venerdì 1 gennaio 2016

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte XII

Carlo Adelio Galimberti, Protesilao e Laodamia

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Evitare le immagini
Altro rischio di ricaduta sta nella vicinanza delle immagini che vanno allontanate: "Si potes et ceras remove; quid imagine muta/carpĕris? hoc periit Laudamia modo" (vv. 723 - 724) , se puoi allontana anche le immagini; perché ti lasci afferrare da un muto ritratto? in questo modo morì Laodamia. Questa donna, rimasta vedova del marito Protesilao, primo caduto tra i Greci sbarcati a Troia, cercò di consolarsi della perdita con un manichino di cera che abbracciava di nascosto. Quando il padre se ne accorse e gettò quel funereo surrogato nel fuoco, la donna lo seguì. Un altro mito di amore e morte. Se ne trova un'eco nell'Alcesti di Euripide quando Admeto promette alla sposa morente che non prenderà in casa un'altra femmina umana in carne ed ossa ma si farà costruire una bambola simile a lei e la abbraccerà nel loro letto invocando il suo nome: "yucra; n mevn, oi\mai, tevryin" (v. 353) , gelida gioia, credo.

Evitare i loca conscia dell’amore perduto
 Anche i luoghi dell'amore perduto bisogna evitare: "Et loca saepe nocent; fugito loca conscia vestri/concubitus; causas illa doloris habent. /"Hic fuit; hic cubuit; talamo dormivimus illo; / hic mihi lasciva gaudia nocte dedit". / Admonitu refricatur amor vulnusque novatum/scinditur; infirmis culpa pusilla nocet" (vv. 725 - 730) , anche i luoghi spesso - fanno male; evita i luoghi consci della vostra unione; quelli conservano motivi di dolore. " Qui è stata; qui si è stesa; in quel letto abbiamo dormito; qui mi ha dato gioie in una notte sfrenata". Dal ricordo viene ravvivato l'amore e la ferita rinnovata si riapre; ai malati fa male un errore pur piccolo.
 - nocent... nocet: pure questo termine, etimologicamente imparentato con nex, necis, "uccisione", con pernicies, rovina, e con il greco nevku", morto, nevkuia, evocazione dei morti, richiama l'idea insistente della negazione della vita sempre presente in questo rimpianto, " vano pascolo d'uno spirito disoccupato"[1].
 - loca conscia: i luoghi al corrente delle nostre azioni o dei nostri pensieri echeggiano i fatti di cui sono stati testimoni.
Leopardi attribuisce la coscienza delle sue notti travagliose al letto dove le passava: "sul conscio letto, dolorosamente/alla fioca lucerna poetando…" (Le Ricordanze, vv. 115 - 116) , con un nesso però che risale piuttosto ad Apuleio il quale fa dire ad Aristomene, un personaggio del suo romanzo: "gratabule, inquam, animo meo carissime, qui mecum tot aerumnas exanclasti, conscius et arbiter quae nocte gesta sunt…" (Metamorfosi, I, 16) , lettuccio, dico, carissimo all'animo mio, che con me tante tribolazioni hai sopportato, conscio e giudice di quanto è stato fatto questa notte. - gaudia…vulnusque novatum scinditur: è un'operazione contraria a quella del tw''''''''// pavqei mavqo" ossia della ferita che deve fiorire" in tanta luce"[2]: la gioia, non autentica, non profonda, solo epidermica, si capovolge in ferita.

Segue il rapporto amore - fuoco - cenere.
Questa volta però leggiamolo prima in un moderno: il protagonista di Il piacere (del 1889) si sente ravvivato dalla visione di "Donna Maria…per Andrea quella signora alta e ondulante sotto il mantello di viaggio e velata, di cui egli non vedeva che la bocca e il mento, ebbe una profonda seduzione. Tutto il suo essere, illuso in quei giorni da una parvenza di liberazione, era disposto ad accogliere il fascino dell' "eterno feminino". Appena smosse da un soffio di donna, le ceneri davano faville"[3].

Ora vediamo quello che potrebbe essere il modello dell'immagine dannunziana: "Ut, paene extinctum cinerem si sulphure tangas, /vivet et e minimo maximus ignis erit, / sic, nisi vitaris quidquid renovabit amorem, / flamma redardescet, quae modo nulla fuit" (vv. 731 - 734) , come se attizzi con lo zolfo la cenere quasi spenta essa si ravviverà e da un piccolissima scintilla verrà una grandissima vampa, così, se non avrai schivato tutto ciò che rinnovellerà l'amore, la fiamma che poco prima era sparita di nuovo divamperà. - vitaris=vitaveris.
Nemmeno il poeta di Sulmona che dall'esilio definirà se stesso " tenerorum lusor amorum"[4], lieto cantore dei teneri amori, riesce a trovare sempre qualche cosa di festoso nella fiamma erotica.

La ricchezza favorisce gli amori sregolati
Segue un'affermazione di stampo platonico: la ricchezza è un'occasione per l'amore sregolato e rovinoso il quale ne viene nutrito: "divitiis alitur luxuriosus amor " (v. 746) . Vengono fatti gli esempi delle famose cretesi lussuriose, Pasife e Fedra, che se fossero state povere come Ecale e Iro non sarebbero arrivati ai noti eccessi: "Nempe quod alter egens, altera pauper erat " (v. 748) , evidentemente poiché uno era povero, e l'altra possedeva poco. Ecale é la vecchietta che, nell' omonimo epillio di Callimaco, diede ospitalità a Teseo, e Iro il pitocco di Itaca steso da Odisseo (Odissea XVIII) .

Un platonismo applicato all'eros: infatti il filosofo, nel Gorgia, denuncia il potere, e quindi anche la ricchezza ad esso congiunta, come occasione per fare il male e pone i tiranni tra i grandi criminali incurabili (ajjjjnivatoi, 525c) poiché hanno commesso i delitti più atroci e non espiabili. Costoro, non potendo più redimersi, servono come paradeivgmata, esempi negativi per gli altri, stando sospesi nel carcere dell'Ade. Tra questi contromodelli ci sarà il despota Archelao[5] e quanti altri, tiranni, re, dinasti e politici, sono portati dal loro stesso potere a delinquere gravemente. Per avallare questa affermazione è chiamato in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn {{Aidou to; n ajei; crovnon timwroumevnou"" (525e) , puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth" ") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" (526a) quelli malvagi assai.
Il benessere della classe media
Non per questo Ovidio consiglia la povertà: "Non habet unde suum paupertas pascat amorem; /non tamen hoc tanti est, pauper ut esse velis" (vv. 749 - 750) , la povertà non ha nulla con cui possa nutrire l'amore; tuttavia questo fatto non è tanto importante da voler essere povero.
Sembra che il poeta propenda per quella teoria della classe media indicata da Euripide come salvezza della città nelle Supplici.
Il v. 749 viene citato da Andrea Cappellano quando insegna che il sapiens amator, l'amante saggio non deve gettare le ricchezze tamquam prodigus, come lo scialacquatore (De amore[6], I, 6) .

Evitare i teatri per schivare l’amore (Remedia) ; frequentarli per trovare avventure (Ars)
 Ovidio procede esortando a non frequentare i teatri finché ci si vuole liberare dall'amore: " Enervant animos citharae lotosque lyraeque/et vox et numeris bracchia mota suis" (753 - 754) , stremano la volontà le cetre il flauto e le lire e il canto e le braccia mosse secondo i ritmi impressi.
Nell'Ars (I, 89) il poeta viceversa consiglia il predatore erotico di andare a caccia soprattutto nei teatri, ma in quel contesto la condizione spirituale dell'allievo era diversa, e il maestro deve dare prova di flessibilità nell'interesse del discepolo. Questo è così preminente che Ovidio arriva, pur controvoglia, a sconsigliare i poeti d'amore: "Eloquar invitus; teneros ne tange poetas" (v. 757) .

Consiglio paradossale: evitare i poeti d’amore. Callimaco, Filìta, Anacreonte, Tibullo, Properzio, Gallo e lo stesso Ovidio.
Segue una rassegna di questi poeti teneri che inteneriscono l'animo quando questo al contrario si deve indurire. Li conosciamo quasi tutti; possiamo ripassarli nella prospettiva ovidiana.
"Callimachum fugito; non est inimicus Amori; /et cum Callimacho tu quoque, Coe, noces. /Me certe Sappho meliorem fecit amicae, /nec rigidos mores Teia musa dedit. /Carmina quis potuit tuto legisse Tibulli, /vel tua, cuius opus Cynthia sola fuit? /Quis poterit lecto durus discedere Gallo? /Et mea nescio quid carmina tale sonant" (vv. 759 - 766) , evita Callimaco; non è ostile all'amore; e con Callimaco anche tu fai danni, poeta di Cos. Certamente Saffo mi ha reso più generoso con l'amica, né la musa di Teo ha prescritto costumi severi. Chi ha potuto leggere le elegie di Tibullo restando al sicuro, o le tue la cui occupazione fu la sola Cinzia? Chi potrà allontanarsi insensibile dopo avere letto Gallo? Anche le mie poesie echeggiano un non so che di simile. - fugito: il solito imperativo futuro delle prescrizioni e delle massime. - inimicus amori: Callimaco non è contrario all'amore ma certamente la sua poesia non è incline al pathos erotico, come nota Snell. L'autore di La cultura greca e le origini del pensiero europeo prende in considerazione alcuni epigrammi del poeta di Cirene, tra cui quello già citato (Anth. Pal. XII, 102) del suo amore che, come il cacciatore, insegue chi fugge mentre passa oltre chi gli giace disteso davanti. Un altro epigramma emblematico (A. P. XII, 134) è quello in cui il poeta nota i segni dell'amore doloroso di un commensale per vederci il proprio: "fwro; " dj j i[cnia fw; r e[maqon", io ladro, riconosco le tracce del ladro.
"Egli descrive dunque l'amore altrui solo per poter confessare il proprio…Per mezzo di questa forma indiretta Callimaco ha evitato l'espressione patetica "io amo"; la confessione ne risulta ironicamente spezzata, e sembra che la dichiarazione d'amore gli sia sfuggita per caso"[7].
 Interessante anche XII 73 dove Callimaco dice che metà della sua anima hJmisuv meu yuch`~ ancora respira, l’altra metà è sparita forse rapita da Amore o dalla Morte. Oppure è andata da qualche ragazzo e si rotola in un amore infelice dusevrw~ strevfetai.
 - Coe: il poeta di Cos è Filìta (IV - III sec. a. C.) ritenuto con Callimaco maestro della nuova poesia alessandrina. Properzio invoca insieme i mani dei due poeti perché lo lascino entrare nella loro selva sacra (III, 1, 2) .
Teia musa: è quella di Anacreonte, nato a Teo, nella Ionia, e vissuto all'incirca tra il 570 e il 485 a. C. Frequentò i tiranni Policrate di Samo e Ipparco di Atene. - rigidos mores: infatti nell'opera di Anacreonte prevale la cavri", la grazia: "cariventa mevn g jjjj ajeivdw, cariventa d j oi\\\\da levxai (fr. 32 D., v. 2) , canto cose piacevoli, parole piacevoli so dire. Contro l'irrigidimento mentale, o morale o presunto tale, usa una bella immagine Emone nell'Antigone quando cerca di indurre il padre a una maggiore flessibilità, intesa come mitezza[8]: "Tu vedi presso le correnti gonfie come, /quanti tra gli alberi si piegano, salvano i rami, /mentre i renitenti sono annientati con le stesse radici" (vv. 712 - 714) .
Gli fa eco H. Hesse: " L'universale torrente delle forme, quello che Dio aspirava insieme con l'altro, ovvero che Dio espirava, continuava a scaturire. Klein vedeva esseri che si opponevano alla corrente e tra paurose convulsioni si inalberavano procurandosi orrendi dolori: eroi, delinquenti, pazzi, pensatori, amanti, religiosi"[9].

 - Tibulli: il poeta nell'elegia proemiale (I, 19) in effetti si presenta, in contrapposizione al guerriero Messalla Corvino, suo amico e protettore del resto, come un servo legato e umiliato da Delia: "me retinent vinctum formosae vincla puellae, /et sedeo duras ianitor ante fores" (vv. 55 - 56) , mi trattengono legato le catene della bella fanciulla, e siedo come portiere davanti ai duri battenti. - tua (sott. carmina) : di Properzio.
 - Cyntia sola fuit: echeggia le dichiarazioni dello stesso poeta nel monovbiblo", il primo dei quattro libri di elegie, pubblicato nel 28 a. C. "Tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes (I, 11, 23) , tu sola sei per me, Cinzia, la casa, sola i genitori
La prima elegia dei quattro libri del "romano Callimaco" si apre nel nome e con gli occhi di Cinzia: "Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis " (I, 1, 1) , Cinzia per prima ha preso me infelice con i suoi occhi; una cattura non solo dolorosa ma anche definitiva: "Mi neque amare aliam neque ab hac desistere fas est: / Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit " (I, 12, 19 - 20) , io non posso amare un'altra né staccarmi da lei: Cinzia è stata la prima, Cinzia sarà l'ultima. Gli occhi, ribadisce più avanti Properzio, per chi ancora non l'avesse capito, sono i comandanti nella guerra amorosa: "si nescis, oculi sunt in amore duces " (II, 15, 12) .

 Siccome questi tovpoi amorosi si ripetono, in tutti i tempi, a vari livelli, ricordo una canzone di amore struggente, molto in voga nei primi anni sessanta, L'uomo del banjo, che faceva: " è lei la prima e l'ultima, che cosa mai ci avrà? / è lei la più difficile che solo male mi fa!". Nihil novi sub sole.

. - lecto…Gallo: ablativo assoluto. E' il primo elegiaco (69 - 26 a. C.) del canone di Quintiliano che attribuisce grande credito a questi poeti: "elegīa quoque Graecos provocamus" (Institutio oratoria, X, 10, 93) , anche nell'elegia sfidiamo i Greci. Noi lo conosciamo attraverso la mediazione di Virgilio[10], e per pochi versi che contengono già le parole chiave dell'elegia latina: domina, servitium amoris, nequitia "che definisce uno dei caratteri distintivi di questa vita vissuta con sofferenza contro i valori portanti della morale quiritaria"[11].
Conte avverte che l'attribuzione a Gallo di otto dei nove versi, trovati di recente, è dubbia; "ma certo questi frammenti papiracei ci consegnano un'immagine di Gallo vicina a quella tramandataci da Virgilio, e sembrano confermare la sua importanza come mediatore fra neoterismo ed elegia augustea"[12].
Ovidio nei Tristia, ricapitolando la sua vita, riconoscerà a Gallo il primo posto nell'elegia, almeno in ordine di tempo: "Vergilium vidi tantum, nec avara Tibullo/tempus amicitiae fata dedere meae. /Successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi, /quartus ab his serie temporis ipse fui" (IV, 10, 51 - 54) , Virgilio lo vidi soltanto, né il destino avaro concesse tempo per la mia amicizia a Tibullo[13]. Egli succedette a te, Gallo, e Properzio a lui, quarto dopo questi in ordine di tempo fui io.

Torniamo ai Remedia (v. 766) e sentiamo anche Leopardi
nescio quid: è il vago e l'indefinito che ogni poesia deve avere. Lo ha chiarito Leopardi che del resto non è un estimatore di Ovidio: sostiene che il Sulmonese sia un poeta il quale descrive piuttosto che dipingere come Virgilio o scolpire come Dante[14] e che "si lasciava trasportare dalla sua vena e copia, con poco uso della lima, siccome p. lo stile, così p. la lingua"[15]. E più avanti: "ei non ha maggior intento né più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare immagini e pitturine, e figure, e rappresentare continuamente" (p. 3480) . Io credo che il pur grandissimo recanatese non avesse gli strumenti extraletterari per capire Ovidio.



continua


[1] G. D'Annunzio, Il Piacere, p. 40.
[2] H. Hesse, Siddharta, p. 135.
[3] G. D'Annunzio, Il piacere, p. 155.
[4] Tristia, IV, 10, 1.
[5]Tiranno di Macedonia dal 413 a. C.
[6] Trattato del 1185
[7] Il giocoso in Callimaco, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 379.
[8] Ora invece significa facoltà di licenziare arbitrariamente.
[9]H. Hesse, Klein e Wagner, p. 162.
[10] nella X ecloga Cornelio Gallo cerca di sfuggire alla sofferenza amorosa, che Licoride gli infligge, col proposito di percorrere le montagne dell'Arcadia a caccia di aspri cinghiali mescolato alle Ninfe: "Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis, /aut acris venabor apros " (vv. 55 - 56) . -
[11] G. B. Conte, Scriptorium classicum, 2, p. 104.
[12]G. B. Conte, Scriptorium classicum, 2, p. 104.
[13] Morì nel 19 (come Virgilio) o nel 18 a. C.
[14] Zibaldone, 2523.
[15]Zibaldone, 3063. 

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