venerdì 27 marzo 2015

Lucrezio, "De rerum natura", III libro

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Questo capitolo è parte della conferenza EPISTEMAI. LA FISICA ANTICA E MODERNA
che terrò oggi 27 marzo alle ore 15, a Roma nell’aula decima delle TERME DI DIOCLEZIANO


Lucrezio  De rerum natura, III libro

Il libro inizia con un nuovo elogio di Epicuro, scritto propter amorem (5) e con la volontà di imitare il profeta. Pur con la coscienza che  rimarrà molto lontano da lui come i capretti dalle tremule membra dalla potenza di un forte cavallo
Per la parola di Epicuro diffugiunt animi terrores (16)
Appaiono le sedes quietae degli dèi (18)  coperte da un cielo sempre sereno che sorride con una luce largamente diffusa “inubilus aether-integit, et large diffuso lumine ridet” (21-22)
“At contra nusquam apparent Acherusia templa” (25)
In me entrano quaedam divina voluptas-atque horror , un brivido, poiché per la tua forza la natura si apre ex omni parte retecta (30) rivelatasi in ogni sua parte.
Ora chiarirà cosa siano animus e anima. Vuole cacciare la paura dell’Acheronte metus acherontis  qui vitam turbat ab imo omnia suffundens nigrore mortis (38-39). I miseri, ignoranti superstiziosi, si scoprono adversis rebus, nell’avversa fortuna, quando erompono dal cuore le vere voci et eripitur persona, manet res (58). Le piaghe della vita come avidità e ambizione sono in gran parte nutrite dal terrore della morte  “mortis formidine aluntur” (64).  Infatti il disprezzo e la povertà vengono sentiti come l’anticamera della morte. Allora per ammassare i beni gli uomini fanno le guerre civili, le stragi e odiano e temono le mense dei consanguinei et consanguineum mensas odere timentque (73).
Alla roba cede tutto, la roba vince su tutto (omnia vincit res):"alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte doveva mutar strada, e cedere il passo". La roba insomma ha qualche cosa di epico e sacro. 

La religione di “la roba”
Sentiamo Luigi Russo su Mastro Don Gesualdo un altro personaggio verghiano che, come Mazzarò, può  per certi versi essere visto come un epigono di Trimalchione: "La roba è l'ultima forma disperata con cui l'uomo cerca la sua immortalità, essa è una metonimia di quel desiderio di sopravvivenza, che c'è nel cuore di tutti gli umani. Ogni buon colpo di zappa ha dunque il suo valore d'eternità. Le fattorie grandi come chiese, i villaggi interi da fabbricare, le terre da coltivare, a perdita di vista, eserciti di mietitori a giugno, grano da raccogliere a montagne, denaro a fiumi da intascare, sono allora tanti commossi simboli dell'eterno, di quel lavoro costruttivo che resta dopo di noi. Ebbene: tutta questa poesia e religione della roba , che non è qui un simbolo economico ma tutta una complessa, generosa e disperata visione del lavoro, vagheggiato per se stesso e per la sua nascosta speranza di immortalità, viene miseramente a crollare con la morte del protagonista.  "[1].

 Molti macerat invidia (75) sempre per lo stesso timore. Un timor che induce a rompere i vincoli dell’amicizia e a sconvolgere la pietà. Gli uomini temono la morte come i bambini temono il buio. Per diradare queste tenebre è necessaria naturae species ratioque (93)
L’animus o mens contiene consilium vitae regimenque (95) è il principio intellettivo e il governo, mentre l’anima è il principio vitale.
Sono parti dell’uomo non meno che una mano e un piede.
Quindi bisogna rifiutare il nome di armonia. La mente sta nel petto, l’anima è sparsa per tutto il corpo. Epicuro teorizzava una yuchv distinta in un to; logikovn razionale e un to; a[logon irrazionale.
L’animus duque è il caput che domina il corpo ed è situm media regione in pectoris (140)
L’anima è per totum dissita corpus (143) disseminata (dissĕro- dissēvi-dissĭtum) e obbedisce all’animus-mens. Paret et ad numen mentis momenque movetur (144)

Comunque l’anima è cum animo coniuncta e risente dei turbamenti di questo. Si vede da sudore, pallore etc. Entrambi hanno natura corporea  (161 e 167). L’animo è persubtilis,  formato da corpuscoli minimi (179-180), rotondi e assai minuti.  Infatti l’animus si muove in modo rapido. Come l’acqua si muove più velocemente del miele per via dei corpora subtilia atque rutunda (195).
La mobilità degli atomi è data dalla loro grandezza, dal peso  e dalla levigatezza. Gli scabri e pesanti sono più statici-aspera et cum pondere magno (201-202)
L’anima è costituita da particelle minuscole perparvis seminibus (216-7)
ed è intrecciata a vene, visceri, nervi.
Il morto non cambia aspetto appena ha esalato l’anima, come non lo cambia il vino svanito.
La  egestas  patrii sermonis mi rende difficile il compito ma farò di tutto (260-261). Comunque animo anima e corpo sono connessi.
Gli atomi dell’anima sono più piccoli e meno numerosi di quelli del corpo.
L’animus  è “et dominantior ad vitam quam vis animai” (397).
E’ l’animus che tiene insieme l’anima e la vita. Il coro è il vaso dell’anima (con la quale da ora intende anche l’animus)  e quando il corpo si rompe, l’anima esce e si dissolve.
L’animus  cresce e invecchia con il corpo. Quando l’implacabile forza del tempo indebolisce le membra, claudicat ingenium, delīrat lingua, labat mens (453). Poi l’anima si dissolve con l’animo. Dolore e malattia sono fabricatores leti (472) costruttori di morte.
Basta del vino a sconvolgere la mente. Una causa paulo durior (485) la uccide. A volte l’anima colpita dal male si agita schiumando,  come nel salso mare fervescunt undae (494) ribollono le onde per la forza dei venti.
La mente è di natura mortale, infatti viene curata come un corpo malato.
Animus mortalia signa mittit (520-521)
A mano a mano che le parti del corpo si raffredda, l’anima esce. E pure l’animo a lei congiunto. Uscita l’anima il corpo concidit putre ruina crolla putrefatto (584). Fuori dal corpo l’anima si dissolve
Se l’anima fosse immortale, ci ricorderemmo del tempo precedente la nascita. Le anime sono contextae con i corpi e  non se ne possono separare (695). I caratteri fissi degli animali dicono che le facoltà dell’anima in accordo con la stirpe crescono con il corpo. Se le anime trasmigrassero e quella di un cervo finisse nel corpo di un leone, vedremmo un leone vile.
Le persistenze fisiche e psichiche degli animali escludono la metempsicosi. Se ci fosse la metempsicosi le anime farebbero a gara per entrare nei corpi migliori. Ma cfr. il mito di Er nella Repubblica di Platone.
Il corpo mortale non può essere congiunto all’anima immortale: mortale aeterno iungere desipere est (800 ss.)
La morte comporta la cessazione delle sennsaziono dunque non ci riguarda Nil igitur mors est  ad nos neque pertinet hilum
Quandoquidem natura animi mortalis habetur (830-1)
Come non sentimmo dolore nel tempo di Annibale, così dopo la morte niente ci toccherà.
Anche se venissimo fatti di nuovo come ora, non saremo la stessa persona interrupta semel cum sit repetentia nostri (851)
La morte immortale ci toglie la vita mortale ma non può essere infelice chi non esiste (868)
Non avremo più le gioie della vita ma neanche il loro desiderium, rimpianto (901)
Segue una prosopopea della natura (proswpopoiΐa) la quale potrebbe chiedere al querulo perché si lamenti. Se la vita ti è stata gradita perché non ti allontani come un commensale sazio della vita (cur non ut plenus vitae convīva recedis/aequo animoque capis securam, stulte, quietem?, 938-939)
Cfr. Marco Aurelio che vuole congedarsi dalla vita con gratitudine come un’oliva che una volta matura ( ejlaiva pevpeiroς genomevnh ) cade al suolo benedicendo la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata (IV, 48).

Se invece tutto ciò che hai goduto è perito e la vita ti è in odio (vitaque in offensa est) , perché vuoi indugiare?
Se un vecchio decrepito (grandior iam seniorque) lamenta più del giusto (amplius aequo) il destino di morte, la natura avrebbe ragione a gridare: “via le lacrime, ingordo (baratre) e frena le lagne- aufer abhinc lacrimas, baratre, et compisce querellas,” (III, 955). Hai compiuto la vita e il tuo corpo marcisce. Sereno arrenditi agli anni: è necessario (iam annis concede: necessest, 962)
Ci vuole materia perché crescano le stirpi future –materies opus est ut crescano postera saecla (967). La vita non è data in possesso a nessuno ma in uso a noi tutti. Cfr. Seneca mutua accepimus usus fructusque noster est (Ad Marciam, 10, 2)
I tormenti cosiddetti infernali sono qui sulla terra
Tantalo rappresenta la paura degli dèi, Tizio la sofferenza amorosa, Sisifo l’ambizione del potere, le Danaidi l’insaziabilità, Le stagioni dell’anno ci portano frutti nec tamen explemur vitai fructibus umquam (1007) .
La conclusione è hic Acherusia fit stultorum denique vita (III, 1023).
Potresti dire a te stesso che anche bonus Ancus reliquit lumina (1025) e tanti re e sovrani, compreso Serse che distese una via sul mare (viam per mare magnum stravit, 1029) e consentì alle legioni di camminare sull’abisso e disprezzò con i cavalli scalpitanti il fragore delle onde (1032)
Poi morì. Come Scipione belli fulmen, Carthaginis horror che poi” ossa dedit terrae proinde ac famul infimus esset” (1034.5)
Scienziati, artisti, Omero che conquistò lo scettro poi però si assopì nella stessa quiete degli altri. Democrito è morto, lo stesso Epicuro qui genus humanum ingenio superavit (1043) e oscurò tutti, come il sole all’alba cancella gli astri, E tu la cui vita è più o meno morta quando sei ancora vivo e vedi (1046) e consumi nel sonno la maggior parte del tempo, e sei pieno di angosce, ti indignerai di dover morire?
L’angoscia deriva dalla non conoscenza delle cause ed è inutile mutare luogo per placarla (cfr. Orazio, Seneca, Ovidio)
Hoc se quisque modo fugit (1068)  così ciascuno fugge se stesso, ma non ci riesce morbi quia causam non tenet aeger (1070)
Dovrebbero cercare di conoscere le leggi della natura
Temiamo i pericoli per questa grande e sciagurata cupidigia della vita mala vitai tanta cupido (1077). Eppure sappiamo che non possiamo evitare la morte. Così siamo incontentabili di tutto e appena raggiungiamo una cosa ne vogliamo un’altra. Una sete della vita ci affanna sempre.


giovanni ghiselli

il blog è arrivato a 224642
prego chi vuole dirmi qualche cosa di scrivere a g.ghiselli@tin.it piuttosto che su facebook da dove non sono capace di rispondere



[1] Introduzione di Luigi Russo a Mastro Don Gesualdo di Verga, p.14.

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