sabato 21 maggio 2016

Introduzione alla tragedia greca: Sofocle. Parte I


Sofocle
Sommario
Vita e opere. L’assenza della misura è la radice di ogni male. L’u{bri~ fa crescere la mala pianta del tiranno. La devozione verso gli oracoli, prima di tutti quello delfico. L’eujkoliva e la qeofiliva di Sofocle. Il suo debito a Omero. La critica elogiativa dell’Anonimo Sul sublime. L’ambiguità dell’affabulazione sofoclea. L’ironia tragica. La forza dei legami di sangue. L’arcaismo di Sofocle. L’umanesimo di Sofocle. Le Trachinie: Il tema della moglie trascurata e oltraggiata che cerca di recuperare il marito assenteista e infedele.

Sulla vita di Sofocle riferisco i dati che possono avere influenzato l'opera o impressionato la critica. Nato nel 497 - 496 da famiglia agiata, nel 480 guidò il coro dei giovinetti che celebrarono la vittoria di Salamina danzando e cantando un peana ad Apollo. Fruì di un'accurata educazione ginnica e musicale, tanto che poté recitare nei suoi drammi, interpretando la parte di Tamiri cui spettava suonare la cetra, e quella di Nausicaa impegnata a danzare lanciando la palla. Rimase quasi sempre ad Atene, dove partecipò alla vita politica fra i dirigenti della città. Nel 442 fu ellenotamio, uno degli amministratori della confederazione delio - attica; nel 441, in seguito al successo dell'Antigone, fu eletto fra i dieci strateghi, e fu stratego anche una seconda volta, nel 427, con Nicia. Queste notizie significano che nemmeno Sofocle fu l'intellettuale da tavolino, come sarà lo scrittore bibliotecario di Alessandria, anticipato in qualche modo da Euripide che nelle Baccanti del resto arriverà al disgusto del sapere libresco e cerebrale:" to; sofo;n d j ouj sofiva (v.395), il sapere non è sapienza. E’ quella che T. Mann chiama “nausea del conoscere”[1].
Nel 413, dopo la catastrofe della spedizione in Sicilia, Sofocle fece parte del collegio dei Probuli che prepararono il governo oligarchico dei Quattrocento. Verso la fine della vita venne citato in giudizio dal figlio Iofonte per demenza senile. Il vecchio recitò il primo stasimo del suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono, quale prova che non aveva perduto il senno. Naturalmente fu assolto. L'episodio è raccontato in modo sintetico e vivace da Apuleio nell' Apologia:"Sophocles poeta Euripidi aemulus et superstes, vixit enim ad extremam senectam, cum igitur accusaretur a filio suomet dementiae, quasi iam per aetatem desiperet, protulisse dicitur Coloneum suam, peregregiam tragediarum, quam forte tum in eo tempore conscribebat, eam iudicibus legisse nec quicquam amplius pro defensione sua addidisse, nisi ut audacter dementiae condemnarent, si carmina senis displicerent. Ibi ego comperior omnis iudices tanto poetae assurrexisse, miris laudibus eum tulisse ob argumenti sollertiam et coturnum facundiae, nec ita multum omnis afuisse quin accusatorem potius dementiae condemnarent"(37), il poeta Sofocle, rivale di Euripide e a lui sopravvissuto, arrivò infatti fino alla vecchiaia estrema; allora accusato di demenza dal suo stesso figlio, come se per l'età oramai vaneggiasse, si dice che abbia presentato il suo Edipo a Colono , ottima tra le tragedie, che egli componeva appunto in quel tempo, e l'abbia letta ai giudici, aggiungendo a propria difesa nient'altro che osassero condannarlo per pazzia se dispiacevano i versi del vecchio poeta. Trovo scritto che tutti i giudici si levarono in piedi davanti a tanto poeta, esaltandolo per la bravura della trama e la grandiosità dello stile tragico, e non mancò molto che piuttosto condannassero l'accusatore per demenza.
Morì nel 406, poco dopo Euripide, per la cui scomparsa durante il proagone delle Dionisie fece recitare il coro e gli attori in abito da lutto e senza corona. Dopo la morte fu onorato come eroe Dexion, l'Accoglitore, poiché aveva partecipato al culto di Asclepio, il dio risanatore, ospitandone in casa la statua quando questa fu portata da Epidauro ad Atene. Un segno della sua pietas e della sua lontananza dalla medicina scientifica.
Il Dioniso delle Rane di Aristofane rivela che il poeta conservò anche dopo la morte quello spirito equilibrato e sereno che lo aveva caratterizzato sulla terra:"oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", egli è di buon carattere qua come lo era là (v.82).
I drammi sofoclèi danno insegnamenti: prima di tutto vogliono indicare a dito[2] la necessità di mantenere viva la religione delfico - apollinea e di credere nella santità dei precetti pitici:"Conosci te stesso" e "Nulla di troppo".
Hillman nota che Goethe irrise il primo questi precetti: “Conosci te stesso? Se io conoscessi me stesso, scapperei a gambe levate”[3].
Tutta l'opera di Sofocle indica l' u{bri", la prepotenza, come madre della tirannide[4] e di ogni dismisura. "Non invano il coro della tragedia sofoclèa parla sempre dell'assenza di misura quale radice di ogni male"[5]. Secondo il poeta, nel cosmo c'è un ordine, più grande e più vero di quello delle leggi scritte dagli uomini ed essi devono comprenderlo e rispettarlo.
"Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine divino del mondo; e quando l'ordine divino e il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia. …In base a tutti i drammi di Sofocle risulta evidente che le leggi non scritte non sono costituite esclusivamente né dalle tradizioni familiari né dal rituale mortuario. Le leggi non scritte regolano l'intero ordinamento divino del cosmo" [6].
“Ogni respiro che facciamo lo prendiamo dal cosmo. Inaliamo la sua aria; parliamo con il suo fiato; il suo pneuma è la nostra ispirazione. La parola “cosmo” indica un mondo conformato dall’estetica. “Cosmesi” e “cosmetica”, che derivano dal greco kovsmo~, alludono al significato greco originale, quando la parola rimandava alle vesti delle donne, alla decorazione e agli abbellimenti, a tutto ciò che è idoneo, ordinato, arredato e ben disposto, con connotazioni etiche di proprietà, decenza, onorabilità. L’immaginazione estetica è la modalità primaria di conoscenza del cosmo e il linguaggio estetico il modo più appropriato per formulare il mondo”[7].
“L’impressione di compostezza, di equilibrio, di lucida razionalità che molte rheseis sofoclee ci trasmettono è in realtà il frutto della somma perizia del poeta, il prodigio di una genialità espressiva capace di tradurre in forme di austera e semplice eleganza sentimenti, passioni e tensioni di eccezionale intensità”[8].
Sentiamo Thomas Mann a proposito della visione religiosa di Giacobbe e di suo figlio Giuseppe: “la convinzione che una vita e un accadere, i quali non possono legittimarsi con una realtà superiore, che non si fondino e non si appoggino su elementi sacri e noti, che si dimostrino incapaci di rispecchiarsi e di riconoscersi nel divino, non sono né vita né accadere; la convinzione, quindi che quel che accade quaggiù non saprebbe accadere né si sognerebbe mai di accadere se non avesse il suo modello e il suo corrispettivo astrale, era in lui non meno profondamente radicata che nel padre; l’unità nella dualità, l’eterno presente della sfera che eternamente si volge, la commutabilità del mondo celeste e del terrestre, che permette all’uno di convertirsi nell’altro e agli dèi di trasformarsi in uomini ma anche agli uomini in dèi, tutto questo costituiva anche per lui la certezza di fondo della vita”[9].
La forma di u{bri" segnata a dito da Sofocle è la presunzione intellettuale che costituisce il vero peccato di Edipo il quale crede troppo nella propria intelligenza e, istigato per giunta dalla madre, arriva a bestemmiare gli oracoli. Uno dei centri ideologici del dramma è costituito dai versi 396 - 398:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo feci cessare/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/// kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli".
Questa affermazione di autonomia, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è dismisura, prepotenza, cecità mentale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale, salito su fastigi altissimi è però, destinato a precipitare nella necessità scoscesa[10] dove non si avvale di valido piede, ajpovtomoneij~ ajnavgkan e[nq j ouj podi; crhsivmw/ - crh'tai" (vv. 877 - 879). Vedremo che il despota è spesso affetto da zoppia, quanto meno mentale, ma non solo, e che la tirannide è una “sovranità claudicante” [11].
Anche Mefistofele del Faust di Goethe è zoppo, per via di un piede equino. Nella taverna di Auerbach a Lipsia, uno dei goliardi buontemponi, come le vede entrare, domanda: Was inkt der Kerl auf einem fub in?, come mai zoppica da un piede quello?



continua


[1] Tonio Kröger, 4.
[2] "Non andrò più all'intangibile/ ombelico della terra a pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a Olimpia, /se queste parole indicate a dito (ceirovdekta)/ non andranno bene a tutti i mortali" canta il Coro nel Secondo Stasimo dell' Edipo re. (vv.897 - 902).
[3] J. Hillman, La forza del carattere, p. 207.
[4] u{bri" futeuvei tuvrannon, (Edipo re , v. 873), la prepotenza fa crescere il tiranno.
[5]Jaeger, Paideia 1, p. 481.
[6]V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle , p. 40 e p. 49.
[7] J. Hillman, La forza del carattere, p. 254.
[8] Di Marco, Op. cit., p. 225.
[9] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 234 - 235
[10] Troviamo un locus analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/ fallax (vv. 57 - 58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro. Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte quietus…" (vv. 101 - 104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.
La caduta dall'alto è prevista dal Viceré del Portogallo in La tragedia spagnola di Thomas Kyd (del 1585) :"Sciagurata condizione dei re, assisi fra tanti timori senza rimedio! Prima, noi siam posti sulla più eccelsa altezza, e spesso scalzati dall'eccesso dell'odio, ma sempre soggetti alla ruota della fortuna; e quando più in alto, non mai tanto godiamo quanto insieme sospettiamo e temiamo la nostra rovina" (III, 1).
Non solo nella tragedia il potere è malvisto da Seneca: nel De brevitate vitae troviamo l’immagine di Augusto che, come altri potenti, desidererebbe discendere dalla sua sommità: “cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam, ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit " (4, 1, 2), desiderano talora discendere da quel culmine, se fosse possibile farlo senza pericolo; infatti posto che nulla dall'esterno la minacci o scuota, la fortuna implode da sola.
Del resto Proust ci ricorda che la vecchiaia fa precipitare tutti:"la vecchiaia... è pur sempre lo stato più miserando per gli uomini, e che li precipita dai loro fastigi a somiglianza dei re delle tragedie greche" Il tempo ritrovato , p. 359. 
[11]Vernant e Vidal - Naquet, Mito e tragedia due , p. 49. 

1 commento:

  1. Più leggo questi commenti e più amo la tragedia greca.Giovanna Tocco

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