domenica 8 aprile 2018

Seneca, "Lettere a Lucilio". II parte da 73 a 114. 2




Teognide
Teognide di Megara, non si sa se Megara Nisea, sull'istmo di Corinto, o Megara Iblea in Sicilia, visse nella seconda metà VI secolo. Nelle Leggi di Platone, l’Ateniese dà per scontato che Teognide fosse”cittadino di Megara in Sicilia” (630).
Di lui ci è giunto un corpus di circa 700 distici elegiaci divisi in due libri disuguali: il primo raccoglie più di 1200 versi, il secondo 159.
"E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili:
è come seminare la superficie del mare canuto.
Infatti seminando il mare non mieti folta messe,
né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:
ché i malvagi hanno desideri insaziabili: se tu sbagli,
l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra.
I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono,
e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito".
mnh'ma d je[cous j ajgaqw'n kai; cavrin ejxopivsw (v. 111)
In effetti abbiamo visto come la nobiltà spirituale di Saffo non dimentica il favore ricevuto dalla dea e gliene rende merito in un rapporto amichevole.

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Il vero riposo.
 Zenone sostiene che la morte non è un male poiché può dare gloria, e non si può porre nemmeno tra gli ajdiavfora -indifferentia- poiché nihil indifferens gloriosum est; mors autem gloriosum est; ego mors non est indifferens (10).
Seneca afferma che la morte in sé non è né un bene né un male: Cato illa honestissime usus est, turpissime Brutus (13).
Si tratta non di Marco Bruto ma di Decimo Bruto, un altro dei Cesaricidi che per ritardare la propria esecuzione chiese un indugio ad exonerandum ventrem, poi porgendo la testa al carnefice disse “ita vivam”, così vivessi! (12)
 A queste cose istis quae a nobis indifferentia ac media dicuntur, ricchezze, forza, bellezza, onori, potere, onori, et contra morte, malattie, dolori, aut malitia aut virtus dat boni vel mali nomen (14)
Comunque la morte, se non è un male ne ha l’apparenza: non enim sic mors indifferens est quomodo utrum capillos pares an impares habeas: mors inter illa est quae mala quidem non sunt, tamen habent mali speciem (15). Nell’uomo c’è aspernatio dissolutionis quia videtur multa nobis bona eripere, ripugnanza del dissolvimento.
Ma il mendico di Pascoli dice: “ti lodo fortuna” (…) non vidi che nero, non bebbi- che fiele; ma ingrato non sono: - ti lodo per ciò che non ebbi; - che non abbandono…discendo laggiù tra le grame-mie genti, nel mondo che tace, -tra gli umili morti di fame-che dormono in pace” (Il mendico da Canti di Castelvecchio (1903-1912)
La morte è stata coperta di infamia da molti ingegni descriptus est carcer infernus et perpetua nocte oppressa regio in qua
 (licet) Ingens ianitor Orci
Ossa super recubans antro semēsa cruento
Aeternum latrans exsangues terreat umbras (Eneide VI, 400-401) con una variante presa da Eneide VIII 296. Si tratta comunque di Cerbero il gigantesco portinaio dell’Orco.
Ma queste sono fabulae, storielle e i morti non hanno nulla da temere.
Cfr. Lucrezio
Tantalo rappresenta la paura degli dèi, Tizio (ha cercato di violentare Latona e un avvoltoio gli rode il cuore) la sofferenza amorosa, Sisifo l’ambizione del potere, le Danaidi l’insaziabilità, Le stagioni dell’anno ci portano frutti nec tamen explemur vitai fructibus umquam (1007).
La conclusione è hic Acherusia fit stultorum denique vita (III, 1023).
 Ma chi non ha paura di Cerbero teme di finere nel nulla timent ne nusquam (16). In ogni caso, fortiter pati mortem è inter maxima opera mentis humanae (17)
La virtù attua i propri disegni con animo risoluto
Tu ne cede malis, sed contra audentior ito
Qua tua te fortuna sinet (Eneide VI, 95-06) la Sibilla a Enea con una variante (quam ). Non ricorro agli artifici e alle sottigliezze della dialettica: pro veritate simplicius agendum est, contra metum fortius (19)
Non servono i sillogismi per spingere a mori fortiter.
 I Fabi che nel 477 vennero massacrati dagli etruschi di Veio sul torrente Cremera e i 300 delle Termopili (480). Leonida non fece un sillogismo: quod malum est, gloriosum non est, mors gloriosa est; mors ergo non malum. Invece disse: commilitones, prandēte tamquam apud inferos cenaturi” (21)
Durante la IGP (264-261) un tribunus (Cecidio) disse: “ire, commilitones, illo necesse est unde redire non est necesse” Non servono circumscriptiones argomentazioni capziose né minuta ac spinosa verba parole miniziose e sottili.
Non trecentis sed omnibus mortalibus mortis timor detrahi debet (23)
Magnis telis magna portenta feriuntur, con grandi armi si devono colpire i grossi mostri. Quaedam inutilia et inefficacia ipsa subtilitas reddit (24).

83
La giornata di Seneca. Dell’ubriachezza e delle sottigliezze degli Stoici
Hoc nos pessimos facit, quod nemo vitam suam respicit, nessuno esamina mai la propria vita. Pensiamo poco al passato, ancora meno al futuro, atqui consilium futuri ex praterito venit (2).
Hodiernus dies solidus est, è tutto intero per me. Passato tra il letto e la lettura, minimum exercitationi corporis datum.
Uno schiavetto, Pharius puer, ait nos eandem crisin habere, quia utrique dentes cadunt (4). Sed iam illum vix adsequor currentem et intra paucissimos dies non potero. Andiamo in direzioni opposte: ille ascendit, ego discendo, nec ignoras quanto ex his velocius alterum fiat” (4). Mentitus sum; iam enim aetas nostra non descendit sed cadit.
Ab hac fatigatione magis quam exercitatione in frigidam descendi: hoc apud me vocatur parum calda (5). Io che Kalendis Ianuariis auspicabar in virginem desilire, desideravo tuffarmi nell’acqua Vergine, ora mi riduco a una tinozza. Panis deinde siccus et sine mensa prandium, pane asciutto e pranzo senza imbadigione, post quod non sunt lavandae manus.
Le voci del circo sono come quelle del vento o delle onde e come ceterae sine intellectu sonantes.
L’ebrietas è una voluntaria insania (18) Basta ricordare Alexandri Macedonis exemplum qui Clitum carissimum sibi ac fidelissimum inter epulas transfodit, et intellecto facinore, mori voluit, certe debuit.
Omne vitium ebrietas et incendit er detěgit, obstantem malis conatibus verecundiam remŏvet (19).
Euripide Baccanti oi[nou de; mhkevt j o[nto~ oujk estin Kuvpri~-oujd j a[llo terpno;n oujde;n ajnqrwvpoi~ (773-774).
Terenzio, Eunuco, 732: Sine Cerere et Libero friget Venus.
Ovidio Vina parant animum Veneri, nisi plurima sumas-et stupeant multo corda sepulta mero” (Remedia, 807-8).
Macbeth “Much drink may be said to be an equivocator with lechery: makes him stand to and not stand to (II, 3).
perciò bere molto si può denominare colui che rende equivoca la lascivia: la crea e la distrugge; la spinge innanzi e la tira indietro; la persuade e la scoraggia; "makes him stand to, and not stand to", la mette in piedi e non la tiene su, insomma la equivoca col sonno e dandole una smentita la pianta (II, 3). In questo monologo, "di un fine umorismo lucianesco… occorrono certe allusioni a fatti contemporanei, che allora, cioè quando Shakespeare scriveva il Macbeth [1], dovevano essere a common topic[2], o, come diremmo noi, sulla bocca di tutti, e che ci riportano a quell'anno"[3] (1606).
Ubi possēdit animum nimia vis vini, quidquid mali latebat emergit. Non facit ebrietas vitia sed protrahit (20) tum inpudicus morbum profitetur ac publicat, tum petulans non linguam non manum continet, omne vitium laxatur et prodit, si scatena e manifesta.
Fu la intemperantia bibendi et ille Herculaneus ac fatalis scyphus a uccidere Alessandro, a metterlo in una tomba (Alexandrum condidit, 23)
L’ebrietas nec, minor vino, Cleopatra Antonium perdidit (25)
L’ebrietas lo rese nemico della repubblica e crudele: cum vino gravis sitiret tamen sanguinis, benché pieno di vino, aveva sete di sangue. Ebrietates continuae efferant animos (26).
Dunque istae quae voluptates vocantur, ubi transcendut modum poenae sunt (27)


CONTINUA


[1]  Regnò sulla Scozia dal 1040 al 1057.           
[2] A proposito dei nostri tovpoi!
[3] Cino Chiarini (a cura di) Macbeth , p. XII.

1 commento:

Platone: il mito della caverna.

Vediamo dunque questo mito (VII libro della Repubblica di Platone Socrate parla a Glaucone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi...