domenica 15 maggio 2016

Il mito. Il mito nell'epica e nella lirica. Apollonio Rodio. Parte III

Pericle
copia romana di un originale greco
430 a.C. circa.

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Ultimo discorso di Pericle (II. 60-64) e giudizio di Tucidide sull’uomo

Nel 430 ci fu la seconda invasione (deutevra ejsbolhv, 2, 59) dell’Attica da parte di Archidamo, quindi la peste (hJ novso") che infuriava. Gli Ateniesi volevano venire a patti con i Lacedemoni e accusavano Pericle di averli persuasi a fare la guerra.
Pericle dice che si aspettava la loro collera (ojrghv) e per questo ha convocato l’assemblea (kai; ejkklhsivan touvtou e{neka xunhvgagon, 2, 60). Dice che non è corretto prendersela con lui.

Pericle ricorda di essere filovpoliς te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60, 5) amante della città e superiore al denaro. La guerra è stata decisa da tutti.
La guerra era necessaria per non cedere.
La sua non cambia, mentre talora muta quella del popolo.
Dovete imparare a non cedere alle disgrazie (taĩς xumforaĩς mh; ei[kein
“ Io sono sempre il medesimo, dice, e non cambio “kai; ejgw; me;n oJ aujtov" eijmi kai; oujk ejxivstamai”, ha un’identità sicura, che non muta, mentre talora varia quella volubile del popolo. Ora voi siete inficiati da debolezza di pensiero (ejn tw'/ uJmetevrw/ ajsqenei' th'" gnwvmh"): vedete i mali presenti e non i vantaggi lontani. La vostra mente è meschina (tapeinh; uJmw'n hJ diavnoia) e non ha la forza di tener duro (ejgkarterei'n) nelle decisioni. Dovete pensare alla salvezza comune consolandovi dei lutti privati. Atene ha il dominio assoluto del mare e nessuno puà ostacolarlo. La terra devastata in confronto a tale dominio marittimo è come un giardinetto khpivon o un oggetto ornamentale (ejgkallwvpisma, 2, 62, 3) fornitoci dalla nostra ricchezza. Se saremo sudditi di altri, verrà limitata la nostra libertà, se invece la salveremo, ricostruiremo ciò che abbiamo perduto. Non dobbiamo apparire inferiori ai nostri padri (patevrwn ceivrou") e andare contro i nemici non solo con sicurezza ma con disprezzo (mh; fronhvmati movnon, ajlla; kai; katafronhvmati). La iattanza, la vanagloria (au[chma) può esserci anche in un vile, ma il disprezzo katafrovnhsi" solo in chi ha fiducia nella propria superiorità di cui ha la piena coscienza (hJ xuvnesi").
Allora è giusto che non evitiate le fatiche necessarie agli onori (povnoi-timaiv cfr. l’Iliade). Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, 2, 63). wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete aujthvn, oramai l’avete come una tirannide[1], e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe pericoloso. L’inerzia infatti non salva-to; ga;r a[pragmon ouj swv/zetai se non è schierata con l’attività e non conviene in una città che comanda ma in una che è suddita.
Gli attacchi dei nemici erano previsti, la pestilenza no.
Bisogna sopportare come necessità (ajnagkaivw") quello che viene dagli dei e virilmente (ajndreivw") quanto viene dagli uomini, Questo è nell’ e[qo", nell’abitudine della nostra città che ha una grandissima rinomanza tra gli uomini proprio perché non cede alle sventure (dia; to; tai'ς xumforaĩς mh; ei[kein 64, 2) e perché ha speso in guerra vite umane e fatiche. Per questo è diventata ricchissima e grandissima. Saremo oggetto di biasimo dagli accidiosi, di emulazione e invidia dalle persone attive. I più forti non si abbattono nelle difficoltà e resistono con energia.
Il popolo non mandò più ambascerie a Sparta ma multarono Pericle. Tuttavia lo rielessero stratego. Morì due anni e sei mesi dopo lo scoppio della guerra, alla fine del 429,

Tucidide apprezza Pericle: la sua provnoia, gli faceva prevedere che bisognava curarsi della flotta e non correre rischi (II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica è l’arte della previsione.
Temistocle è l'eroe di questa intelligenza laica: egli che "oijkeiva/ xunevsei" appunto, con la sua facoltà di capire, era "tw'n te paracrh'ma di j ejlacivsth" boulh'" kravtisto" gnwvmwn", ottimo giudice della situazione presente attraverso un rapidissimo esame" e "tw'n mellovntwn ejpi; plei'ston tou' genhsomevnou a[risto" eijkasthv"" (I, 138, 3), e ottimo a congetturare il futuro per ampio raggio in quello che sarebbe accaduto. Prevedeva benissimo i danni o i vantaggi quando erano ancora avvolti nell’oscurità: “tov te a[meinon h] cei'ron ejn tw/' ajfanei' e[ti proewvra malista”.
 "Per questo più che lo stesso Pericle, è Temistocle il politico per eccellenza, il modello e insieme l'ideale: colui nel quale l' eijkavzein , il ricavare per indizi dall'esperienza del passato l'orientamento per l'azione, è dote naturale (oijkeiva xuvnesi"), come Tucidide si esprime nel memorabile elogio che gli dedica al termine del racconto della sua vicenda estrema"[2].

Dopo la morte di Pericle, gli Ateniesi vennero fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo lo statista, per il fatto di essere chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn te diafanw'~ ajdwrovtato~[3] genovmeno~ , II, 65, 8), teneva in pugno la massa lasciandola libera ("katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw"").
plh`qo~ sono i cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più “democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o anche oligarchiche”[4].
Pericle era dunque superiore al denaro. Plutarco scrive che rese la città da grande grandissima e superò in potere molti re e tiranni, ma non accrebbe di una sola dracma il suo patrimonio privato, quello ricevuto in eredità dal padre: “miã/ dracmh̃/ meivzona th;n oujsivan oujk ejpoivhsen” ( Vita, 15, 3)

Confronto tra Pericle e Alcibiade che non realizzò i piani del suo predecessore.
Verso la fine delle Storie di Tucidide si legge che Alcibiade, quando (nel 411) la flotta di Samo si accingeva a navigare contro Atene, fermò i marinai nel momento in cui nessun altro sarebbe stato capace di trattenere la folla: “kai; ejn tw'/ tovte a[llo" me;n oujd j a]n ei\~ iJkano;" ejgevneto katascei'n to;n o[clon"(VIII, 86, 5); egli però fu responsabile dell'impresa fallimentare di Sicilia che, a giudizio di Tucidide, fu "peggio di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una serie d'errori"[5].
Sulla vita privata non irreprensibile di Alcibiade, Tucidide afferma che nutriva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze, sia per l'allevamento di cavalli sia per le altre spese: “ ejpiqumivai" meivzosin h] kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh'to e[" te ta;" iJppotrofiva" kai; ta;" a[lla" dapavna""(VI 15, 3); e, per questo essendo criticabile, non poteva permettersi a lungo l'arroganza con cui diceva: “Kai; proshvkei moi ma'llon eJtevrwn, w\ jAqhnai'oi, a[rcein"(VI 16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle poteva contrastare il dh'mo" fino a spingerlo all'ira (kai; pro;" ojrghvn, II, 65, 8) poiché era inattaccabile nelle questioni di denaro: “ciò gli dava l'autorità di dire al popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e intimidirla; se era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto di lui, "non era più una democrazia che di nome, ma in realtà era l'imperio del primo uomo"[6].
Tucidide usa un'espressione ( " ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou' prwvtou ajndro;" ajrchv", II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che "la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La "democrazia" ateniese non è per lui la realizzazione di quell'esteriore eguaglianza meccanica che gli uni esaltano quale apice della giustizia, gli altri condannano quale suo opposto"[7].
La democrazia ateniese del tempo di Pericle, nel discorso epitafico di Aspasia riferito da Socrate nel Menesseno di Platone è un’aristocrazia con il consenso della massa: “met j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa” (238d).

Costituzione mista fu per Tucidide quella del governo dei 5000 del 411. La definisce infatti metriva xuvgkrasiς, misurata mescolanza di oligarchia e democrazia (VIII, 97, 2)
E’ quello che Canfora chiama “ Il meccanismo della circolarità masse-capi….Il demo crede di imporre il proprio volere ma è il capo che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[8].
Alexis De Tocqueville nota che “Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque, dopotutto, che una repubblica aristocratica in cui tutti i nobili avevano eguale diritto di governo”[9]. Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.

“Pericle è considerato in particolare come colui che “reggeva saldamente la folla, pur nella libertà, e la guidava più di quanto non fosse da essa guidato” (katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw", kai; oujk h[geto ma'llon uJp j aujtou' h[ aujto" h\ge, II 65, 8), colui che aveva trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno per i cittadini, la democrazia vigente a Atene in una sorta di regime personale: “a parole si trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del governo del primo cittadino” (II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la politica periclea, per un ateniese del tempo di Tucidide, significava sostanzialmente accettare le due realtà che ne costituivano le emanazioni più dirette: il regime democratico e l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide esprime sia sulla politeia democratica, sia sul ruolo imperiale della città. Per quanto riguarda la democrazia, la questione è abbastanza semplice: lo storico manifesta con insistenza giudizi negativi e talvolta vero e proprio disprezzo nei confronti delle masse, che gli appaiono incompetenti, incostanti e volubili (cfr. II 65, 4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di conseguenza, la sua adesione ad un regime che prevedeva e consentiva di fatto la partecipazione di tutti i cittadini al governo dello Stato era necessariamente subordinata alla esistenza di una qualche forma di controllo delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di Pericle era stato appunto quello di avere esercitato una funzione di controllo sulla massa.

Il giudizio espresso a proposito del governo dei Cinquemila instaurato nel 411 a. C. costituisce un preciso riscontro a questa interpretazione della posizione politica di Tucidide: “allora per la prima volta, almeno per quanto riguarda i miei tempi, gli Ateniesi risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe, infatti, una moderata combinazione fra gli oligarchici e la massa (metriva ga;r h{ te ej~ tou;~ ojlivgou~ kai; tou;~ pollou;~ xuvgkrasi~ ejgevneto) e ciò contribuì più di ogni altra cosa a sollevare la città da una situazione che era diventata brutta” (VIII 97, 2).

Morto Pericle , vennero alla ribalta personaggi che non solo non erano in grado di esercitare alcuna funzione di controllo, ma subivano anche forti condizionamenti dalla massa ed erano più inclini a compiacerla per soddisfare le ambizioni personali che a contrastarla per salvaguardare i superiori e generali interessi dello Stato (II 65, 10).
 “Soltanto un regime di democrazia moderata o di oligarchia allargata, che comportava l’estromissione dalla vita politica di una parte consistente della cittadinanza sulla base dell’assenza della necessaria qualificazione censitaria, poteva incontrare l’approvazione e il plauso di Tucidide”[10].

 La guerra dunque fu persa per la mancanza di un uomo simile, il vero capo nell'antico senso solonico, mentre i suoi successori commisero una serie di sbagli, soprattutto quello di fare la spedizione in Sicilia: “ hJmarthvqh kai; oJ ej" Sikelivan plou'""(II 65, 11) senza avere assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta seguirono calunnie e discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe siciliana, Atene resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e a quelli che si aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re di Persia, Ciro: “ o}" parei'ce crhvmata Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn" (Tucidide, II 65, 12) il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la flotta, fatto che segnò la fine della guerra e, dal punto di vista della letteratura, che è il nostro, provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie contro i Persiani da parte di Euripide nell'Ifigenia in Aulide in particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro i barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).


continua


[1] Cfr. le parole simili di Cleone in III, 37, 2.
[2]Canfora ,Antologia Della Letteratura Greca , II vol., p. 459.
[3] Si pensi ai basilh'~ dwrofavgoi, i re divoratori di doni,  cui Esiodo chiede di raddrizzare i giudizi (Opere, 263-264).
[4] Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 216.
[5]Jaeger, Paideia , I vol., p. 677.
[6] Jaeger, op. cit., p. 680.
[7]Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è cattiva. Quella ateniese ha nutrito uomini di valore. p. 198. Essa non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia  dallo stesso Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41). 
[8] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
[9] La democrazia in America, p. 479
[10] Mauro Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.

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