sabato 2 gennaio 2016

La Debrecen del 1979. III parte

foto di Polina Oshmianskaya
La fantasticheria del dicembre del ’68 e l’occasione non acciuffata[1] per i capelli biondi nel luglio 1978.
La lettera barocca e squilibrata


Dal primo settembre avevo lavorato continuamente, senza concedermi una mezza giornata di pausa.
Il 24 luglio del 1979 dunque, percorrendo all’indietro il fiume del tempo, del sangue mio e della vita, rividi quella notte già allora remota del dicembre del ’68.
Ero a Bologna, in via Del Borgo, in una stanza di una casa vecchia e mal riscaldata. Mi ero coricato da poco: fissavo il soffitto segnato da strisce di luce giallognola che entravano dagli scuri soltanto accostati. Quel giorno di mia vita mortale avevo scritto parecchie pagine dalla mattina presto a mezzanotte, quasi senza intervallo, e, prima di riprendere a lavorare con lena, avrei dovuto dormire, ma non oltre le sette e mezzo. Dovevo terminare la tesi, sulla poesia ungherese del Novecento, non più tardi del 5 febbraio; scrivevo da tre mesi ed ero arrivato appena a metà. Volevo dormire, però la paura angosciosa di non compiere il grande lavoro che doveva arrivare a cinquecento pagine dattiloscritte, non mi lasciava prendere sonno.
Allora decisi di non dormire e di intrattenere pensieri confortanti: mi diedi a rinovellare mentalmente le più belle esperienze della mia vita. Pensavo alle assemblee studentesche della nostra bella primavera, ai discorsi politici che reclamavano giustizia, uguaglianza, solidarietà tra gli umani, alle due estati passate in Ungheria, al grande bosco di Debrecen, alle feste nella Nyári Egyetem, alla bionda Eeva Vuortama quando, la sera dell’addio, mi portò una rosa alla grande fontana antistante la bella facciata dell’edificio asburgico che si specchia nell’acqua multicolore quando schizzano gli zampilli vivaci sopra la vasca e si accendono le tante finestre insieme con le stelle del cielo sereno, che torna azzurro dopo il tramonto del sole. Con questi ricordi mi consolavo della vita dura e deserta che menavo da mesi. Quindi pensavo che dopo la laurea avrei cominciato a insegnare: allora bastava volerlo, magari spostandosi verso nord est. Poi, in luglio, proseguendo verso oriente, sarei tornato a Debrecen, sarei andato alla festa della conoscenza, e, finita questa, mi sarei seduto su una delle panchine di pietra inserite nelle nicchie della facciata dell’Università estiva; e di lì magari sarebbe passata una ragazza italiana bella e intelligente, forse proprio quella splendidissima bionda che avevo sentito parlare con eleganza e proprietà in primavera dentro l’Università di Bologna occupata da noi sessantottini. Si chiamava Dadi quella ragazza, aveva un dente un po’ fuori posto eppure era bella, espressiva, luminosa: brillava di un fuoco interiore, aveva lunghi capelli, era ben fatta, allettante, armoniosa come una dea, chiara nella pelle liscissima e aveva occhi d’oro brunito dolci e vivaci; ebbene se  quella creatura perfetta mi fosse passata accanto lì a Debrecen, dove Eros faceva incontrare ragazze e ragazzi perché si amassero senza timori e con pochi pudori, l’avrei chiamata, e se non mi avesse sentito, l’avrei inseguita. Le avrei chiesto di stare con me, di fare una bambina con me. Tali progetti facevo in piena notte, al culmine dell’inverno, nella solitudine semifredda della stanzetta quasi buia. Dopo tale fantasticheria della fine del ’68, ero andato avanti altri dieci anni con il metodo degli amori mensili per le finlandesi estive di Debrecen, senza impiegare il cuore e la mente con le donne in Italia che pure incontravo e conoscevo volentieri nell’ambiente del lavoro iniziato davvero subito dopo la laurea. Ma nell’autunno del ’78 avevo smesso di procedere metodicamente per la strada degli amori mensili e delle avventure istantanee, innamorandomi di Ifigenia.
Ordunque, il 24 luglio del ’79, mentre ero seduto sulla panchina a ricordare e riflettere, vidi passare l’aurichiomata tedesca che, se non altro per i capelli, poteva ricordarmi la Dadi della fantasticheria. La giovane donna si accorse di me, si voltò e mi salutò con un sorriso. Poi si fermò. Probabilmente aspettava una risposta. Magari che la chiamassi. Per un momento sentii l’impulso, quasi il riflesso condizionato, di avvicinarmi e proporle una gita a Hortobágy oppure una cena all’Aranybika, il metodo trovato e consolidato dal 1970 in avanti con le finniche conosciute. Pensai che molto mi sarebbe stato perdonato se avessi amato anche questa che era pienotta, belloccia e allettante non poco. Stava per scatenarsi la bestia dentro di me. Ma prima che trionfasse, pensai di darle spaccio.
Mi venne in mente che quell’estate le cose potevano andarmi meglio del solito, in quanto l’amore non dovevo cercarlo ma solo evitare di perderlo: infatti in Italia c’era Ifigenia che amavo e mi aspettava e quasi certamente-credevo- mi stava pensando anche in quel preciso momento. In seguito a questo difettosissimo sillogismo, alla ragazza tedesca che mi avrebbe per lo meno arricchito di una nuova esperienza e altri ricordi, non diedi retta. Quella sera avevo imprudentemente deciso di essere santo e anacoreta piuttosto che satiro potente e lieto, e rinunciai a ribattezzarmi pagano nelle onde dei suoi capelli pieni di vita.
La salutai con un sorriso quasi mesto e non mi alzai per avvicinarla, né la invitai a venirmi vicino. Un errore dell’intelligenza, uno sbaglio anche politico, poco meno peggiore di un crimine. L’avrei pagato con somme colossali di pena.
Con Ifigenia, tornato in Italia, le ore sarebbero state piene di tristezza e di noia nei primi tempi. Poi sempre peggio!
La bionda, non incoraggiata, girò la testa dalla parte della fontana, quindi si allontanò verso i binari del tram numero uno, l’unico tram a dire il vero ma tanto caro al cuore.
Così, pensai, realizzo la fantasticheria remota: non fermando la tedesca, a un’avventura con una straniera avevo preferito un amore serio e impegnativo con una donna italiana, una bruna, di aspetto del tutto mediterraneo.
Poco dopo salii in camera. la solita nel secondo collegio: la numero quattro del terzo piano. Salutai Alfredo che scherzava giovanilmente con un paio di nuovi ragazzi, sebbene  oramai quarantenne, e sedetti nello studio contiguo per scrivere a Ifigenia. Le dissi che mi mancava al punto che lì a Debrecen, nella cittadina universitaria dove avevo visto l’inizio e lo sfolgorare delle mie gioie, ed era un luogo pur sempre pieno di offerte simpatiche, mi sentivo dimezzato senza di lei e ne soffrivo. Aggiunsi che quella sera non mi sarei unito ad alcuna brigata più o meno lieta, ma sarei rimasto solo per pensare a lei, la mia compagna ricca di mito e di poesia.

Il giorno seguente, 25 luglio 1978, lo passai in solitudine fino alle 10 di sera. Lessi e studiai la Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, poi All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust, corsi i 5000 metri nello stadio due volte, pensai a Ifigenia, quindi le scrissi questi pensieri da squilibrato:
“Ifigenia, tesoro, tu non sei qui, ma il ricordo del tuo sorriso abbronzato e festivo decora tutte le ore della mia giornata solitaria, studiosa e riflessiva. Ricordo il tuo splendido corpo che, svestito a festa, illuminava le stanze di casa mia, cupe altrimenti nella tetra atmosfera della nostra città dove lunghi sono gli inverni; ricordo le tue gonne che, quando mi correvi incontro, si sollevavano al vento di primavera profumandolo con l’odore santo della tua pelle; ricordo come il tuo corpo brunito, all’inizio di questa stagione, faceva tremare di luce l’aria marina quando andavamo sul moscone, al largo della spiaggia di Pesaro per fare l’amore, e le farfalle ci danzavano intorno i loro  valzer pieni di gioia. Io ti amo, Ifigenia, ti amo. Questi ricordi mi mantengono vivo, emozionato, attivo anche nella tua assenza pur dolorosa, e il tuo sorriso illumina, riempie di vita il mio cervello che altrimenti si stancherebbe nello studio della storia dell’imperialismo romano e di Proust, sensibilissimo e raffinato ma privo d potenza verbale e di capacità sintetica. Ho con me la copia di L’ombra delle fanciulle in fiore che mi regalasti, e non manco mai di accarezzare, odorare, baciare la pagina sacra con le parole della tua dedica ricca di amore e di arte. Così il profumo di te, portato dal vento dell’ovest, mi ispira, mi spinge a correre lo stadio più di una volta al giorno con tutte le forze, a cronometro, e mentre spremo con gioia i liquidi del mio corpo agonista, mi sembra di avere un orgasmo con te.
La tua presenza in carne deliziosa e ossa modellate con arte, la tua parola intuitiva, poetica, amore, mi manca a tal punto che se l’effluvio odoroso di te, portato dal vento occidentale, si attenuerà, allora io, invece di andare allo stadio, situato dalla parte dei selvosi Carpazi, andrò dalla parte di Budapest e di Hortobágy, verso la grande pianura senza alberi: là correrò, anelando, mentre i soffi dell’aria pienamente odorosa di te mi benediranno e mi renderanno beato con il tuo aroma tutto intero prima che questo sia stato filtrato dalle avide, invide foglie assorbenti della grande foresta di Debrecen. Io allora continuerò a inebriarmi dell’essenza preziosa  esalata dalla tua carne divina.  
Ciao. Come vedi, ti penso
Tuo
gianni”

Tali barocchismi generava la mia sciocca, sciroppata e perversa smania amorosa.   



continua

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[1] Quindi perduta, poiché, come si sa, l’occasione è calva di dietro.

1 commento:

  1. Questo brano è splendido...anche se non trovo che sia un occasione perduta ,quando si ama si ha bisogno di monogamia.Giovanna Tocco

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