mercoledì 27 gennaio 2016

La Commedia antica. Aristofane. IX parte

Ermes con Dioniso bambino
scultura di Prassitele

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Poco dopo arriva il primo creditore: Strepsiade il quale ha imparato da Socrate che gli dèi non esistono, non si perita di giurare il falso "su Zeus Ermes e Poseidone" le tre divinità su cui si poteva esigere il giuramento dal debitore secondo la legge di Solone. Quindi, ricorrendo pure a un gioco di parole, ad un trabocchetto lessicale, Strepsiade non paga. Poi non dà retta a un secondo creditore poiché non sa nulla dei fenomeni celesti (1285) e per il fatto che il debito non è naturale in quanto cresce ogni giorno, mentre il mare che è naturale, pur con tutti i fiumi che vi corrono dentro, rimane sempre uguale (1293 - 1297). A questo sofisma il vecchio aggiunge minacce, infine rientra in casa. Allora le nuvole presagiscono guai all'attempato sofista (1310) che si è voluto e dovrà godersi
"un figlio abile nel sostenere argomenti
 contrari alla giustizia"(1314 - 1315).
L'ingiustizia insomma non paga mai. Infatti subito dopo il vecchio esce piangendo da casa: il figlio lo ha picchiato pesantemente:
"ahimé disgraziato: povera la mia testa e la mia mascella.
Oh scellerato, percuoti tuo padre? "(1322 - 1323).

Fidippide non è pentito e non nega, anzi si appresta a dimostrare che ha picchiato stando "nella giustizia"(1331).

Naturalmente si tratta della giustizia di un'umanità che nega i valori; Esiodo la chiama "stirpe ferrea"(Opere, 176) che vive un'età di violenza nella quale i figli disprezzano i genitori "quando cominciano a farsi vecchi"(185) e li insultano con parole dure usando il diritto del più forte (189).

 Del resto il padre della commedia di Aristofane non è incolpevole: infatti esclama:
"io però ti mandai a scuola, disgraziato,
perché trovassi argomenti contro la giustizia!"(1338 - 1339), senza comprendere quanto sia irrazionale quel "però".
Quindi Strepsiade racconta come è nata la contesa con il suo rampollo.
Padre e figlio erano a tavola quando il vecchio chiese al giovane di prendere la lira e cantare una canzone di Simonide. Fidippide si rifiutò perché si trattava di roba antiquata (1357).

Si ricorderà che il poeta è quello dell'encomio per gli eroi delle Termopili[1], un lirico che non può essere simpatico a una gioventù nichilista.

Il padre allora lo pregò di recitargli qualche cosa di Eschilo.
Ma il ragazzo si inalberò:
"io infatti considero Eschilo il primo tra i poeti
pieni di frastuono, incoerenti, ampollosi, pieno di dirupi"(1366 - 1367).

Fidippide con tale critica anticipa quanto dirà Euripide, personaggio delle Rane, contrò la poesia di Eschilo.
In questa commedia, Aristofane costruisce un agone letterario tra i due drammaturghi scesi nell'Ade:
"disse una dozzina di parole grosse come buoi
con cipiglio e cimiero, certi terribili spauracchi
incomprensibili agli spettatori"( Rane, 924 - 926).

 Il giovane dunque è un euripideo. Infatti quando il padre gli chiese:
"recitami qualche cosa di questi poeti nuovi"(1370), egli attaccò subito un passo di Euripide
"come un fratello, Dio ci scampi, sbatteva la sorella uterina"(1372). Allora il padre lo ingiuriò e il figlio lo picchiò duro.
 La scena torna in diretta, il ragazzo interviene e pretende pure di avere ragione. Il padre gli obietta che è un ingrato:
"io ti ho allevato
e capivo tutto quello che volevi quando ancora balbettavi.
Ogni volta che dicevi bru, io capivo e ti davo da bere;
se chiedevi la pappa io correvo e ti portavo il pane
e ancora prima che dicessi cacca ti portavo fuori dalla porta
e ti reggevo; tu invece poco fa mentre mi strangolavi
ed io gridavo e strillavo che
me la facevo sotto, hai osato
non portarmi fuori dalla porta,
 mascalzone, ma l'ho fatta lì
la cacca, mezzo strozzato"(1380 - 1390).

Il peccato capitale dunque, quello per il quale non c'è remissione ma si è dannati per sempre nel fango e nello sterco secondo lo stesso Aristofane nelle Rane (149) o tormentati dalle Furie secondo Virgilio (Eneide, VI, 608), picchiare il padre insomma, è un gesto di moda tra i giovani che hanno avuto cattivi maestri come Euripide e Socrate.

A questo punto interviene il coro e chiede al ragazzo di giustificare la sua iniquità cercando qualche argomento persuasivo che abbia almeno l'apparenza del giusto (1397). Fidippide esulta poiché ha imparato la capacità di "disprezzare le leggi stabilite"(1400).

Strano che ad insegnarla sia stato proprio il maestro di Platone il quale nel Critone rappresenta Socrate mentre preferisce morire obbedendo alle leggi, pur usate male dai giudici, che salvarsi con la fuga, rifiutando la giurisdizione sotto la quale è nato, cresciuto ed ha accettato durante l'intero corso della sua vita. Eppure questo suo presunto discepolo è tutto contento poiché Socrate gli ha insegnato ogni trasgressione, cominciando da quella ritenuta più grave:
"sono certo di dimostrare che è giusto punire il padre"(1405).

In realtà Socrate analizzava e criticava i luoghi comuni contrari alla ragione e alla morale, come il vizio diffuso di trascurare l'anima per cercare solo il benessere materiale. Un altro dramma dove possiamo trovare un figlio che castiga il padre, ma con il consenso dell'autore, è la commedia successiva dello stesso Aristofane: le Vespe (del 422) nella quale il vecchio Filocleone, ossia amico del demagogo più noto di Atene, è un giudice che desidera solo recarsi nel tribunale popolare per fare un poco di male e prendere i tre oboli di paga; mentre il giovane Schifacleone lo chiude in casa a giudicare il cane che ha rubato un pezzo di cacio.

Fidippide dunque dà inizio alla dimostrazione e domanda al padre:
"quando ero bambino mi picchiavi? "(Nuvole, v. 1409).
Strepsiade risponde:
"Io sì perché ti volevo bene e avevo cura di te"(1409).
Dunque, ne inferisce il giovane
"evidentemente volere bene significa picchiare"(1412), quindi estende il ragionamento avvalendosi anche della letteratura, naturalmente quella dell'altro cattivo maestro, Euripide, con l'uso di un verso parodiato dell'Alcesti:
"piangono i figli; non pensi che debba piangere il padre? " che è il travestimento derisorio di: "Tu godi nel vedere la luce: credi che il padre non ne goda? " che Ferete dice al figlio Admeto (v. 691), un egoista il quale pretende il sacrificio della vita dei genitori per conservare la propria.
Ma tornando alla creatura di Aristofane, costui per coonestare la bastonatura al padre utilizza altri argomenti sofistici tra cui la relatività delle leggi e dei costumi e l'agire istintivo degli animali:
"osserva i galli ed altri animali del genere
come puniscono i padri: ebbene in che cosa sono diversi
da noi quelli, a parte il fatto che non scrivono decreti? "(1426 - 1428).

Allora il padre risponde con l'argomentazione che si trova nella favola dello sparviero e dell'usignolo di Esiodo (Opere, 202 e sgg. ): per le bestie è naturale la violenza e la legge del più forte; ma noi uomini siamo diversi dagli animali:
"allora, siccome imiti in tutto i galli, perché
non mangi anche sterco e non dormi su un asse? "(1430 - 1431).
Fidippide elude la risposta invocando l'autorità di Socrate.
Ma avere picchiato il padre non gli basta:
"io ho intenzione di picchiare la madre come ho fatto con te"(1442). Il vecchio inorridisce, ma l'allievo di Socrate preannuncia buoni argomenti tratti dal discorso debole per dimostrare la necessità di picchiare la madre.
Siamo così giunti all'Esodo (1452 - 1510).

Strepsiade accusa le Nuvole di avergli montato non bene la testa e queste si giustificano dicendo di avere voluto metterlo alla prova:
"noi ci comportiamo sempre così: quando capiamo che uno
è incline alle cattive azioni,
agiamo fino a gettarlo nel male,
perché impari a temere gli dèi"(1458 - 1461).
Strepsiade riconosce che è giusto: egli non doveva frodare il denaro preso a prestito. Ora ha capito. Troviamo anche qui, nella Commedia antica, come pure, vedremo, nella nuova di Menandro, la comprensione che nella tragedia salva l'uomo dall'annientamento (cfr. "ora comprendo" di Admeto nell'Alcesti, v. 940).
Però non è ancora finita: Strepsiade vuole punire Cherefonte e Socrate che hanno ingannato lui e il figlio. Vuole "dare fuoco alla casa di quei ciarlatani"(1484 - 1485). E tosto esegue, senza lasciarsi fermare dalle proteste dei discepoli. Le Nuvole lasciano l'orchestra mentre il Pensatoio crolla divorato dalle fiamme.
Così noi lasciamo Aristofane.


continua


[1] Per chi non lo conoscesse, riferisco l'encomio di Leonida e dei suoi opliti morti per ritardare l'avanzata di Serse nel 480 a. C. (fr. 5 D. ):
"dei morti alle Termopili
gloriosa è la sorte, bello il destino,
un altare è il sepolcro (bwmo; ~ d j o tavfo~), e invece dei lamenti c'è il ricordo, e il compianto un encomio (oi\kto~ e[paino~)/
Un sudario del genere né ruggine
né il tempo che tutto doma (oJ pandamavtwr crovno~[1]) oscurerà.
Questo recinto sacro di uomini prodi si prese
come custode la gloria dell'Ellade: lo testimonia anche Leonida/
re di Sparta che ha lasciato un grande ornamento
di valore, e fama perenne.

1 commento:

  1. Purtroppo picchiare gli anziani,i deboli, i bambini,le donne e gli indifesi è una moda che non passa mai,la modernità di questi testi fa riflettere su quanto sia antica l'anima dell'uomo.Spesso i figli sono ingrati. Giovanna Tocco

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