi il  tempo libero dalle altre-scolh;n a[llwn a[gwn (370c)
 
Nel Fedro, Socrate dice che non ha scolhv per spiegare razionalmente i miti, poiché non è ancora in grado di conoscere se stesso. Per questa  impresa ci vuole molto tempo. Egli dunque prende i miti come sono. Se non credesse ai miti  non sarebbe lo strano uomo che è (oujk a]n a[topoς ei[h (229C). Dunque le facciano i sofoiv le razionalizzazioni. 
 
Nell’Apologia di Socrate, Platone fa dire al maestro che  in vita sua è rimasto povero in quanto ha voluto solo mantenere il tempo libero per esortare i concittadini (a[gein scolh;n ejpi;  uJmetevra/ parakeleuvsei) e aggiunge che per questo meriterebbe di essere nutrito nel Pritaneo come i vincitori olimpici (36D)
 
 Aristotele
 
Aristotele nella Politica (1133A) ricorda che l’anima di divide in due parti: la parte ragionevole che comanda e l’altra priva di lovgoς che deve obbedire[32].
 La parte migliore dell’anima è quella che ha la ragione (bevltion de; to; lovgon e[con, 1133A). Il logos poi può essere pratico o teoretico[33].
Anche le attività si dividono in due, anzi tutta la vita dell’uomo si divide in due: “dihv/rhtai de; kai; pãς oJ bivoς eijς ajscolivan kai; scolh;n kai; eijς povlemon kai; eijrhvnhn (Politica, 1133A): in mancanza di tempo libero, cioè occupazione, e tempo libero, in guerra e pace.
La scelta di queste parti deve seguire lo stesso criterio dell’ ai{resiς, la scelta delle parti dell’anima: la guerra per la pace, l’occupazione priva del tempo libero per acquistare il tempo libero (povlemon me;n eijrhvnhς cavrin, ajscolivan de; scolh̃ς), le cose necessarie e utili in vista di quelle belle (ta; d  j ajnagkaĩa kai; crhvsima tw̃n kalw̃n e{neken).
Si deve poter ajscoleĩn , essere occupato e fare la guerra (polemeĩn), ma più ancora eijrhvnhn a[gein kai; scolavzein (1133B), costruire la pace e il tempo libero . E fare le cose necessarie e utili, ma anche le belle. A questi scopi bisogna educare i fanciulli e non solo. In conclusione, vi devono essere delle virtù- capacità- volte alla conquista del tempo libero (deĩ ta;ς eijς th;n scolh;n uJpavrcein, 1134A), infatti la pace è il fine della guerra (eijrhvnh tevloς polevmou) e il tempo libero è il fine dell’occupazione (scolh; dj ajscolivaς).
Per conquistare il tempo libero sono utili le capacità nel lavoro.
Una città deve essere temperante coraggiosa e forte, perché secondo il proverbio: non c’è tempo libero per gli schiavi (kata; ga;r th;n paroimivan, ouj scolh; douvloiς, (1334A)..
 Per l’ajscoliva, l’occupazione ci vogliono coraggio e forza, per la scolhv ci vuole la filosofia. In entrambi i momenti sono necessarie temperanza e giustizia.
Nella educazione (ejn th̃/ diagwgh̃/) vanno inserite pratiche e nozioni pro;ς th;n scolhvn per il tempo libero, occupazioni e insegnamenti paideuvmata-maqhvseiς che sono fine a se stessi, come la musica e la ginnastica, considerate occupazioni del tempo libero degne di uomini liberi, come mostra Omero che considera l’aedo un allietatore (Odissea, XVII, 385; IX, 7-8).
L’educazione si impartisce non perché sia utile e necessaria ma perché liberale e nobile (1338A)
  
Cfr. infine gli occupati oziosi di Seneca. La loro vita è una occupazione oziosa Sono quelli “quorum otium occupatum est: in villa aut in lecto suo, in media solitudine, quamvis ab omnibus recesserint, sibi ipsi molesti sunt: quorum non otiosa vita dicenda est sed desidiosa occupatio…Non habent isti otium, sed iners negotium (De brevitate vitae, XII). Questi non hanno tempo libero ma un’occupazione inoperosa, un affaccendarsi inutile.
Questo otium occupatum è un otium cattivo, come la scolhv menzionata da Fedra che nell'Ippolito di Euripide la denigra come “diletto cattivo”:"bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou'men[34]: alcuni per infingardaggine (ajrgiva" u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E  sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio, diletto cattivo, e l'irrisolutezza (scolhv, terpno;n kakovn,-aijdwv~ te)  "(vv.379-385).  Esistono dunque due forme di aijdwv~: “ dissai; d’ eisivn, h{ me;n ouj kakhv,-h{ d j a[cqo~ oi[kwn” (vv. 385-386),
 
Giovanni Ghiselli
 
 
[1] Un altro personaggio tragico che afferma l'insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:"What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?" (Macbeth, V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
 
[2] Demostene nella III Olintiaca (348, dove vuole convincere gli Ateniesi a soccorrere la città della Calcidica contro Filippo di Macedonia) scrive che una volta agli Ateniesi obbediva il re di Macedonia ed era giusto essendo un barbaro che obbedisse ai Greci (24)
 
[3] Un caldo elogio di Atene, del 380 a. C.

[4] 384-322 a. C.

[5] M. Cacciari, op. cit., p. 22.

[6] Del 411 a. C.

[7] Forma poetica equivalente a kevkthtai.

[8] Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.

[9] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.

[10] Cfr  Erodoto III, 38: “pantach'/ w\n moi dh'lav ejsti o{ti   ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh"",  da ogni punto di vista dunque per me è evidente che  molto matto era Cambise.

[11] Erodoto (III, 61, 2) dice che assomigliava a Smerdi e aveva lo stesso nome.

[12] Notre-Dame de Paris, p. 38.

[13] Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è cattiva.
Quella ateniese ha nutrito uomini di valore.
p. 198
Essa non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia  dallo stesso Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
 
[14] Lettera a una professoressa, p. 55.

[15]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.

[16] Composta tra il 430 e il 427 a. C.

[17] G, guidorizzi, Op. cit., p. XXXI

[18] Operò sotto Traiano e Adriano.

[19] Del 422 a. C., forse.

[20] Lo stesso afferma Re Lear, "the lunatic King " di Shakespeare:" I am a man/more sinned against than sinning" (King Lear, III, 2), sono uno contro cui si è peccato più di quanto io abbia peccato.

[21] Euripide, Her. Fur., 1332-35.

[22] Erodoto, I, 35-45. Adrasto assassino di suo fratello aveva chiesto asilo a Creso ed era stato purificato dal suo delitto, ma durante una caccia uccise involontariamente il figlio di Creso e si suicidò. In Omero, il tipico purificatore di supplici è il pio Peleo, che accoglie presso di sé sia Fenice, che era stato maledetto dal padre in seguito a un incesto, sia Patroclo, il quale aveva ucciso un compagno di giochi.
Fenice fu maledetto dal padre Amintore, poiché la madre lo aveva spinto a diventare amante dell'amante del padre il quale lo maledì ( Iliade, IX, vv. 450 e sgg.).  ndr
 
[23] G. Guidorizzi, Sofocle Edipo a Colono, pp. XXV-XXVI.

[24] Del 380 a. C.

[25] vv. 479-480.

[26] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872),  p. 7 e p. 163.

[27] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica , p. 141.

[28] Data probabile: 422 a. C.

Anche Plutarco attribuisce a Teseo il dono, ai non potenti, di un governo senza re e della democrazia che si sarebbe servita di lui solo come capo militare in tempo di guerra e come custode delle leggi e avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti (Vita di Teseo, 24, 3). Plutarco aggiunge che ne dà una testimonianza anche Omero il quale nel catalogo delle navi chiama dh'mo" solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547). 
 
[30] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.

[31] Avezzù-Guidorizzi, Op. cit., p. 318.

Nell’Etica Nicomachea, Aristotele spiega che la parte irrazionale dell’anima è a sua volta divisa in due parti: una vegetativa comune agli animali, e una appetitiva o concupiscibile (ejpiqumhtikovn) che deve obbedire alla ragione (1102b)
 
[33] Nell’Etica Nicomachea (1139A) dice che l’anima razionale ha una parte scientifica e una discorsiva: una si occupa dei princìpi che non possono essere diversi da come sono, la seconda discute sul discutibile.

[34] Il bene, topicamente, costa povno" , fatica.

venerdì 30 gennaio 2015

L’ancestrale curiosità di Eva - di Giovanni Ghiselli

L’ancestrale curiosità di Eva

Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita (Genesi, 2, 7)

Antifemminismo: creazione dell’uomo senza il contributo della donna
 Vediamo alcune espressioni della fantasia contraria alla natura di generare senza l'unione tra l'uomo e la donna, creature che sarebbero naturalmente quant'altre mai congeniali tra loro.

Sentiamo innanzitutto Giasone nella Medea [1] :"Crh'n ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai geno" -  cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 572-575), bisognerebbe infatti che in altro modo, donde che sia, gli uomini generassero i figli, e che la razza delle donne non esistesse, così non ci sarebbe nessun male per gli uomini.
 Insomma il male è la femmina. qh̃lh=kakovn  

Nell'Ippolito il protagonista, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e terrorizzato dalle donne- ingannevole male per gli uomini (" kivbdhlon ajnqrwvpoi"  kakovn ", v. 616), male grande ("kako;n mevga", v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[2] ("ajthrovn[3]...futovn", v. 630)- che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane.
Sentiamo alcune frasi del "puro" folle che dà in escandescenze:
 "O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per gli uomini?  Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere questo dalle donne, ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo[4] la prosperità della casa" (vv. 616-626).

Nel II Stasimo delle Baccanti di Euripide, il Coro  ricorda le parole di Zeus che “partorirà” Dioniso: “Vieni, Ditirambo, entra in questo mio maschio ventre”  i[qi, Diquvramb  j , ejma;n a[rsena- tavnde bãqi nhduvn, 526-527).

Nelle  Eumenidi, Apollo, difendendo Oreste, dice che ci può essere un padre senza la madre: path;r me;n a]n gevnait j a[neu mhtrovς (664); ne è testimone la figlia di Zeus la quale non fu nutrita nell’oscurità di un ventre materno (oujk ejn skovtoisi nhduvoς teqrammevnh, 665) . Atena, come si sa, nacque dalla testa di Zeus.
Del resto, quando la madre c’è, la sua parte nella generazionr è secondaria, sempre a detta del Lossia, il dio tortuoso:"La cosiddetta madre non è la generatrice del figlio (tevknou tokeuv~ ), ma la nutrice (trofov~) del feto appena seminato: genera (tivktei) il maschio che la monta; colei  come un ospite con un ospite salva il germe (e[rno~), per quelli ai quali gli dèi non l’abbia distrutto"(vv. 658-661).

Nell'Orlando furioso (1532) troviamo echi di questo risentimento contro le donne, messi in bocca al personaggio di Rodomonte, scartato da Doralice.
Prima il"Saracin" biasima, "catullianamente", l'instabilità e la perfidia delle donne:" Oh feminile ingegno,-egli dicea-/come ti volgi e muti facilmente[5],/contrario oggetto a quello della fede!/Oh infelice, oh miser [6] chi ti crede!" (27, 117). 
 Quindi Rodomonte aggiunge il motivo esiodeo della femmina umana imposta come punizione all'umanità maschile:"Credo che t'abbia la Natura e Dio/produtto, o scelerato sesso, al mondo/per una soma, per un grave fio/de l'uom, che senza te saria giocondo:/come ha prodotto anco il serpente rio/e il lupo e l'orso, e fa l'aer fecondo/e di mosche e di vespe e di tafani,/e loglio e avena fa nascer tra i grani" (27, 119). Infine l'amante infelice rimprovera la Natura, come Ippolito e Giasone, poiché costringe gli uomini a mescolarsi con le donne per la riproduzione:"Perché fatto non ha l'alma Natura,/che senza te potesse nascer l'uomo,/ come s'inesta per umana cura/l'un sopra l'altro il pero, il sorbo e 'l pomo?/Ma quella non può far sempre a misura:/anzi, s'io vo' guardar come io la nomo,/veggo che non può far cosa perfetta,/poi che Natura femina vien detta"(120).

Un motivo questo presente anche nel Paradise Lost (1658-1665) del "puritano d'incrollabile fede"[7] John Milton (1608-1674). In questo poema  Adamo si chiede perché il Creatore, che ha popolato il cielo di alti spiriti maschili, ha creato alla fine sulla terra questa novità, questo grazioso difetto di natura ( this fair defect [8] of Nature ) e non ha riempito subito il mondo con uomini simili ad angeli senza il femminino, o non ha trovato un altro modo per generare l'umanità ("or find some other way to generate Mankind? ", X,  888 e sgg.).

   Questo desiderio del maschio deluso è stato realizzato per sé dal Dio biblico che crea il mondo senza alcuna presenza femminile, come fa notare Fromm:"Il racconto non ha inizio con le parole:" In principio era il caos, in principio era l'oscurità", bensì, "In principio Dio creò...."-dunque lui solo, il dio maschile, senza intervento né partecipazione da parte della donna-cielo e terra. Dopo l'interruzione di una frase in cui risuonano ancora le antiche concezioni, il racconto prosegue:"E dio disse:"sia la luce", e la luce fu (Gn. 1, 3). Qui in tutta chiarezza compare l'estremo della creazione solamente maschile, la creazione per mezzo esclusivo della parola, la creazione attraverso il pensiero, la creazione attraverso lo spirito. Non si ha più bisogno del grembo materno per generare, non più della materia: la bocca dell'uomo che pronuncia una parola ha la capacità di creare la vita direttamente e senza bisogno d'altro (...) Il pensiero che l'uomo sia in grado di creare esseri viventi soltanto con la sua bocca, con la sua parola, dal suo spirito, è la fantasia più contronatura che sia immaginabile; essa nega ogni esperienza, ogni realtà, ogni condizione naturale, spazza via ogni vincolo posto dalla natura per raggiungere quell'unico  scopo: rappresentare l'uomo come assolutamente perfetto, come colui che possiede anche la capacità che la vita sembra avergli negato: la capacità di generare"[9].
 E meno male che poi "il Signore Dio disse:"Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" (Genesi, 2, 18).

Nella Teogonia di Esiodo c’è prima ti tutto il Cavoς (116).  Poi c’è la Terra dal largo petto (Gaĩa eujruvsternoς, 117) e il Tartaro tenebroso, poi Eros , il più bello tra gli dèi immortali (120) lusimelhvς (121) che sciglie le membra.
Dal Caos nacquero l’Erebo e la nera Notte che si unirono e generarono l’Etere e il Giorno; poi la Terra per prima generò uguale a se stessa il Cielo stellato (126-127), le montagne, e il Mare senza l’aiuto del tenero amore.
Quindi il Cielo e la Terra generarono l’Oceano, Iperone, Giapeto e Rea e Temi e Mnemosyne, e il più giovane Crono il deinovtatoς paivdwn (138) che odiava il padre.
Quindi i Ciclopi, Giganti con i Titani gli eterni nemici della cultura
I figli rimanevano dentro la Terra che si sentiva oppressa e meditò un disegno astuto e malvagio (160). Con  il diamante fece una grande falce ( mevga drevpanon, 162) e propose ai figli di vendicarsi del padre scellerato. Gli altri ebbero paura ma Crono disse: “io non mi curo del padre nostro infame” (171) e quando Urano entrò nella Terra, gli falciò impetuosamente i genitali (180-181).
Gli schizzi di sangue fecondarono la terra e nacquero le Erinni, altri Giganti, le Ninfe e dalla schiuma dei genitali gettati nel mare, nacque Afrodite, nata dalla schiuma (ajfrovς).
Il Cielo da solo invece generò i Titani così chiamati perché tendevano troppo  (209).
Poi Crono e Rea generarono gli dèi dell’Olimpo. Ma anche Crono era un pessimo padre e ingoiava i suoi figli (paĩdaς eJou;ς katevpine, 467) e Rea ne aveva angoscia. Allora chiese aiuto ai suoi genitori che le consigliarono di andare a Creta. Lì Rea nascose il piccolo Zeus in una spelonca inaccessibile, poi diede a Crono un fagotto con dentro una pietra che venne inghiottita dal padre degenerato. Quindi Crono rigettò tutta la prole con la pietra che poi Zeus collocò a Pito sulle pendici del Parnaso.

Il  dio  biblico proibì all’uomo di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male “perché nel giorno in cui ne mangerai, dovrai certo morire” (Genesi, 2, 16-17 ).

Leopardi fa notare che nella Genesi il sapere viene probito all'uomo:"qualunque cosa si voglia intendere per l'albero della scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che Dio diede all'uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis (Gen. c. 2. v. 8. 15. 23. 24.)...fu De ligno autem scientiae boni et mali ne comĕdas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte moriēris [10] (Gen. 2. 17.). Non è questo un interdir chiaramente all'uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacché questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo agl'incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione di quella tal creatura, tal quale egli l'aveva fatta, e in quanto era così fatta?"[11].

Poi Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui” (Genesi, 2, 18).  Quindi plasmò dal suolo tutte le bestie selvatiche e tutti i volatili cui l’uomo impose i nomi (2, 20).
Successivamente Dio volle fare per l’uomo un aiuto che fosse simile a lui (2, 20)
Sicché addormentò l’uomo, poi gli tolse una costola e con questa costruì la donna. Quindi la condusse all’uomo (Genesi, 2, 22)

Allora l’uomo la riconobbe come osso delle sue ossa e carne della sua carne e disse: “costei si chiamerà donna (‘ishsha) perchè dall’uomo (‘ish) è stata tolta” (Genesi, 2, 23).

L’uomo dunque è fatto per comandare sulla natura e sulla donna, fatta da lui e per lui.

In Esiodo, il mito della prima donna si collega a quello dell'età dell'oro.
Con Esiodo inizia la considerazione malevola della donna che non si trova in Omero.
Durante la prima età dell’oro la donna non c’era.
La storia del decadimento dall'aurea stirpe primigenia (cruvseon me;n prwvtista gevno", Opere e giorni,  v. 109) a quella finale, e attuale, ferrigna ( nu'n ga;r dh; gevno" ejsti; sidhvreon, v. 176), prende l'avvio dal racconto dei mali conseguiti alla mossa malaccorta o malvagia di Pandora, l'Eva dei Greci.
Il mito delle cinque età afferma che dalla stirpe d'oro si passa a quella d'argento, a quella di bronzo, a quella degli eroi, a quella del ferro, con una crescita progressiva di violenza, empietà e stupidità, a parte una controtendenza nell'età degli eroi.

Nella Teogonia  Esiodo racconta che Zeus si era sdegnato poiché Prometeo[12]   aveva cercato di ingannarlo due volte: la prima dividendo tra gli uomini e gli dèi un bue di notevole mole in maniera iniqua; la seconda restituendo agli uomini il fuoco che il dio supremo aveva tolto agli uomini, per rappresaglia nei confronti della benevolenza di Prometeo.  Allora Zeus, in cambio del fuoco preparò per loro un malanno ( " aujti;ka d j ajnti; puro;" teu'xen kako;n ajnqrwvpoisi ", v. 570). Questo male fu plasmato da Efesto con la terra: era  simile ad una vereconda fanciulla  che Atena adornò con un cinto, una veste, un velo, serti di fiori e una corona d'oro dove lo stesso Ambidestro aveva cesellato figure di fiere terribili, quanti ne nutre la terra ed il mare (v. 582). Una prefigurazione delle leonesse, le tigri e le scille in cui vengono trasfigurate Clitennestre e Medee. Comunque questa creatura divenne uno splendido malanno ("kalo;n kakovn", v. 585) per gli uomini, un inganno scosceso (" dovlon aijpuvn", v. 589) e senza rimedio. Ecco già delineato il "popolo nemico"[13] da cui derivano a quello dei maschi malanno e sciagura ("ph'ma", v.592).
 
Leggiamo alcuni versi della Teogonia. Efesto porta la donna davanti a un pubblico misto di uomini e di dèi.
Quando poi ebbe plasmato un bel malanno in cambio di un bene
la condusse subito là dove c’erano gli altri dei e gli uomini
fiera dell’ornamento della dea dagli occhi lucenti, figlia di padre potente.
Meraviglia prese gli dèi immortali e gli uomini mortali,
come videro l’inganno scosceso, senza rimedio per gli uomini.
Da lei infatti deriva la stirpe delle donne morbide assai,
da lei infatti la stirpe deleteria e la razza delle donne
sciagura grande per i mortali, quando abitano con i maschi,
e non sono compagne della funesta Povertà ma della sazietà. (Teogonia, vv. 585-593).

Nelle Opere e giorni  Esiodo  torna sul mito di Prometeo e di Pandora: Zeus,  sdegnato per l’inganno di Prometeo, dai tortuosi pensieri, versò sugli uomini lacrimevoli affanni e nascose il fuoco (kruvye de; pu'r[14], v. 50), poi, siccome il figlio di Giapeto lo rubò di nuovo celandolo ejn koivlw/ navrqhki (v. 52), in una verga cava,  l’adunatore di nembi, adirato, aggiunse un’altra sciagura e disse:
“Figlio di Giapeto, che più di tutti conosci  pensieri maliziosi,
tu gioisci di avere rubato il fuoco e di avere ingannato il mio volere,
grande sciagura per te e per gli uomini futuri. 
io a quelli in cambio del fuoco darò un malanno, del quale tutti
 godano nella foga della passione, circondando di affetto il proprio malanno”.
Così disse; poi scoppiò a ridere il padre degli uomini e degli dèi.
E comandò all’inclito Efesto di mescolare al più presto
terra con acqua, e di metterci voce e vigore
di essere umano, e di  renderla simile alle dèe immortali nell’aspetto:
un bella, amabile, forma di ragazza; poi ad Atena
ordinò di insegnarle le opere: a tessere la tela lavorata con arte;
e all’aurea Afrodite di versare la grazia attorno al suo capo
e il desiderio doloroso e gli affanni che divorano le membra;
e inoltre ordinava a Ermes il messaggero Argifonte
 di metterci dentro una mente di cagna e un carattere scaltro
(Opere, vv. 54-68).

Torniamo alla Genesi.
Perciò l’uomo abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una sola carne. I due erano nudi e non sentivano vergogna.
 (Genesi, 2, 24)

 Fromm e la necessaria presa di distanza dei genitori
"Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[15]
 Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale Cristo dice alla madre: " tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; -Quid mihi et tibi mulier? " (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?

Il dominio sulla terra e sugli animali nella Genesi e nell’Antigone di Sofocle.
L’uomo e la donna erano a immagine e somiglianza di Dio che aveva detto  loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo e sul bestiame, su tutte le fiere e i rettili” (Genesi, 1, 28)
Leggiamo la prima antistrofe ( vv. 342-352)  del primo stasimo dell’Antigone di Sofocle
E la razza degli uccelli dalla mente/alata, circondando con maglie/di reti intrecciate/cattura, e le stirpi delle fiere selvatiche/e la progenie sprofondata nel mare,/l'uomo che sa pensare –perifradh;ς ajnhvr-, e si impossessa/con i suoi mezzi possenti della bestia/che dimora nei campi, che vaga sui monti, e il cavallo/dalla cervice crinita trascina sotto il giogo che cinge il collo/e il montano, infaticabile toro".

Quindi la seconda strofe. Antigone, vv. 353-364.
E la parola-fqevgma-, e pari al vento il/pensiero –ajnevmoen frovnhma-, e a regolare gli istinti con le leggi/della città ha imparato, e a fuggire/degli inabitabili geli gli strali a cielo scoperto/e gli scrosci delle piogge terribili/con ogni risorsa-pantovporoς-; senza risorse-a[poroς- per niente va/verso il futuro; da Ade soltanto/
non potrà procurarsi lo scampo;/eppure da malattie immedicabili ha escogitato/vie di uscita
 “Solo una cosa pone immediatamente in iscacco ogni far violenza. La morte”[16].

III La curiosità di Eva.
Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche (3, 1)
Disse a Eva che se avessero mangiato il frutto proibito sarebbero diventati come Dio, conoscitori del bene e del male (3, 5)

Eva si lasciò convincere e mangiò il frutto che era buono e ne diede anche al marito (3, 6).
Eva è spinta dalla curiosità. Nella cultura classica l’uomo acceso da un’ardente volontà di conoscere, spinto dalla curiosità a rischiare la vita è Odisseo, figura positiva in Omero, personaggio molto criticato invece da Pindaro e da Sofocle (Filottete) e da due tragedie troiane di Euripide (Ecuba, Troiane). Anche Virgilio lo condanna.
Cicerone lo presenta come un uomo avido di sapere.
Nel De finibus bonorum et malorum [17]l’autore premette che è innato in noi l’amore della conoscenza e del sapere, e tanto grande che la natura umana vi è trascinata senza l’attrattiva di alcun profitto. Questo si vede dall’episodio odissiaco delle sirene le quali attiravano i naviganti non per la dolcezza della voce o la novità dei canti “sed quia multa se scire profitebantur” (V, 18), ma poiché dichiaravano di sapere molte cose. Quindi l’Arpinate traduce i vv. 184-191 e conclude: “Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur, scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupǐdo patriā esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum”, Omero si accorse che il mito non poteva essere approvato se un uomo di quella levatura fosse stato trattenuto irretito da canzoncine, il sapere promettono, e non era strano che a uno bramoso di sapienza fosse più caro della patria. E certamente la brama di sapere tutto, di qualunque genere sia, è proprio delle persone curiose.     
Apuleio ne fa l’archetipo dell’uomo curioso.
La curiosità è  motivo di conforto e fonte di salvezza per Lucio, il protagonista del  romanzo, prefigurato da Ulisse :" Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar... Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " (Metamorfosi , IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità...e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.
La curiosità, presa in bonam partem, è un sentimento vicino alla meraviglia che secondo Platone e Aristotele spinge alla filosofia.
Principio di ogni filosofia è il meravigliarsi, afferma Platone[18] e dal fatto che il giovane Teeteto si meraviglia, deduce la sua attitudine alla filosofia.
Aristotele  sostiene che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, sia ora sia in origine, a causa della meraviglia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n"[19]. Dallo qaumavzein  non nasce solo la filosofia ma anche la poesia e tutta la cultura
La curiosità spinge alla conoscenza
“La curiosità è l’unico istinto di cui l’educatore può debitamente usufruire...bisogna provocare la curiosità, poi qualsiasi obiettivo è buono: la costruzione del verbo videor come il rapporto tra i sessi, l’ a priori di Kant come le ballerine del varietà”[20].
Dante  apre il Convivio con la memorabile frase aristotelica, “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, e Ulisse è il prototipo dell’uomo affamato di conoscenza.
Nell’Odissea egli rischia la vita molte volte per il desiderio di imparare. Le Sirene per attirarlo gli dicono che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose[21].
La riprovazione della volontà o della pretesa di sapere e capire tutto
Ma la volontà di conoscere, o almeno la pretesa di conoscere tutto, come Dio, è guardata con sospetto, anzi con riprovazione da alcuni poeti religiosi.
Uno dei centri ideologici dell’Edipo re di Sofocle è costituito dai versi 396-398:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo feci cessare/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli". Questa presunzione intellettuale , per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa(v.877) del castigo e della espiazione
   Dante-personaggio della Commedia si sente  attratto verso Ulisse da un desiderio intensissimo (“vedi che del desio ver’ lei mi piego”, dice a Virgilio); eppure il poeta fiorentino avverte il pericolo estremo che Ulisse rappresenta per lui
“Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio:
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi”[22]
Infine, Dante fa affondare il suo eroe da Dio; il poeta cristiano  lo condanna all’Inferno; e perfino dal Paradiso il personaggio-autore ribadirà che il “varco” di Ulisse è stato “folle”:
“Io vedea di là da Gade il varco/folle d’Ulisse” (Paradiso, XXVII, 82-83)
Dante è uno di quei poeti che, come Sofocle tra i Greci, considerano limitata l’intelligenza umana e colpevole l’uomo che non tiene imbrigliata la propria. Il che non toglie che entrambi sappiano trarre bellezza dalle parole
Eva e Prometeo.
Allora i due si accorgono di essere nudi e si coprono con foglie di fico: le cuciono e ne fanno delle cinture (3, 7).
Qundi sentono arrivare Jahvè e si nascondono in mezzo agli alberi del giardino (3, 8).
Dio li interroga. L’uomo indica la donna come istigatrice e la donna dice: Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” (3, 13).

Del tutto diversa è la reazione di Prometeo alla punizione subita per la sua trasgressione: il Titano rivendica la disobbedienza a Zeus: egli è tutt'altro che pentito e prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo delitto:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"( Prometeo incatenato, vv. 265-267).

 Nietzsche in La nascita della tragedia   distingue "la concezione ariana" dal " mito semitico"
:" La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità conferita  al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica"[23]

La condanna alle pene del parto e del lavoro.
Dio maledice il serpente  (3, 14)  e la donna (14), poi anche l’uomo (3, 17). Li condanna entrambi alla sofferenza, l’una per il parto, l’altro per trarre nutrimento dalla terra.
Il dolore del parto viene ricordato ed enfatizzato anche in più di una tragedia greca
Le parole più famose sono quelle che la  Medea di Euripide rivolge alle donne corinzie del Coro:
Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli
in casa, mentre loro combattono con la lancia,
pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo
preferirei stare che partorire una volta sola- mãllon h] tekeĩn a{pax-”
(Medea, vv. 248- 251)

Le sofferenze del parto sono ricordate anche nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531-532).  
Nelle Fenicie di Euripide, la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia in Aulide, la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola,  ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli. Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav). 
Tanto più perché il parto può causare una perdita di bellezza: nell’Hercules Oetaeus (di Seneca?) Deianira, vedendo la fulgida bellezza della giovanissima Iole, lamenta l’oscurarsi della propria con queste parole: “Quidquid in nobis fuit olim petitum, cecidit et partu labat” (vv. 388-389), tutto quello che una volta in noi era desiderato, è caduto e con il parto vacilla.

La fatica del lavoro.
Esiodo nelle Opere scrive che  dapprima gli uomini vivevano sulla terra senza le malattie e il pesante lavoro, ma poi dall’orcio scoperchiato da Pandora uscirono tutti i mali tranne la speranza (vv. 90 sgg.)
Per  quanto riguarda la fatica e la pena dell’uomo per ricavare l’estremo frutto dalla terra,
Virgilio nella Georgica I [24]  dà una spiegazione diversa : Giove procurò agli uomini fatiche e angosce (curae ) in quanto  non lasciò che il suo regno restasse paralizzato in un pesante letargo"nec torpere gravi passus sua regna veterno " (v. 124). Prima la terra produceva tutto spontaneamente, poi il figlio di Saturno creò mille difficoltà alla sopravvivenza degli uomini: “Ante Iovem nulli subigebant arva coloni;/ne signare quidem aut partiri limite campum/fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus/omnia liberius nullo poscente ferebat” (vv. 125-128), prima di Giove nessun contadino dissodava i campi con l’aratro; nemmeno segnare o dividere con i confini la campagna era lecito; raccoglievano per la comunità, e la terra spontaneamente produceva ogni cosa del tutto spontaneamente, senza che alcuno facesse richiesta.
In Virgilio  il mito termina con un elogio del lavoro faticoso: “Labor omnia vicit-improbus et duris urgens in rebus egestas” (vv. 145-146), tutto ha domato la fatica ostinata, e il bisogno che preme nelle situazioni dure.
Seneca nel De providentia[25]  trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda),  nei dolori e nelle perdite, quali prove per esercitare e temprare la virtus :"Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza un avversario la virtù marcisce; e Dio nei confronti degli uomini buoni conserva l'animo di un padre, li ama con forza, e ha questi progetti:"Operibus, inquit, doloribus, damnis exagitentur, ut verum colligant robur" (2, 6), con lavori, disse, dolori, perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. "Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt", infiacchiscono nell'ozio i corpi ingrassati, e non solo per la fatica, ma per il movimento, e lo stesso peso di sé vengono meno. E' la medesima impostazione del Giobbe biblico:"Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l'innesto operato dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di questo "perché"[26] potrebbe essere il Libro di Giobbe "[27], che  dovrebbe risalire al V sec. a. C. Ne riporto una massima:"Felice l'uomo che è corretto da Dio"[28]. C'è anche un Giobbe moderno (1930) di Joseph Roth:  un pio ebreo orientale, Mendel Singer: “la sua vita era una perpetua fatica". Aveva un figlio piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre Deborah:"il dolore lo farà saggio[29], la deformità buono, l'amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanze"[30]
 
Leopardi nella Storia del genere umano  (1824) afferma che Giove impose mali e fatiche alla nostre specie, la quale bramava "sempre e in qualunque stato l'impossibile", paradossalmente perché non si estinguesse, :" deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L'una mescere la loro vita di mali veri; l'altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto d'intrattenere gli uomini, e divertirli quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità. Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio dei beni".

 Torniamo alla Genesi.
La maledizione del dio biblico termina con la condanna a tornare in polvere (3, 19).

. Nelle Supplici  di Euripide, Teseo dice che non vuole fare la guerra ma ritiene giusto seppellire i morti-nekrou;ς de; tou;ς qanovntaς…qavyai dikaiw̃ (524 e 526).  Dunque lasciate che i cadaveri vengano coperti con la terra. ejavsat j h[dh gh̃/ kalufqh̃nai nekrouvς (531) e che ogni cosa torni là da dove è venuta alla luce: l’anima all’etere, il corpo alla terra, il corpo che noi non possediamo: è nostro solo per abitarci durante la vita, poi deve accoglierlo chi l’ha nutrito.

 Lucrezio spiega questo nostro tornare là da dove siamo partiti con la teoria dell’aggregazione e disgregazione degli atomi (rerum primordia, semina, elementa, corpora prima). Essi sono  solidā simplicitate (De rerum natura, I, 548)

Poi l’uomo chiamò Eva la sua donna, poiché essa fu la madre di tutti i viventi (III, 20). Il nome Haw-wah viene spiegato con la radice hajah, “vivere”
Quindi Dio donò all’uomo e alla donna tuniche e pelli e  disse l’uomo con la conoscenza del bene e del male era diventato “come uno di noi” (3, 22)
Allora  non poteva mangiare più dall’albero della vita che lo avrebbe reso eterno. Doveva morire.
Quindi cacciò i due disobbedienti dall’Eden (3, 23).

Nel Prometeo incatenato la confusione tra gli uomini e Dio non è compatibile con il cosmo ordinato da Zeus. Tale miscuglio incongruo negherebbe il principium individuationis e farebbe regredire il cosmo nel caos dei Titani e dei mostri.

IV. L’uomo “conosce” la donna.
L’uomo conobbe Eva, sua moglie che concepì e generò Caino e disse: ho acquistato un uomo con il favore di Jahvè” (4, 1).
C’è un gioco di parole che accosta Qajn, Caino a qanah, acquistare.
Conoscere dunque è anche amare:"Dicebas quondam solum te nosse Catullum " (Carmina , 72, 1), una volta dicevi di "conoscere" (ossia di avere come amante) soltanto Catullo.
Ugualmente Ovidio:"Non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iuno  (Her.  6, 45) non hai avuto con me rapporti amorosi di nascosto; fu pronuba Giunone, scrive Ipsipile, regina di Lemno al suo seduttore, il solito “fallace” Giasone.
Stazio echeggia questa espressione nell’Achilleide, quando il protagonista eponimo del poema confessa il suo amore con Deidamia al padre di lei, il re di Sciro Licomede: “Tacito iam cognita furto/Deidamīa mihi” (I, 903-904), ho già conosciuto Deidamia con amore furtivo.
  Così è pure il conoscere biblico di cui ci dà una spiegazione Fromm:" Conoscere non significa essere in possesso della verità, bensì andare sotto lo strato esterno e tentare, criticamente e attivamente, di avvicinarsi sempre più alla realtà. Questo modo di penetrazione creativa trova espressione nell'ebraico jadoa, che significa conoscere e amare nel senso della penetrazione maschile"[31].

 Poi Eva generò Abele che divenne pastore di greggi, mentre Caino coltivatore.

L’offesa alla terra.
Dio preferiva le offerte di Abele, e Caino lo uccise.
Dio disse a Caino che sentiva il sangue di Abele gridare dalla terra che ha spalancato la bocca per ricevere il sangue di Abele e non darà più frutti a Caino. La terra si offende quando un uomo viene ucciso
.   C'è una simpatia organica che lega Gh' a tutti i viventi. La terra si offende se una sua creatura viene ferita: "una volta caduto a terra nero/sangue mortale di quello che prima era un uomo, chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?" domanda il Coro dell' Agamennone di Eschilo (vv.1019-1021). E nelle Coefore:"tiv ga;r luvtron pesovnto" ai{mato" pevdoi ;" (v. 48),  quale lavacro c'è del sangue caduto a terra?". Nelle Osservazioni sulla morale cattolica Manzoni  scrive:" Il sangue di un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra"(cap. VII).

Contro la pena di morte.
Caino deve andare via ma nessuno dovrà ucciderlo: Chiunque ucciderà Caino, subirà una vendetta sette volte maggiore dice Jahvè (4, 15)
Nel Commo delle Coefore invece il Coro  che porta le libagioni sulla tomba di Agamennone canta: "ma è legge che gocce di sangue/versate al suolo, chiedano altro/sangue: infatti grida strage  l'Erinni "( boa/' ga;r loigo;n j Erinuv~, vv. 400-402).

Dio gli mise sopra un segno in modo che nessuno lo uccidesse (Genesi, 4, 15)
Caino si allontanò verso Oriente, conobbe sua moglie ed ebbe un figlio: Henoch

Adamo ebbe un altro figlio da Eva e lo chiamò Set.

Bologna 29 gennaio 2015                         giovanni ghiselli

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GIOVEDI 29 GENNAIO ORE 21
L’ancestrale curiosità di L’Eva
ROSANNA VIRGILI
docente dell’Istituto Teologico Marchigiano
“Controcanto” di GIANNI GHISELLI, insegnante di greco e latino nei licei classici. Docente a contratto nelle Università di Bologna, Urbino, Bolzano-Bressanone.
Interventi dei partecipanti
La scelta di non tacere
Tutti gli incontri si terranno a Bologna
presso l’ex Cinema Castiglione,
P.zza di Porta Castiglione n. 3 (nei pressi dei Giardini Margherita).
Per iscrizioni scrivere a:
Oppure telefonare al 340.3346926
Concorso alle spese: intero corso Euro 20,
singoli incontri Euro 5 (versamento in loco) 


[1] Di Euripide, del 431.

[2] L'accecamento mentale, una smisurata forza irrazionale.

[3] La protagonista dell'Andromaca fa l'ipotesi:" eij gunai'ke;" ejsmen ajthro;n kakovn "(Andromaca, v. 353), se noi donne siamo un male pernicioso.

[4] Cfr Lucrezio: "Labitur interea res et Babylonica fiunt/unguenta et pulchra in pedibus Sicyonia rident/scilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi/ auro includuntur teriturque thalassina vestis/assidue et Veneris sudorem exercita potat " (De rerum natura, vv. 1124-1128), si scialacqua nel frattempo la roba, e diventa profumi di Babilonia, e calzari belli  di Sicione sorridono nei piedi e naturalmente grossi smeraldi con la luce verde sono incastonati nell'oro e si consuma la veste colore del mare continuamente, e tenuta in esercizio beve sudore di Venere.

[5] Cfr.  "varium et mutabile semper/femina " diVirgilio (Eneide , IV, 569-570).

[6] Questo miser risale alla letteratura latina nella quale, a partire da Catullo, dicono alcuni,  assume il significato di persona infelice per l'amore non contraccambiato.  In realtà se ne trovano già diversi esempi in Plauto. Qui ne do un paio:"miseriorem ego ex amore quam te vidi neminem" dice l'anziano Alcesimo al vecchio amico Lisidamo innamorato di Casina (v. 520), non ho mai visto uno più infelice, per amore, di te. Più avanti lo stesso innamorato conferma:"Neque est neque fuit me senex quisquam amator adaeque miser" (685), non c'è e non c'è stasto un vecchio innamorato infelice quanto me. 

[7] C. Izzo, Storia della letteratura inglese, p. 517.

[8] Cfr. questo nesso ossimorico con kalo;n kakovn, bel malanno, sempre riferito alla donna da Esiodo nella Teogonia ( v. 585). Ci torneremo più avanti.

[9]E. Fromm, Amore sessualità e matriarcato , trad. it. Mondadori, Milano, 1997. p. 104 e 105.

[10] Potrai mangiare da tutti gli alberi del giardino, consente prima Dio all'uomo, quindi proibisce:"ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché in qualunque giorno tu ne mangerai, tu morrai.

[11] Zibaldone , pp; 395-396.

[12] Quello di Prometeo è  "uno dei miti antropologici...che rendono ragione della condizione umana-condizione ambigua, piena di contrasti, in cui gli elementi positivi sono inscindibili da quelli negativi e ogni luce ha la sua ombra, giacché la felicità implica l'infelicità, l'abbondanza il duro lavoro, la nascita la morte, l'uomo la donna, e l'intelligenza e il sapere si uniscono, nei mortali, alla stupidità e all'imprevidenza. Questo tipo di discorso mitico sembra obbedire a una logica che si potrebbe definire, in contrasto con la logica dell'identità, come la logica dell'ambiguità, dell'opposizione complementare, dell'oscillazione tra poli contrastanti"(J. P. Vernant, Tra mito e politica,pp. 30-31.   

[13] Cfr. C. Pavese:"Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco. Il mestiere di vivere , 9 settembre, 1946. 

[14] Cfr. Virgilio, Georgica I, 131: ignemque removit.

[15]     E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80.

[16]     (Heidegger, Introduzione alla metafisica, p. 165.

[17] Del 45 a. C. E’ un dialogo in cinque libri, dedicato a Bruto, sul problema del sommo bene e del sommo male.

[18] Teeteto, 155d.

[19] Metafisica , 982b.

[20] P. P. Pasolini, scolari  e libri di testo, (“Il Mattino del popolo, 26 novembre 1947) in  Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p. 51

[21] kai; pleivona eijdwv"", Odissea,  XII, 188.

[22] Inferno,  XXVI, 19-22

[23] F. Nietzsche. La nascita della tragedia, cap. 9 ( p. 69).

[24] Le Georgiche vennero iniziate nel 37 a. C.

[25] Risale ai primi anni del disimpegno politico (62-63 d. C.)

[26] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum providentia sit . E' il sottotitolo, probabilmente autentico, del De providentia: perché agli uomini buoni capitano delle disgrazie dal momento che c'è la provvidenza.

[27] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p. 8.

[28] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.

[29] Cfr. tw'/ pavqei mavqo~, Eschilo, Agamennone, v. 177.

[30] J. Roth, Giobbe, p. 19.

[31]E. Fromm, Avere o essere? , p. 63.