domenica 8 maggio 2016

Essere cittadino. Merano, 23 aprile 2016. Parte VII

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L’accoglienza degli stranieri
La città riceve ogni cosa da tutta la terra per la sua potenza. La fruizione dei beni quindi non è solo quella di prodotti locali (II, 38, 2)
Offriamo la nostra città come bene comune per chi vuole imparare o assistere ai nostri spettacoli. Non pratichiamo xenhlasiva (xenhlatevw, xevnoς- ejlauvnw), il bando degli stranieri, non escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai; oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς h} qeavmatoς (II, 39, 1), anche se il nemico se ne può avvantaggiare.

L’accoglienza dei supplici
La tragedia mette in rilievo anche l’accoglienza dei supplici da parte della polis ateniese: negli Eraclidi[1], Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, accoglie i supplici perseguitati da Euristeo. Nella parodo, il coro dice che è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)
La terra ateniese da sempre vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse: “ajei; poq j h{de gaĩa toĩς ajmhcavnoiς su;n tw̃/ dikaivw/ bouvletai proswfeleĩn” (329-330).

Arriano[2] fa dire a Callistene[3] che un fuggitivo poteva salvarsi presso gli Ateniesi che avevano combattuto Euristeo il quale perseguitava gli Eraclidi e allora tiranneggiava la Grecia: “turrannoũnta ejn tw̃/ tovte th̃ς JEllavdoς (Anabasi di Alessandro, 4, 10, 4).
Nelle Supplici, Etra, la madre di Teseo incoraggia il figlio ad aiutare le donne argive le quali pregano Atene di soccorrere le madri: tu non lasci spazio all’ingiustizia e proteggi i disgraziati ( 379-380).
 Nell’ Edipo a Colono [4] il protagonista dice al coro di vecchi del luogo che Atene ha fama di essere la città più pia, la sola capace di aiutare lo straniero maltrattato ( movna" de; to;n kakouvmenon xevnon-sw/vzein ) 261-262). Sicché se non vuole smentire tale reputazione non deve cacciarlo.
Quindi Isocrate nel Panegirico (380 a. C.), un caldo elogio di Atene (del 380) , l’autore dice che prima della guerra di Troia andarono nella città di Pallade gli Eraclidi e Adrasto re di Argo (54).
Nella Tebaide di Stazio[5], Giunone si muove verso le mura di Atene per convincere Pallade, e, quindi, aprire la città bendisposta verso i supplici pii (supplicibusque piis faciles aperiret Athenas (XII, 294)

L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici.

Di nuovo Pericle in Tucidide II, 39, 1
La capacità di improvvisare. La diversa educazione di Ateniesi e Spartani.
Noi confidiamo più nel nostro coraggio verso l’azione (ejς ta; e[rga eujyuvcw/) che nei preparativi e negli stratagemmi. E da giovani viviamo senza costrizioni hJmeĩς de; ajneimevnwς[6] diaitwvmenoi Cfr. ajnivhmi, indica la sovrana negligenza del genio che non deve prepararsi con duro esercizio ma può improvvisare, o almeno sa dare questa impressione.) mentre altri perseguono il valore ejpipovnw/ ajskhvsei, con faticoso esercizio.

Anche Spartani e Spartane del resto erano fieri della propria educazione che insegnava la disciplina.
Gorgò, la moglie di Leonida, a una straniera che le aveva detto: solo voi donne spartane comandate sugli uomini, Gorgò rispose: “movnai ga;r tivktomen a[ndraς (Plutarco, Vita di Licurgo, 14), infatti solo noi partoriamo degli uomini.
Gorgò da bambina diede ordini perfino al padre, al re Cleomene. Lo dissuase dall’ accettare il denaro (50 talenti) che Aristagora di Mileto gli offriva in cambio di un aiuto militare (Erodoto, V, 52, 2).
Senofonte nella Costituzione degli Spartani mette in rilievo il fatto che per quel popolo to; peivqesqai, l’obbedire nell’esercito e in casa è il bene più grande (VIII, 2).
Il re Archidamo in Tucidide (I, 84) dice che la severa disciplina rende più forte chi viene educato nella massima difficoltà.
 Nietzsche nell' Epistolario in data 14 aprile 1887: “ Non c'è nulla infatti che irriti tanto le persone quanto il lasciare scorgere che noi seguiamo inesorabilmente una rigida disciplina di cui loro non si senton capaci"

Tucidide II, 39, 2. Pericle mette in rilievo la facilità con cui gli Ateniesi vincono le battaglie (ouj calepw̃ς macovmenoi kratoũmen) quando attaccano i vicini.
Eppure l’impero è costato fatica, aveva detto Pericle a II, 36, 2.
Sia gli antenati sono degni di lode, sia, ancor più, i nostri padri: infatti dopo avere conquistato, oltre a quanto avevano ricevuto, questo grande impero che abbiamo, non senza fatica (oujk ajpovnw~) lo hanno lasciato in eredità a noi che siamo qui ora.
Pericle dunque non nega l’imperialismo ( nell’ultimo discorso dirà: “avete un impero che è una tirannide” II, 63, 2).
Cleone sarà altrettanto esplicito: “turannivda e[cete th;n ajrchvn , III, 37, 2).
II, 39, 3. Nessun nemico ha ancora affrontato l’intera potenza ateniese per la nostra cura della flotta (dia; th;n toũ nautikoũ ejpimevleian) e per il fatto che l’esercito viene mandato in varie direzioni.
II, 39, 4.
Noi Ateniesi vogliamo affrontare i rischi (ejqevlomen kinduneuvein) con noncuranza (rJaqumiva/ ) piuttosto che con allenamento alle fatiche (mãllon h} povnwn melevth/) e più con l’energia dei caratteri che con le leggi.

Il rischio è bello. Il mito
Platone scrive: “kalo;ς ga;r oJ kivndunoς” (Fedone, 114d), bello è infatti il rischio. E’ il rischio di credere nei miti relativi alla sorte delle anime, dato che è chiaro che l’anima è immortale.
I miti sull’aldilà-dice Socrate- non si addicono a un uomo che abbia senno (ouj prevpei noũn e[conti ajndriv) ma, siccome è chiaro che l’anima è immortale, si addice pensare che le cose relative all’anima vadano così o in maniera simile con il giudizio dei morti e tutto il resto (cfr. il Gorgia).
Bisogna incantare se stessi con storie siffatte. Per questo motivo io da tempo protraggo il mito : kalo;ς ga;r oJ kivndunoς, dio; ga;r e[gwge kai; pavlai mhkuvnw to;n mu`qon.
Fedone racconta a Echecrate le ultime ore di Socrate.

Nel prologo del Fedro, Socrate dice : “io sono un uomo strano (a[topo~, 229C), non sono uno dei sofoiv. Se facessi il sapiente (sofizovmeno~) potrei razionalizzare il mito dicendo che un colpo di vento gettò Orizia giù dalle rupi. Parole dette con riferimento al mito di Borea cge rapì Orizia mentre giocava sulla riva dell’Ilisso con la ninfa Farmacia)
Queste razionalizzazioni sono interpretazioni ingegnose di persone esperte ma non fortunate poiché dopo devono raddrizzare Ippocentauri, Chimere, Gorgoni, Pegasi. Per fare questo ci vuole molto tempo libero (scolhv). Io non ne ho. Infatti devo indagare me stesso e non ho tempo per fare altre indagini. Perciò mantengo fede nella tradizione e indago me stesso, Devo capire se sono un uomo o una bestia più intricata e pervasa di brame di Tifone

Ancora sul rischi
Pindaro Olimpica I: “oJ mevga~ de; kivn-duno~ a[nalkin ouj fw-`ta lambavnei” (81-82)
Olimpica VI: “ajkivndunoi d j ajretaiv-ou[te parj ajndravsin ou[t j ejn nausi; koivlai~ -tivmiai” (9-10); le virtù prive di rischio non sono onorate né fra gli uomini né in concave navi.
Nella Pitica VI (vv. 286-187) Era accendeva negli uomini un desiderio dolce della nave Argo perché nessuno rimanesse presso la madre a smaltire una vita priva di rischi (akivndunon aijw`na pevssonta).

La noncuranza
Dunque gli Ateniesi hanno la sovrana noncuranza del genio, la spezzatura che è la virtù contraria all’affettazione “asperissimo scoglio” (Castiglione, Il Cortegiano).

Sulla noncuranza del genio scrive anche l’Anonimo autore Sul sublime che la chiama ajmevleia e la attribuisce agli scrittori sublimi appunto come Sofocle, Pindaro, Demostene, Platone. Le loro opere contengono errori che sono in realtà sviste (paroravmata) dovute a casuale noncuranza (di j ajmevleian eijkh̃/).
Nel prologo dell’Andria, Terenzio scrive che preferisce cercare di emulare la negligenza di Nevio, Plauto, Ennio, che l’oscura diligenza del malevolo vecchio poeta Luscio Lanuvino (vv. 20-21).
Cfr. la sui neglegentia di Petronio (Tacito, Annales, XVI, 18)

Leopardi ribadisce questa idea e approva “quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza che è necessaria nelle somme opere d’arte” quali quelle di Omero, Dante, Ariosto.
Invece “il Parini e il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto” Zibaldone 9-10).
Pericle dunque esalta negli Ateniesi la capacità di improvvisare.
Esiste del resto anche il tovpoς contrario che celebra la fatica (Esiodo, Eracle al bivio nei Memorabili di Senofonte, Alessandro Magno in Arriano etc.)

Tucidide II, 40, 1
Amiamo il bello con semplicità (Filokaloũmen te ga;r met j eujteleiaς) e amiamo la sapienza (filosofoũmen) senza mollezza (a[neu malakiva").
 La sofiva non è il neutro sofovn , la fredda erudizione (cfr. Euripide, Baccanti, 395 to; sofo;n d j ouj sofiva), sofiva è femminile, è la cultura che produce e incrementa la vita.
eujtevleia è il basso prezzo (cfr. eu\ -tevloς) che costano le cose belle, naturali e necessarie che sono a portata di mano, come dirà Epicuro[7].
Filokaloũmen: l’amore del bello è una delle componenti principali della cultura di questo popolo di esteti..

Quello dei Greci era : “un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello” (Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri ).
La rinuncia alla bellezza è un male più grande della morte e dell’insuccesso.
A una vita senza bellezza l’Aiace di Sofocle preferisce la morte.
 Altrettanto Antigone di Sofocle e Polissena nell’Ecuba di Euripide (v. 378).
C’è un tw̃/ pavqei maqoς e un tw̃/ pavqei kavlloς
Antigone dice a Ismene: ma lascia che io e la pazzia che spira da me/soffriamo questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nobilmente"peivsomai ga;r ouj-tosou`ton oujden w{ste mh; ouj kalw`~ qanei`n ( Antigone, vv. 95-97).
Soltanto nella bellezza si può tollerare il dolore di vivere, afferma Polissena quando antepone una morte dignitosa a una vita senza onore: “to; ga;r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, (Ecuba , v. 378), vivere senza bellezza è un grande tormento".

 Aiace il quale risponde al corifeo (vv.479-480): “ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai-- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve o vivere con stile, o con stile morire.
 Altrettanto afferma Neottolemo, il figlio schietto dello schietto Achille, in faccia al subdolo Odisseo del Filottete : “bouvlomai d j, d' , a[nax, kalw'"-drw'n ejxamartei'n ma'llon h] nika'n kakw'" " (vv. 94-95), preferisco, sire, fallire agendo con nobiltà che avere successo nella volgarità.

Articolo 9 della Costituzione italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione. 
a[neu malakivaς Pericle del resto rifiuta quella mollis educatio criticata da Quintiliano che pure è favorevole alle pause[8] e al gioco[9] dei fanciulli. "Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit"[10]. quella molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le forze della mente e del corpo.
Di nuovo Pericle in Tucidide II, 40, 1: ci serviamo della ricchezza (plouvtw/crwvmeqa) più come occasione per l’azione (e[rgou mãllon kairw̃/) che come vanteria di parole (h} lovgou kovmpw/).
A proposito di “vanteria”, Plutarco nella Vita di Solone racconta che il saggio legislatore ateniese disprezzava la ajpeirokaliva, l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia ( 27, 20), la meschinità del re Creso che si era presentato coperto di gioielli e d'oro.

Non è vergogna ammettere di essere poveri (to; pevnesqai) ma è molto vergognoso non cercare di fuggire la povertà.

continua



[1] 427?
[2] 95-175 d. C.
[3] Lo storiografo ufficiale fatto ammazzare da Alessandro nel 427 dopo la congiura dei Paggi.
[4] Rappresentata postuma nel 401.
[5] 45-96 s. C.
[6] Cf. ajnivhma,  “lascio. Significa la sovrana negligenza del genio che non ha bisogno di prepararsi con duro esercizio ma può improvvisare.  Cfr. la sui neglegentia di Petronio in Tacito, Annales XVI, 18, e l’ajmevleia dei grandi scrittori notata dall’Anonimo del Peri; u{you~ (33)
[7] Nell’ Epistola a Meneceo   Epicuro scrive che, tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n), alcuni sono naturali (fusikaiv), altri vani (kenaiv) e tra i naturali alcuni sono anche necessari (ajnagkai'ai, 127); ebbene tutto ciò che è  naturale è a portata di mano:"to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130) . Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston
[8] E' comunque necessario concedere qualche intervallo a tutti:"Danda est tamen omnibus aliqua remissio", Quintiliano, Inst., I, 3, 8.
[9] Dove i pueri manifestano più schiettamente le inclinazioni di ciascuno:"mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt " Quintiliano, Institutio oratoria., I, 3, 8.
[10] Quintiliano,  Inst., I, 2, 6.

1 commento:

  1. Che bella cosa l'accoglienza dei supplici,invece ,mi pare,si è creato uno schiavismo moderno .Dai lavoratori delle arance ai venditori di collanine.Leggere le tue bellissime parole è un conforto. Giovanna Tocco

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E’ più umano il cultus fino all'artificio o la naturalezza fino all’incuria?

Properzio, Virgilio, Orazio e la via di mezzo di Ovidio.     Il cultus, la cura della persona e dello stile è segno di contraddizi...