venerdì 6 maggio 2016

Essere cittadino. Merano, 23 aprile 2016. Parte VI

Leo Von Klenze, Atene (nell'età classica)

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Critiche alla democrazia ateniese

Nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenofontea, scritta da un pubblicista di parte oligarchica, il dialogante A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso il potere e ha reso forte la città o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau'~ (1, 2), in quanto è il popolo che fa andare le navi. E aggiunge: “I migliori sono nemici della democrazia poiché nei bevltistoi c’è il minimo di ajkolasiva, e di ajdikiva (sfrenatezza e ingiustizia). Nel popolo invece (ejn de; tw`/ dhvmw/) c’è il massimo di ajmaqiva, ignoranza, ajtaxiva, disordine e ponhriva, cattiveria e povertà che spinge alle turpitudini a[gei ejpi; ta; aijscrav. Nel popolo poi c’è ajpaideusiva, l’incultura che spesso nasce dall’indigenza.

Senofonte indica invece l’esemplarità della Costituzione spartana: Licurgo non ha imitato altre costituzioni ma ha scelto l’opposto rispetto alla maggior parte di esse e ha reso la sua città superiore alle altre nella felicità. Licurgo capì che oiJ a[jponoi, quelli che non si sobbarcano le fatiche diventano gonfi (pefushmevnoi-fusavw “gonfio”) aijscroiv, “brutti” e ajsqenei`~ “deboli”. (Costituzione degli Spartani, I).
Nell’Agesilao, Senofonte scrive che la monarchia spartana si conserva ininterrotta (sunech;~ basileiva) , mentre gli altri governi di ogni tipo non durano nel tempo.
Polibio individua la prima Costituzione mista (mikth; politeiva) nella rJhvtra di Licurgo (VI, 3, 8). C’erano i re, la gerousiva, l’Apella e gli Efori che sindacavano l’operato dei potenti.
Isocrate nell’Areopagitico, il principale scritto di politica interna (del 356) scrive che la Costituzione non è altro che l’anima dello Stato (e[sti ga;r yuch; povlewς oujde; e{teron h} politeiva (14)

Gli studi classici e la scuola
Il liberal conservatore Tocqueville voleva ridurre al minimo le scuole classiche in quanto c’è il rischio che producano giacobini e rivoluzionari (La democrazia in America, 1840). Il comunista Gramsci, invece, sosteneva che il latino e il greco sono il più efficace strumento di disciplina intellettuale.
Democrazia contiene la parola kravtoς che secondo i critici di questo regime può significare “strapotere dei non possidenti”, come ricorda Canfora
“E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[1].

Aristofane, in forma comica, poi Platone e Aristotele denunciano la demagogia, il disordine e la corruzione di questo sistema.
Cfr. Le Vespe di Aristofane del 422, dove il commediografo mette in rilievo la parzialità dell’Eliea che in origine era una corte d’appello istituita da Solone, poi ampliata fino a seimila giudici.
Il figlio di Filocleone esorta il “babbino”(pappivdion, 655) a calcolare qual è il tributo (to;n fovron) che Atene riceve dalle città alleate poi tutte le altre rendite (tevlh, imposte, miniere, mevtall j, mercati, porti, confische 649)[2].
 Sono duemila talenti
Gli stipendi dei 6000 eliasti arrivano 150 talenti (un talento equivalgono a 6000 dracme a 36 mila oboli. Una dracma=6 oboli)
Il vecchio ci rimane male: nemmeno la decima parte?
E gli altri quattrini?
Il figlio risponde che vanno ai demagoghi che adulano la folla e prendono cinquanta talenti alla volta dagli alleatti terrorizzandoli prima, poi facendosi corrompere
Tu ti accontenti di rosicchiare i rimasugli del potere (672) dice Bdelicleone a suo babbo.

Platone nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo.
E' una costituzione populista, piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se è vero quanto dice Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali"[3].
Io credo che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.
I demagoghi beniamini del popolo furono via via Cleone (fino al 422), Iperbolo (fino al 417) e Cleofonte (fino al 404), ma Platone ( nel Gorgia) non salva nemmeno Temistocle, Cimone e Pericle. Costoro anzi, a[neu swfrosuvnh~ kai; dikaiosuvnh~, saggezza e giustizia, hanno riempito la città di porti e di altre simili sciocchezze rendendola gonfia e purulenta invece che grande: oijdei` kai; uJpoulo;~ ejsti (Gorgia, 519A). Platone li indica quali tou;~ aijtivou~ tw`n kakw`n, le cause dei mali.

Ma torniamo al lovgoς ejpitavfioς.
ejleuqevrwς… politeuvomen, liberamente viviamo da cittadini (II, 37, 2)
Parte importante di questa libertà nella cultura logocentrica, e parlata, dei Greci è la parrhsiva, come si legge nello Ione e nelle Fenicie di Euripide (Polinice).
Anche la nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà di parola: "Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Pericle poi ricorda ouj paranomoũmen (II, 37, 3) , non trasgrediamo le leggi per paura (dia; devo~)[4], soprattutto obbediamo a quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia[5] (o{soi te ejp j wjfeliva/ tw̃n ajdikoumevnwn), e anche se non sono scritte (o{soi a[grafoi o[nteς) portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn oJmologoumevnhn fevrousin).

Le leggi
Il dibattito leggi scritte o no si fa a distanza, tra le opere di Sofocle (Antigone[6], Edipo re[7]), Euripide (Supplici), Antifonte sofista (Della verità la legge danneggia la vita), Isocrate (Archidamo), Alcidamante (Messeniaco), Platone (il personaggio Callicle del Gorgia: le leggi sono vincoli para; fuvsin, mentre kata; fuvsin è il diritto del più forte di prevalere 483e) e chissà quanto se ne parlava.
Manzoni in I promessi sposi fa dire a Don Abbondio: "Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza" (cap. II).
E nel III capitolo il dottor Azzecca-garbugli dice a Renzo: "perché, vedete a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente". E "mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un'attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti che, dopo essersi cacciato in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai".
Nella Vita di Solone dello stesso Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera di Solone che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le cose poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi il quale disse anche, dopo avere assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere stupito del fatto che presso i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli ignoranti (o{ti levgousi me;n oiJ sofoi; par j { Ellhsi, krivnousi d j oiJ ajmaqei`~ (5, 6).
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche”[8].
Tacito: corruptissima re publica plurimae leges, Annales, III, 27).

Passiamo a II, 38, 1 del logvoς ejpitavfioς
Essere cittadino impegnato non significa non avere svaghi. Ad Atene vige una festività agonistica: abbiamo procurato pleivstaς ajnapauvlaς th̃/ gnwvmh/ moltissimi sollievi allo spirito, ajgw̃si mevn ge qusivaiς diethvsioς con agoni e feste sacre che durano tutto l’anno.
 (Grandi Dionisie in primavera, Dionisie rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere quotidiano di queste cose scaccia il dolore.
Insomma non circenses, ma teatro quale festa e quale rito che pone l’uomo e dio, e la polis e la politica come problemi

Nietzsche: “La festa è paganesimo per eccellenza” (Umano, troppo umano).
E’ visione della classicità non molto diversa dall'idea dell'imperatore Giuliano di Ibsen: “Esiste un mondo splendido che voi galilei non vedete; un mondo dove la vita è una festa solenne fra belle statue e inni nei templi, con calici colmi di vino e rose fra i capelli. Ponti vertiginosi vengono gettati fra spirito e spirito"(L'apostasia di Cesare [9], I parte Cesare e Galileo, atto primo,).


continua



[1] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[2] tevlo~ (lat. vectigal ) è la tassa indiretta; fovro~  (lat. tributum) la diretta.
 Cfr. la Lettera ai Romani di Paolo: “Reddite omnibus debita: cui tributum (fovron) tributum (tassa diretta), cui vectīgal (tevlo~) vectigal (tassa indiretta ), cui timorem timorem, cui honorem honorem” ( 13, 7) Paolo gerarchizza tutto in una prospettiva carismatica.
[3] Lettera a una professoressa, p. 55.
[4] Cfr. la necessità della paura (to; deinovn) affermata dalle Erinni (517) e da Atena (689) nelle Eumenidi di Eschilo. Se sparisce la paura subentra l’anarchia. O anche la funzione positiva del metus hostilis un Sallustio (Bellum Iugurthinum, 42)
[5] Pelasgo nelle Supplici di Eschilo dice che il popolo ama accusare il potere (ajrch̃ς ga;r filaivtioς lewvς, 485). Gli Argivi provano compassione per le Danaidi e odiano il maschio stuolo. Infatti ognuno ha simpatia toĩς h{ssosin, per i perdenti.
[6] "E allora osavi trasgredire queste leggi?" (v. 449), domanda Creonte.
 E Antigone risponde:” Sì, infatti secondo me non è stato per niente Zeus il banditore di questo editto/né Giustizia che convive con gli dei di sotterra/determinò tali leggi tra gli uomini,/né pensavo che i tuoi bandi avessero tanta/forza che tu, essendo mortale, potessi oltrepassare/i diritti degli dei, non scritti e non vacillanti (vv. 450-455)
[7] Per Antigone le leggi che contano sono quelle provenienti dagli dèi. Lo stesso pensa il coro dell'Edipo re  che nella prima strofe del secondo Stasimo, punto nodale della tragedia, canta:"Oh, mi accompagni sempre la sorte di portare/ la sacra purezza delle parole/e delle opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi/sublimi, procreate/attraverso l'aria celeste di cui Olimpo è padre da solo né le /generava natura mortale di uomini/né mai dimenticanza/potrà addormentarle:/grande c'è un dio in loro e non invecchia" (vv. 863-872).
[8] Frammenti postumi, 1876, 14
[9] Del 1873.

1 commento:

  1. Nel nostro attuale sistema l'ignoranza non nasce solo dalla povertà.Giovanna Tocco

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