sabato 9 gennaio 2016

La Commedia antica. Aristofane. III parte

Gli acarnesi, Stagione teatrale 1998/1999, Mario Roberti

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Tornando alla nostra trama, Anfiteo è riuscito a portarsi tre assaggi (v. 187) di tregua, che poi sono tre ampolle: una di validità quinquennale, una decennale ed una trentennale. Diceopoli naturalmente sceglie la terza, quindi, "liberato dalla guerra e dai mali" (v. 201) torna a casa per celebrare le Dionisie agresti, ossia per fare baldoria e smettere di pensare alla guerra.
Nella Parodo il coro dà la caccia al pacifista: i vecchi carbonai, pur con le gambe appesantite dagli anni (v. 220), si scatenano nell'inseguimento del fellone che"venne a patti con i nostri nemici"(225).
I coreuti, in buona fede, sono stati ingannati dalla propaganda guerrafondaia dei demagoghi che, al pari del Grande Fratello di Orwell[1] inculcava odio per il nemico: l'abbiamo visto fare persino dal "progressista" Euripide, nell’Andromaca, per esempio.
Cfr. anche fama bella constant di Curzio Rufo.
Alessandro Magno ricorda ai suoi oppositori macedoni che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[2] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit[3] le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità. Cfr. 3, 8, 7 dove pure Dario III dice “fama bella stare”.

Intanto Diceopoli celebra in famiglia la festa nella quale egli intima il silenzio rituale, la figlia porta sul capo la cesta con gli arredi sacri, e il servo "Xantia deve inalberare ritto il fallo"(243).
Si tratta di quella processione con canti fallici dalla quale secondo Aristotele(Poetica 1449a) ebbe origine la commedia. Il culto di una religione che esalta la gioia e la vitalità costituisce un'antitesi a quell'adorazione della morte che è la guerra, e torna ancora a proposito un nesso con 1984: "La ragazza bruna veniva verso di lui attraverso i campi. Con un'unica mossa, o che almeno parve tale, si strappò di dosso tutti i vestiti e li gettò sdegnosamente lontano da sé... La grazia di quel gesto, e insieme la sua noncuranza, sembrava che quasi annullassero un'intera cultura, un intero sistema filosofico, proprio come se il Grande Fratello e il Partito e la Psicopolizia potessero essere ridotti a nulla da un unico splendido movimento delle braccia. (p. 35)... Era quella la forza che avrebbe ridotto il partito in frantumi (134). Viceversa "Il partito cercava con ogni mezzo di annullare l'istinto sessuale, ovvero, nel caso in cui non fosse riuscito ad annullarlo, di pervertirlo e insudiciarlo" (p. 70).
Insomma, se vogliamo semplificare e usare uno slogan del '68: "fate l'amore, non fate la guerra".
L'esaltazione dell'istinto non appartiene specificamente ai temi della tragedia, sebbene Sofocle non poche volte rappresenti i supplici di Tebe sconciata da carestia e peste in atto di chiedere agli dèi di "raddrizzare" la città in tutti i sensi, mentre è uno dei motivi centrali della commedia aristofanesca che per questo aspetto costituisce l'antitesi di quel Socrate platonico il quale affermava che il suo demone lo tratteneva sempre, non lo incitava mai (Apologia, 31d).
E' quest'affermazione a spingere Nietzsche ad attribuire germi di decadenza al maestro di Platone, uno dei responsabili di quel depotenziamento del turgore vitale iniziato con la morte di Pericle.
Socrate infatti è obiettivo polemico tanto di Aristofane quanto di Nietzsche.
Socrate è visto da Nietzsche come il nemico dell’istinto, o come un individuo dall’istinto rovesciato: “Mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice - una vera mostruosità per defectum! Più precisamente noi scorgiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come l’individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo quanto lo è quella sapienza istintiva nel mistico”[4].
Quest’idea non verrà rinnegata più avanti da Nietzsche come altri aspetti[5] di questo scritto giovanile. In Ecce homo[6] il filosofo ne rivendica le due “ innovazioni decisive: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci - il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte greca.
L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[7].
In Ecce homo “quasi alla fine della sua vita lucida, Nietzsche scrive: “Io non sono un uomo, sono dinamite”[8].
Una chiave per spiegare la natura di Socrate ci viene spiegata dal fenomeno del suo demone, una voce che lo dissuadeva sempre. Cfr. Apologia 31 dove Socrate dice che in lui c’è qei`ovn ti kai; daimovnion, una voce –fwnhv ti~ - che quando si manifesta ajei; ajpotrevpei me, mi distoglie sempre da quello che sto per fare, protrevpei de; ou[pote, mentre non mi spinge mai.
Questo mi impedisce di occuparmi di politica.

Negli uomini produttivi l’istinto è la forza creativa e affermativa e la coscienza è la parte critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in creatrice, una vera mostruosità per defectum!
L’influenza di Socrate dissolveva gli istinti. Socrate volle la sua condanna a morte e le andò incontro con quella stessa calma con cui si allontanò dal simposio per ultimo (Simposio 223 c - d).
Platone si gettò ai piedi dell’immagine di Socrate morente.

Intanto, negli Acarnesi, Diceopoli continua a "celebrare felicemente le Dionisie agresti liberatosi dal servizio militare"(250 - 251) grazie alla tregua trentennale. Al servo Xantia è ricordato ancora una volta il compito di tener dritto il fallo cui per giunta il protagonista può indirizzare un canto gioioso grazie alla tregua privata che lo ha liberato da "guerre e da Lamachi"(vv. 269 - 270).
Lamaco era uno stratego, e un guerrafondaio secondo Aristofane; egli sarà uno dei capi della spedizione in Sicilia dove perderà la vita, nel 414.
Questo buon rapporto con il fallo è tipico delle vitalità esuberanti e ottimistiche reperibili, almeno in letteratura, solo nei periodi di relativa fiducia nella vita e nell'umanità: infatti nel Satyricon che secondo Huysmans "dipinge in una lingua da orafo i vizi d' una civiltà decrepita" (A ritroso, p. 45) il protagonista Encolpio, colpito da paralisi sessuale, cerca di punire il pene "contumace" con un'invettiva che inizia con queste parole: "quid dicis... omnium hominum deorumque pudor? ", cosa ne dici, vergogna degli uomini e degli dèi? (132).

Ma Diceopoli non ha questo problema. Piuttosto si prende paura quando viene rintracciato dal coro degli Acarnesi i quali, inferociti, si esortano a vicenda per dargli una lezione:
 "dagli dagli dagli dagli,
colpisci colpisci il maledetto"(281 - 282), facendo uso di una paratassi che ricorda quella ossessiva delle Eumenidi (vv. 130 sgg. ).
Per fortuna i coreuti sono vecchi, e Diceopoli riesce a chiedere la parola. Gli anziani si fermano, però manifestano in ogni caso impazienza e odio, ancora più sentito di quello che provano nei confronti di Cleone, il demagogo di cui vogliono fare "suole da scarpe per i cavalieri"(301).
Con questo verso è preannunciata la commedia dell'anno successivo, i Cavalieri appunto, che avrà come bersaglio polemico il beniamino del popolo detestato dalla classe abbiente.
Negli Acarnesi ferve una discussione polemica tra il coro e Diceopoli il quale prova a sostenere che i nemici Spartani non hanno sempre e solo inflitto ingiustizia ma l'hanno anche subita (314). Questa obiettività cavalleresca nei confronti del nemico deriva dall'epica omerica e prosegue nella storiografia di Erodoto che nel proemio della sua Storia si propone di raccontare "le imprese grandi e meravigliose messe in luce alcune dagli Elleni altre dai barbari".
Obiettività nei confronti degli Spartani assente dall’Andromaca e da altre tragedie di Euripide.
Ma i semplici Acarnesi, manipolati dalla propaganda guerrafondaia non sono obiettivi e non sopportano le parole spese per difendere il nemico, al punto che minacciano di morte Diceopoli (324) il quale prova a difendersi affermando di avere in mano degli ostaggi loro e controminacciando di uccidere questi (327). In realtà l'ostaggio è un cesto pieno di carbone, ma per i carbonai di Acarne equivale a un tesoro in pericolo di vita: per salvare la quale accettano di ascoltare le ragioni pacifiste di Diceopoli. Il protagonista si rivolge al pubblico identificandosi con l'autore della commedia e ricordando i rischi corsi l'anno prima (426) per i Babilonesi quando Cleone, dice, "mi trascinò in tribunale"(330); ora, prima di parlare, chiede il permesso di vestirsi nel modo più pietoso (384) per suscitare compassione e limitare il pericolo.

Per trovare gli stracci, bisogna andare dal poeta creatore di pezzenti: dunque Diceopoli si reca a casa del drammaturgo stritola - eroi e lo chiama vezzeggiandolo anche un poco: "Euripide, Euripidino!"(404). Il tragediografo appare su un alto palco raffigurato da una macchina teatrale chiamata ejkkuvklhma, una piattaforma corrente su ruote che rappresentava gli interni. Qui compaiono anche diversi cenci: i costumi dei personaggi euripidei. Diceopoli dunque rivolge la sua richiesta al drammaturgo non senza rivolgergli la critica che diverrà più seria nelle Rane e sarà ripresa da A. W. Schlegel e Nietzsche:
"Tu crei sospeso per aria mentre potresti farlo
 stando a terra: non è un caso che crei degli zoppi.
Ma perché hai i cenci della tragedia,
le vesti da far compassione? Non è un caso che crei i pezzenti.
Ma ti supplico per le tue ginocchia, Euripide,
dammi qualche straccio dell'antica tragedia.
Infatti io devo fare davanti al coro un lungo discorso
che mi porterà la morte se parlerò male"(410 - 417).
Euripide ha creato una folla di antieroi storpi e mendicanti, e ne nomina alcuni: Eneo, Fenice, Filottete, Bellerofonte lo zoppo e Telefo, lo straccione ferito, il più malridotto, del quale appunto viene scelto il costume (430). Era questo un re di Misia il quale venne ferito dalla lancia di Achille che sola poteva guarirlo: per avere il tocco risanatore Telefo si recò alla corte di Argo travestito da mendicante, si impadronì di Oreste e minacciò di sgozzarlo se Agamennone non lo avesse aiutato.




continua



[1] 1984, p. 1, p. 47.
[2] Cfr. fhmiv.
[3] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 8, 15,
[4] La nascita della tragedia, cap. XIII
[5] Hegeliani e schopenhaueriani
[6] Del 1888.
[7] F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita della tragedia, p. 49.
[8] Ecce homo, “Perché sono un destino”, 1

1 commento:

  1. Interessante. Molto bello. Mi affascina la folla di antieroi storpi. Giovanna Tocco

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