mercoledì 13 gennaio 2016

La Commedia antica. Aristofane. IV parte

L'unico ritratto certo di Alcibiade pervenutoci
(mosaico pavimentale del III-IV secolo

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Diceopoli dunque si traveste, espone il suo piano non senza fare un gesto sconcio, ed Euripide che è il creatore della sottigliezza, oltre che della straccioneria lo asseconda:
"te lo darò: infatti macchini cose sottili con mente acuta"(445).
Diceopoli prende tutta l'attrezzatura da mendicante, poi, prima di andarsene, infila una battuta sulla umiltà del mestiere della madre di Euripide che avrebbe fatto l'erbivendola:
"Euripiduccio dolcissimo e carissimo,
possa morire nella maniera peggiore, se ti chiederò ancora qualche cosa,
tranne una soltanto, questa soltanto:
dammi il cerfoglio che ti ha lasciato la mamma!" (475 - 479).
Euripide si offende:
"Quest'uomo mi oltraggia. Chiudi i serrami della casa"(479) e Diceopoli si allontana con tragica disperazione dicendo:
"O cuore, bisogna andarsene senza il cerfoglio!"(480).
Quindi si appresta ad affrontare l'agone con il coro.
Diceopoli, identificandosi ancora con Aristofane, premette che dirà"cose spiacevoli ma giuste"(501). Aggiunge che Cleone non potrà calunniarlo e trascinarlo un'altra volta in giudizio poiché
"siamo soli per il concorso Leneo[1],
e non ci sono ancora i forestieri"(504 - 505), presenti invece al concorso primaverile delle grandi Dionisie quando vennero rappresentati i Babilonesi.
Diceopoli dunque non ama i Lacedemoni; anzi li odia molto (509), ché anche a lui hanno tagliato le vigne (512).

Eziologia della guerra (cfr. Erodoto e Tucidide)
Tuttavia la guerra non è scoppiata per causa loro.
Ci fu un primo boicottaggio della merce di Megara da parte di
 "omiciattoli miserabili di conio cattivo,
 disonorati, contraffatti, mezzi stranieri"(517 - 518)
 poi il ratto di una prostituta megarese da parte di giovani ateniesi ubriachi e la rappresaglia dei Megaresi che
" rapirono alla loro volta due puttane di Aspasia
E allora di qui scoppiò il principio della guerra
per tutti i Greci: da tre prostitute.
E allora Pericle l'olimpio, per l'ira,
lampeggiava tuonava e metteva sottosopra la Grecia "(527 - 531) e, nel 432, decretò il blocco dei porti della lega delio - attica nei confronti dei Megaresi. Questi, affamati, ricorsero alla protezione degli Spartani i quali chiesero a Pericle la revoca dell'embargo ma ricevettero un rifiuto.
 Cfr. Tucidide
"E allora ecco già il fracasso degli scudi"(539). L'eziologia della guerra dunque trova cause futili e assurde. E dopo tutto gli Spartani non hanno avuto torto nel difendere i loro alleati Megaresi. Il coro a questo punto (557 e sgg. ) si divide in due parti: una convinta da Diceopoli, e una che continua a dargli torto e ad approvare la guerra, tanto che chiama in aiuto lo stratego:
"Lamaco sguardo di folgore
tu che sull'elmo hai la Gorgone, soccorrici
o Lamaco, caro, compagno di tribù" (566 - 568).
Lamaco interviene con atteggiamenti da miles gloriosus cioé da spaccone e gradasso: apostrofa Diceopoli chiamandolo pezzente e minacciandolo. Questo si difende ricordando di essere
 "buon cittadino e non un intrigante,
 e da quando c'è la guerra buon soldato "(595 - 596), guerra dalla quale invece certi comandanti traggono profitto. Tuttavia, ammette il protagonista, ho fatto la tregua separata:
"vedendo uomini canuti nei ranghi
e giovani come te che scappavano via " (600 - 601), magari a fare gli ambasciatori prendendo l'indennità di tre dracme (602): è l'eterna critica diretta ai profittatori delle guerre: quelli dell'"armiamoci e partite" che abbiamo sentito di recente qui in Italia a proposito della guerra del golfo.
Contro la guerra cfr. la tragedia: l’Agamennone, l’Edipo re, le Troiane, l’Elena.
Un canto anarchico di moda nel '68 malediceva Gorizia e gli ufficiali che (al tempo della prima guerra mondiale) restavano "con le mogli nei letti di lana" mentre la truppa andava a versare il sangue.

Diceopoli interpella un uomo per bene, lavoratore, già canuto e gli domanda se sia mai andato a fare l'ambasciatore al pari di Lamaco o di altri personaggi della nomenclatura aristo - democratica, privilegiati di regime. Diceopoli insomma si tira fuori e invita a commerciare con lui i nemici "Peloponnesii, Megaresi e Beoti"(623 - 624) contro i quali invece Lamaco vuole continuare la guerra.
C'è poi la prima Parabasi (626 - 718): il coro si toglie i mantelli e viene agli anapesti (627).
Aristofane parla di sé in terza persona:
"calunniato dai nemici tra i volubili Ateniesi,
in quanto motteggia la nostra città con le commedie e offende il popolo/
deve rispondere davanti ai mutevoli Ateniesi"(630 - 632). La Parabasi è dunque "il cantuccio" nel quale il poeta può esprimersi più personalmente. Aristofane rivendica a sé il merito della schiettezza e della capacità educativa:
"egli dice che vi insegnerà molte cose buone, in maniera che siate felici/
non adulando né promettendo mercedi sotto banco, né ingannando/
né facendo il farabutto né coprendovi di elogi, ma insegnandovi le cose migliori"(656 - 658).

Il poeta sottolinea questo suo compito pedagogico che verrà ribadito nelle Rane:
"ai bambini infatti
è maestro colui che insegna, per gli adulti ci sono i poeti
e noi dobbiamo dire cose assolutamente oneste" (1053 - 1055) afferma Eschilo discutendo con Euripide.

Sicuro di essere nel giusto dunque, Aristofane afferma, passando alla prima persona, che continuerà per la sua strada dove:
"il bene e il giusto saranno
alleati con me, e mai verrò preso
ad agire verso la città come quel
vigliacco e pederasta sfondato"( Acarnesi, 661 - 665). Si tratta del solito Cleone.

La parola torna al corifeo che biasima la città la quale li trascura. I "vecchi antichi" (676) vengono derisi da "oratori ragazzini"(680).

Si può pensare ai rottamatori nostrani.

"il giovanotto che si è dato da fare per sostenere l'accusa
colpisce veloce avviluppando con parole serrate;
poi trascinato sul banco l'anziano lo interroga collocando trappole di parole,
dilaniando e tormentando e sconvolgendo un uomo vecchio come Titone.
E questo biascica per la vecchiaia e se ne va condannato,
poi singhiozza e lacrima e dice agli amici:
"vado a pagare per una multa il denaro con il quale dovevo comprare la bara"(685 - 691).

La città con questo comportamento pecca di ingratitudine: infatti, lamenta il corifèo che fu maratonomaco:
"quando eravamo a Maratona inseguivamo il nemico;
ora siamo perseguiti da uomini malvagi assai
e siamo condannati per giunta"(698 - 700).
C'è una forma di oppressione giudiziaria dei giovani sui vecchi: per scongiurarla bisognerebbe fare "cause separate"(714) e che il vecchio sdentato sia difensore del vecchio, dei giovani invece:
 "quel culo rotto e chiacchierone del figlio di Clinia" (716).

Si tratta del grande trasgressore Alcibiade, quello cui, secondo D'Annunzio, "parve più fiera la gioia/ d'abbattere il limite alzato"(Maia, Laus vitae ").
Nella Vita di Plutarco troviamo, tra le altre, notizie sulla sua dissolutezza che del resto non inficiava le grandi capacità dell'uomo: "alle doti politiche e oratorie... si univano grandi difetti: menava una vita dissoluta, era dedito al bere, amoreggiava senza ritegni, vestiva con effeminatezza, strascicando, per esempio, la veste"(16). Ma nel Simposio di Platone il grande seduttore dell'intera Atene deve riconoscere che la bellezza di cui andava fiero era solo di bronzo in confronto a quella aurea di Socrate il quale "disprezzò e derise e umiliò" tanta venustà non contraccambiando i desideri del discepolo (219c).

Finita la prima parabasi, seguono scene episodiche (719 - 1149).
Diceopoli segna i confini del suo mercato personale dove possono comprare e vendere "Peloponnesii, Megaresi e Beoti"(721 - 722), mentre non possono mettervi piede i guerrafondai come Lamaco né i sicofanti, cioé i delatori, le spie del regime.
Arriva un Megarese appunto seguito da due bambine,
" povere figlie di padre disgraziato"(731).
Il babbo fa una domanda:
"volete essere vendute o morire di fame?
"vendute, vendute!" gridano le ragazzine (734 - 735).
Segue una delle scene più tragiche del teatro greco. Il padre trasforma le fanciulle in porcelline, poi va a chiamare Diceopoli per dirgli che vende "maialine misteriche"(764), di quelle cioé che si sacrificavano ai misteri di Demetra. La scena, pesante, siccome risente della comicità grossolana della farsa megarese, gioca sul doppio senso della parola coi'ro" (choiros ) che, come il latino porcus indica tanto il maiale quanto l'organo sessuale femminile.
Il Megarese dunque mostra le porcelline, ma Diceopoli si accorge del trucco. Una bambina prova anche a fare il verso del porco (coì coì, 780) e Diceopoli commenta:
"ora sembra davvero una maialina,
ma una volta cresciuta sarà una fica"(781 - 782).
Dunque non si può sacrificare, e l'altra nemmeno.
Anzi, ribatte il padre,
" la carne di queste porcelle diventa
dolcissima una volta trafitta sullo spiedo"(795 - 796), un doppio senso ancora una volta piuttosto grossolano che del resto anticipa un'immagine non troppo distante da questa, una fine metafora sessual ittica invece che porcina, presente nel romanzo L'uomo senza qualità di Musil: "Egli vedeva la figura di lei sotto le vesti come un gran pesce bianco che è vicino alla superficie dell'acqua. Gli sarebbe piaciuto fiocinarlo virilmente e vederlo dibattersi, e v'era in quel desiderio tanta ripulsione quanta attrazione"(p. 849).
Seguono altri doppi sensi a base di ceci e fichi, finché il megarese vende le figlie - porcelle per una treccia d'agli l'una e una misura di sale l'altra (813 - 814).
 Arriva un sicofante, un delatore professionista che vorrebbe fare la spia, ma Diceopoli lo caccia in malo modo denunziando a sua volta questa genìa come la piaga della città:
"quale sciagura è questa in Atene!"(829).
Diceopoli dunque conclude l'affare e il corifèo lo proclama felice per questa sua estraneità a sicofanti e demagoghi, veri malanni di Atene.
Quindi arriva un tebano a offrire la sua mercanzia: il nostro eroe è attirato soprattutto dalle anguille di Copaide, un lago della Beozia, oggi prosciugato:
"o tu che porti la leccornìa più gradita agli uomini,
permetti che io saluti le anguille, se davvero le porti"(881 - 882). Grande è la gioia del pacifista ateniese nel vedere "l'ottima anguilla
 giungere bramata dopo cinque anni finalmente"(889 - 890).
 Dicepoli è tanto felice che utilizza, in travestimento derisorio, due mezzi versi pronunciati da Admeto nei riguardi dell'adorata Alcesti (367 - 368),:
"che nemmeno morto io
sia mai separato da te… cotta in mezzo alle bietole"(892 - 893).
Il tebano in cambio vorrebbe qualche cosa che da loro non si trova mentre abbonda ad Atene. La proposta pronta di Diceopoli è: "allora portati via un sicofante
dopo averlo imballato come un vaso"(903 - 904).
 In effetti un rappresentante di questa genìa aborrita da Aristofane entra in scena e minaccia denunzie a raffica, ma Diceopoli gli tappa la bocca con dei trucioli, perché non si rompa se mandato via, imballato appunto come un vaso (926 - 928). Sarà
"un recipiente buono a tutti gli usi,
una coppa di mali, un mortaio di liti,
una lanterna responsabile di rivelazioni
e un calice da rimescolarvi gli affari" (936 - 939).
Capace di tutto dunque il sicofante: perciò il tebano se lo porta via.
La polemica contro i sicofanti è presente nell'opera di Aristofane quasi quanto quella contro Euripide, Socrate, Cleone e i demagoghi in genere. Facciamo un paio di esempi.

Negli Uccelli (414), l' alata e allegra utopia costruita per fuggire dalla dura realtà politica sociale e militare, viene fondata la nuova città dei cuculi tra le nuvole (Nefelokokkugiva), da Pistetero ed Evelpide, i due Ateniesi disgustati dei concittadini e guidati dai volatili.
Nella nuova polis arriva, con altri sgraditi ciarlatani, fanfaroni e assassini (tra cui uno spacciatore di oracoli e un parricida, altrettante caricature di esistenze moderne e deformi) anche un sicofante il quale reclama delle ali (1420): gli servono per denunziare, sostenere l'accusa e tornare indietro volando (1455). Naturalmente Pistetero lo caccia non senza averlo prima picchiato perché impari quanto "amara è l'arte di stravolgere la giustizia"(1468).

 I sicofanti, come si vede, sono legati ai processi: non potevano dunque non essere almeno menzionati nelle Vespe (del 422) che poi sono gli Eliasti, i giudici del tribunale popolare chiamato Eliea. Costoro erano seimila e secondo Aristofane avevano la mania dei processi con i quali perseguitavano le persone invise a loro e a Cleone che li corteggiava: il demagogo aveva anche alzato l' indennità eliastica da due a tre oboli al giorno. In compenso questi giudici infliggevano pene e multe agli oppositori del regime; ma non avrebbero potuto agire tanto efficacemente (c'è chi parla di una dittatura del proletariato ante litteram esercitata attraverso questo tribunale) se non ci fossero stati i delatori cui bastava muovere l'accusa generica di aspirante tiranno. E chiunque provasse qualsiasi antipatia per chiunque, poteva denunciarlo. In questa commedia che mette in berlina giudici e processi, Aristofane racconta che al mercato
"se uno compra scorfani e non vuole sardine,
subito quello che lì vicino vende sardine dice:
"quest'uomo evidentemente vuole fare provviste (di scorfani) per la tirannide!"(Vespe, 493 - 495).




continua

[1] Di fine gennaio: un concorso comico cui gli alleati non potevano intervenire a causa della stagione. 

1 commento:

  1. Sicuramente la letteratura contemporanea,al contrario della commedia antica, non sempre si pone come educativa,spesso cade nel volgare e nel gratuito per attirare lettori avidi di oscenità prive di gusto... Giovanna Tocco

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