mercoledì 6 gennaio 2016

La Commedia antica. Aristofane. II parte

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La canzonatura (to; skwvptein) era una componente essenziale e gradita al pubblico.
Autori successivi a questi di fatto furono Cratete e Cratino. Del primo Aristotele dice che abbandonò per primo la commedia di invettiva e trattò argomenti generali (Poetica, 1449b). Riportò la prima vittoria nel 449.

Aristofane nei Cavalieri ricorda che "ammanniva pensieri molto arguti dalla bocca delicatissima"(539), e, forse per questo, ebbe a subire ire e maltrattamenti del pubblico, pur senza cadere sempre ma restando anche in piedi (540).
Con Cratìno siamo arrivati alla triade canonica dei massimi autori del dramma attico consacrati da Orazio in un famoso esametro: "Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poëtae "(Satire, I, 4, 1). Cratìno è il più anziano dei tre. Anche della sua decadenza Aristofane parla nei Cavalieri ricordando che un tempo fioriva (530), ma oramai[1] si ritrova "con una corona secca in testa e morto di sete"( divyh/ d j ajpolwlwv", v. 534), lui che per le antiche vittorie meritava di bere nel Pritaneo. Cratino però era ancora capace di vincere e nell'agone del 423 non solo si difese dalle accuse di Aristofane ma sconfisse le Nuvole del rivale più giovane con il Fiasco (Putivnh), un'autocanzonatura nella quale la Commedia, moglie legittima del poeta lo accusava di tradirlo con l'Ebbrezza, di correre dietro ai vinelli giovani, ed egli rispondeva che un bevitore d'acqua non avrebbe potuto creare mai niente di bello.
E' interessante il fatto che Cratino osò prendere di mira Pericle accusandolo di fomentare la guerra in combutta con Aspasia e sfottendolo con il chiamarlo "Zeus dalla testa di cipolla", un epiteto che metteva in caricatura la forma allungata del suo cranio. Interessante è anche il verbo coniato da Cratino: eujripidaristofanivzein, "euripidaristofaneggiare" per significare che i due autori non erano poi tanto diversi quanto voleva fare credere il commediografo il quale nelle Rane renderà omaggio al collega già morto chiamandolo: "Cratino il divoratore del toro"(Taurofavgo" v. 357), per esaltare la sua vocazione dionisiaca con un epiteto che veniva attribuito allo stesso Dioniso.

Eupoli era coetaneo di Aristofane, nacque dunque intorno alla metà del V secolo, ma morì diversi anni prima del collega (intorno al 410): una leggenda tramandata da Cicerone in una lettera ad Attico (VI, 18 cercal ) narra che secondo parecchie testimonianze fu gettato in mare da Alcibiade in seguito a un attacco subito dal figlio di Clinia presentato come damerino eccentrico nella commedia gli Adulatori che criticava i sofisti riuniti nella casa del ricco Callia, la dimora dove è pure ambientato il Protagora di Platone e il Simposio di Senofonte. Alcibiade non fu l'unico capo di parte democratica a costituire un bersaglio per gli strali di Eupoli che, di tendenza conservatrice al pari di Aristofane e Cratino, se la prese con i più noti demagoghi: con l'Età dell'oro (del 424) attaccò Cleone divenuto il beniamino del popolo dopo il successo di Sfacteria (425) e dopo avere portato la paga eliastica da due a tre oboli; più tardi, morto il becero cuoiaio ad Anfipoli (nel 422), il commediografo levò le armi della parola contro il nuovo trascinatore della massa, Iperbolo, nel Maricante (del 421), nome di un noto invertito ateniese.
 Con Aristofane dunque Eupoli condivise l'ideologia, ma i due drammaturghi si scambiarono anche accuse di plagio: il primo nelle Nuvole accusa il rivale di avere saccheggiato i Cavalieri:
"Eupoli per primissimo portò in scena il Maricante travestendo i miei Cavalieri malamente il maligno con l'aggiunta di una vegliarda ubriaca che ballava il trescone"(vv. 553 - 555). Questa sarebbe stata la madre di Iperbolo.
 Eupoli del resto nei Battezzatori affermò di avere scritto personalmente una parte dei Cavalieri.
L'ultima commedia di questo autore fu i Demi (del 412) dove c'è il motivo che si ritrova nelle Rane: quello di riportare sulla terra dei morti: in questo caso i grandi politici del passato: Solone, Milziade, Aristide e Pericle che veniva rivalutato rispetto ai Prospaltii dove era stato attaccato con la sua concubina Aspasia. Come si vede la parrhsiva, libertà di parola e di critica non aveva limiti e i commediografi potevano prendersela con i potenti anche in tempo di guerra.

Aristofane.
Ma ora è già tempo di parlare del massimo autore della commedia antica e di commentarne almeno un paio degli undici drammi a noi pervenuti. Prima di affrontare i testi di Aristofane però diciamo due parole sulla struttura della Commedia: questa, rispetto alla Tragedia, ha come caratteristica propria due parti peculiari: l'agone che è un conflitto di battute tra il personaggio principale e l'antagonista, oppure tra il protagonista e il coro; poi la parabasi che significa sfilata ed è il momento nel quale il coro depone la maschera, spesso animalesca, e annulla la finzione teatrale per esporre le idee del poeta su argomenti vari, magari attaccando i rivali o provocando il pubblico con lazzi di vario genere.

Aristofane nacque ad Atene intorno al 445 a. C. e morì probabilmente nella sua città poco dopo il 385. Ricaviamo dalle sue commedie le notizie sulla vita. Ne scrisse una quarantina conseguendo cinque vittorie: a noi sono arrivati undici drammi: gli Acarnesi (425), i Cavalieri (424) le Nuvole (423), le Vespe (422), la Pace (421), gli Uccelli (414), la Lisistrata (411) le Tesmoforiazùse (410), le Rane (405), le Ecclesiazùse (392), il Pluto (388).
Dalla prima commedia (Acarnesi, vv. 653 - 654)) sappiamo che il poeta aveva una proprietà nell'isola di Egina: è probabile che questa sua condizione di benestante abbia influito sulle idee conservatrici e favorevoli alle forze della tradizione.
 Gli Acarnesi è il più antico lavoro di Aristofane a noi pervenuto: con queso vinse alle Lenèe (festa di fine gennaio durante la quale dal 440 a. C. si rappresentavano commedie) del 425, precedendo i drammi di Cratino ed Eupoli, ma non costituì il debutto del giovane autore che avvenne nel 427 con i Banchettanti i quali trattavano il tema dell'educazione: un padre fa educare due figli in maniera diversa: uno alla scuola antica, l'altro dai nuovi maestri di retorica: una storia ricorrente nella commedia: basta pensare agli Adelphoe di Terenzio.

Nel 426 Aristofane sferrò il primo grande attacco a Cleone con i Babilonesi che denunziava l'imperialismo ateniese e lo sfruttamento imposto alle città alleate: nel 427 anzi Mitilene, che aveva cercato di uscire dalla lega delio - attica, era stata riassoggettata con estrema durezza che il demagogo avrebbe voluto inasprire ancora di più dando a tutti i potenziali ribelli l'esempio di un vero e proprio genocidio. Per fortuna, come vedremo in Tucidide che lo definisce "il più violento (biaiovtato") dei cittadini.. e il più capace di persuadere (piqanwvtato") il popolo (III, 36) la sua proposta criminale non passò; vennero comunque uccisi un migliaio di Mitilenesi.
In seguito alla coraggiosa denuncia dei Babilonesi, rappresentato alle Dionisie, festa cui partecipavano i rappresentanti delle città alleate, Cleone accusò Aristofane di avere diffamato il popolo davanti agli stranieri. Lo ricorda l'autore negli Acarnesi (vv. 377 e sgg. ) non senza compiacimento per essersela cavata, mentre nella parabasi dei Cavalieri (anno 424) si giustifica del fatto di non avere curato la regia dei drammi precedenti diretti da Callistrato:
" non per stoltezza gli è capiato di indugiare ma poiché riteneva che mettere su una commedia è l'impresa più difficile di tutte", ajlla; nomivzwn/kwmw/didaskalivan ei\nai calepwvtaton e[rgon aJpavntwn"(vv. 515 - 516).
 Aristofane fu un genio precoce e coraggioso: poco più che ventenne aveva già trovato il suo stile e l'ardire di fare una satira politica, non generica e blanda ma acuminata per gli attacchi personali contro personaggi potenti e noti nell'Atene di quegli anni, oltretutto occupati e funestati dalla grande guerra del Peloponneso.
Passiamo quindi ad analizzare qualche parte dell'opera dalla quale trarremo, tra l'altro, l'immagine storica più completa dell'ultimo venticinquennio del quinto secolo.
Partiamo dagli Acarnesi (425): un dramma contro la guerra e i guerrafondai. Da qualche tempo Atene era afflitta da epidemie dovute, probabilmente, all'ammassarsi della popolazione rurale dentro le lunghe mura, in condizioni di stenti, mentre i nemici Peloponnesiaci occupavano e devastavano le campagne. Era la strategia di Pericle che in teoria avrebbe dovuto salvare vite umane lasciando solo gli alberi alla furia nemica[2], ma di fatto costò la vita a molti abitanti dell'Attica che tutte le estati veniva invasa dall'esercito del re spartano Archidamo, e allo stesso stratego ateniese, il "re non coronato" della città dove "le nove Muse generarono la bionda Armonia" per dirla con Euripide (Medea, 831 - 832).
 La visione di Aristofane è meno idealizzante di quella euripidea. Intanto Pericle, il leader carismatico si direbbe adesso, capace di mantenere una certa concordia tra le classi e un discreto consenso degli intellettuali, era morto, nel settembre del 429, come tanti cittadini comuni, di peste. Il protagonista di questa prima commedia a noi pervenuta è un "certo Diceopoli" (significa il cittadino giusto, ed è un contadino) che non ne può più della guerra. Il dramma, ci informa il primo degli argomenti[3] "è di quelli fatti bene ed esorta in tutti i modi alla pace". Infatti Diceopoli non ne può più della guerra. Appena entrato in scena se la prende con Cleone, il demagogo più amato dal popolo e più odiato dai personaggi positivi di Aristofane. Ad Atene la gente chiacchiera "ma non c'è pensiero per la pace: o città, o città"(26 - 27).
Un analogo grido di doloroso amore si trova nel contesto tragico dell'Edipo re: " No certo, se uno comanda da malvagio -. O città, o città" (v. 629[4] ).

E' interessante notare che i lutti e i guai della tragedia e della commedia sono gli stessi: peste, carestia, insipienza e scelleratezza dei capi.

Il contadino Diceopoli manifesta subito con la predilezione della campagna, l'odio per la vita urbana (33) i cui valori supremi sono comprare e vendere.
Sono versi di un'attualità[5] impressionante: qualche tempo fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente dove infatti sono ambientati i suoi ultimi film, peraltro non certo i migliori, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.
Dice dunque il cittadino giusto:
"guardo verso la campagna, sono desideroso di pace,
e odio la città mentre desidero il mio villaggio,
che mai disse: compra il carbone",
né l'aceto, né l'olio, e nemmeno conosceva quel "compra" privw"[6],,
ma lui produceva tutto e il comprare che stanga non c'era"(32 - 36).
Ecco dunque un altro male oltre la guerra: il consumismo e il mercato che uccide gli affetti. Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich ne L'uomo senza qualità: " Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800).

 Se è vero dunque che la commedia è legata più degli altri generi alla realtà contemporanea e che quella di Aristofane ci fa toccare con mano l'epoca storica nella quale è ambientata, è altresì innegabile che essa ci porta in una dimensione sovratemporale e universale dove possono riconoscersi gli uomini di tutti i tempi. Anzi in questi drammi, come vedremo, possiamo trovare elementi eternamente umani che nella poesia eroica e sublime, tragica o epica, non hanno diritto di cittadinanza.

Diceopoli parla agli ambasciatori tornati dalla Persia: costoro hanno approfittato della missione per farsi grandi mangiate e bevute:
"poiché i barbari stimano uomini solo
quelli capaci di mangiare e bere moltissimo"(77 - 78). Questa battuta offre il destro alla replica di Diceopoli:
"noi invece i prostituti e i cinedi" (79). Poi un araldo fa entrare "l'occhio del re"(94) il quale era un altissimo dignitario della corte persiana che Aristofane raffigura, attraverso le parole di Diceopoli (vv. 95 - 97), prendendo alla lettera la metafora e dandole corpo con una figura che sta a metà tra il mascherone carnevalesco e la materializzazione di un sogno.
"Esso - scrive U. Albini - è dotato, per vedere, di un unico tondo oblò nel centro del volto e procede fluttuando come un vascello"[7]. Gli ambasciatori vogliono dare ad intendere che questo personaggio surreale, il quale parla una lingua incomprensibile, prometta oro agli Ateniesi, ma Diceopoli capisce l'inganno e decide di fare una tregua privata con gli Spartani per sé solo, i figli e la moglie. Manda con questo incarico a Sparta un certo Anfiteo che però al ritorno viene minacciato dagli Acarnesi, i vecchi del sobborgo di Acarne, situato qualche chilometro a nord di Atene i quali costituiscono il coro e sono
"duri Maratonomachi di legno d'acero"(181) nostalgici del buon tempo antico della prima guerra persiana nella quale hanno valorosamente contribuito alla vittoria ateniese. Costoro dunque aggrediscono il messaggero di pace:
"allora tutti a gridare: o maledettissimo,
tu porti la tregua, mentre ci sono state tagliate le viti? "(181 - 182). Poi si riempiono i mantelli di pietre per tirargliele addosso.
C'è da anticipare che questo atteggiamento collerico lo ritroveremo nel vecchio Misantropo (Dyscolos ) di Menandro che, pure lui esacerbato, chiama maledetto chiunque gli si avvicini e gli tira in faccia zolle di terra (vv. 108 - 111). E' l'eterno tema dell'anziano disadattato rispetto a una società cambiata che i commediografi del resto non guardano con simpatia: e se Menandro attraverso i personaggi positivi raccomanda la comprensione tra tutti gli umani, Aristofane irride i cretini e denuncia i furbi che traggono profitto dalla dabbenaggine o dalla buona fede del popolo il quale, privo di guide oneste, corre verso la rovina morale e materiale. Secondo alcuni, questo poeta è un reazionario dogmatico, secondo altri, solo, o soprattutto, un pagliaccio che intende fare ridere; a parer mio è pure un moralista che castiga ridendo i costumi.


continua



[1] Siamo nel 424.
[2] Cfr. Plutarco, Vita di Pericle, 38
[3] Specie di riassunti che risalgono all'edizione di Aristofane di Bisanzio, non l'autore ovviamente ma un filologo, prefetto della biblioteca di Alessandria, vissuto tra il 245 e il 168 a. C.
[4] Questo verso dell - Edipo re di Sofocle fa parte di una breve ajntilabhv con uno scambio concitato di battute polemiche tra Creonte e il tuvranno~ di Tebe: Edipo invoca la città come fosse una donna amata molto, poiché l'amante molto le ha dato. Egli l'ha salvata già una volta ed ora sta mettendo a repentaglio la sua vita per salvarla di nuovo. Un'esclamazione di tale doloroso amore si trova pure nel contesto comico degli Acarnesi di Aristofane: "eijrhvnh d j oJvpw" - e[stai protimw's j oujdevn: w` povli" povli"", ma perché avvenga la pace non c'è nessun pensiero: o città o città"(26 - 27).  
[5] Rispetto al corrente 1996 dico.
[6] Imperativo dell'aoristo III di privamai, "compro".
[7] Nel nome di Dioniso, p. 82

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