NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 30 dicembre 2013

Per gli animalisti ottusi che augurano la morte a Caterina




Signori animalisti ottusi e mascalzoni al punto di  augurare la morte a una creatura umana che lotta per sopravvivere, la meravigliosa agonista Caterina, voi appartenete alla brutta, immonda genìa di quanti propugnano i sacrifici umani.
La pena di morte da voi auspicata è l’attualizzazione nefanda dei barbarici, orrendi sgozzamenti di donne e di uomini in nome di dio.
Il vostro dio è teriomorfo, come Anubi dalla testa di cane.
Contro questa feccia nemica dell’uomo  si esprime umanamente  la vecchia regina troiana nell'Ecuba di Euripide che accusa la disumanità dei vincitori: "forse il dovere li spinse a immolare un essere umano/presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue? (vv. 254-261).
Ma adesso è di moda l’animalismo per cui tanti frustrati seguaci del modo di pensare più inumano, esecrano maggiormente l’uccisione di un cane che quella di un uomo.
Poco più avanti Ecuba, che ha visto morire innumerevoli persone in guerra e nell’eccidio di Troia, supplica Odisseo di non uccidere la figlia Polissena con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: " non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti ( Ecuba, v. 278).
Oggi la vita non viene rispettata come il valore supremo e chi guida le automobili, per esempio, ha praticamente la licenza di uccidere ciclisti e pedoni. Non ne sono morti abbastanza?
Perché  nel femminicidio, giustamente esecrato, non vengono contate le ragazze, le donne incinte e non incinte, le anziane uccise dalle macchine a centinaia ogni anno?
Nelle tragedie di Seneca che inorridiva davanti ai circenses dove l’eterna plebe, nell’epoca di Nerone, assisteva a veri e propri omicidi, godendone,  torna l’abominio dei sacrifici umani che sono gli antecedenti della barbarica pena di morte. L’uomo ha inventato bibbie e bombe: è stato mostruosamente grande quando ha fatto alcune scoperte, ma è diventato un mostro facendone un uso omicida.
Nella tragedia senecana Troiane, Agamennone prende posizione contro lo spietato Pirro che esige il sacrificio di Polissena: "tutto ciò che può sopravvivere di Troia sconvolta, rimanga: è stato fatto pagare abbastanza in fatto di pene, e anche troppo. Non sopporterò che la ragazza figlia della regina muoia, e la sua vita sia donata a una tomba, e  spruzzi di sangue  le ceneri, e  chiamino cerimonia nuziale il crimine atroce di un assassinio: la colpa di tutti i misfatti ricade su me: chi non impedisce un delitto, quando può, è come se lo avesse ordinato” (vv.285-291).
Se deve essere fatto un sacrificio in onore di Achille, continua il dux, "caedantur greges / fluatque nulli flebilis matri cruor" (vv. 296-297), si ammazzino animali del gregge e scorra il sangue che non faccia piangere nessuna madre umana.
Ma adesso le madri umane vengono protette meno delle mamme vacche, delle mamme cagne e delle mamme scimmie. Se le amate tanto, signori animalisti, ci sarà una ragione.

Giovanni Ghiselli 

Il mio blog  http://giovannighiselli.blogspot.it/     è arrivato a  124657
30 dicembre 2013 . Buon anno a tutti.

P. S.
La vostra disumanità, signori animalisti, mi fa venire in mente quella di Creonte che nell’Antigone vuole lasciare il cadavere di Polinice  “senza lacrime, senza sepolcro, dolce tesoro/per gli uccelli che lo fissano in vista del piacere del pasto" (vv.29-30).

Questo altro atto disumano si può commentare  con un paio di versi di una tragedia dell’elisabettiano Webster: fanno parte della  nenia funebre cantata da Cornelia "in vari modi di follia", sul cadavere del figlio Marcello, ucciso dal fratello Flaminio,:" Chiamate il pettirosso e lo scricciolo, che volano sopra i boschetti ombrosi, e con foglie e fiori coprono i corpi soli al mondo degli insepolti. Chiamate al suo lamento funebre la formica, il topo dei campi e la talpa, che levino mucchi di terra per tenerlo caldo e quando le ricche tombe vengono depredate non soffra danno: ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà (But keep the wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up again)"[1].

Ma Caterina è viva e noi, quanti siamo umani, auspichiamo che continui a vivere e che stia sempre meglio, anche a costo di qualunque sperimentazioni non omicida possa giovare alla sua vita e alla sua salute.


[1] J. Webster, Il diavolo bianco (del 1612),  I, 2.

A Caterina Simonsen





Cara Caterina, provo una forte simpatia per te, anche perché sei molto bellina, in tutti i sensi.
Cercherò però di scrivere limitando l’emotività messa in moto dal tuo caso e dalle reazioni che ha suscitato.
Tu hai scritto “io preferisco le persone razionali”: Bene cercherò di esserlo, di sostenerti con un argomento che ritengo non solo valido ma risolutivo. Che è questo: niente vale più della vita, anzi, niente vale quanto la vita, e tra la vita di un animale e quella di una persona non possono esserci dubbi da nessun punto di vista.
Chi difende gli animali a scapito della vita di un essere umano, di una creatura come sei tu, evidentemente è ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" un uomo disumano, come  Cnemone il duvskolo"  di Menandro.

Voglio ricorrere ai miei classici proprio per significare che non è solo la mia emotività che mi detta queste parole, ma tutta la mia coscienza e tutto il percorso della mia vita di studioso, di amante dell’umanità, di amante della vita .

Perfino l’eroe più disposto a morire per ottenere la gloria sa e afferma che niente vale quanto la vita.
Già nel IX canto dell’Iliade Achille dice che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v. 401) non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo. Buoi e grassi montoni si possono rapire - dice il Pelide opportunamente - i tripodi si possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti (405-408).
Nell’XI canto dell’Odissea poi Achille dice a Ofisseo il quale lo ha elogiato per la supremazia conservata nell’oltretomba: "non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti" (vv 488-491). 
E' il ribaltamento della sapienza silenica[1]:  essere vivi diventa il valore supremo.
Tu sei viva Caterina e vuoi continuare a vivere. Io sono uno dei tanti, dei tantissimi, che ti incoraggiano a continuare a farlo perché la tua volontà, il tuo sorriso, il tuo sguardo è una testimonianza forte, significativa dell’alto valore, del valore supremo della vita.
Io sono dalla tua parte, Caterina, sto per te:  tu mi stai a cuore.
Io pregherò per te. Prega anche tu per me. Ne ho bisogno.
Un abbraccio fraterno.

Tuo

gianni


[1] Questa  considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati.

sabato 28 dicembre 2013

Remo Bodei, Immaginare altre vite, parte III




Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei Immaginare altre vite
Realtà, progetti, desideri.
Feltrinelli, Milano, 2013

La fine di un’illusione? (pp. 103-108)
In questo paragrafo del II capitolo  (Potere e la gloria), Bodei considera come il desiderio di gloria declini o cambi aspetto dopo l’età napoleonica.

Quale epigrafe a questa mia terza visitazione di  Immaginare altre vite cito alcuni versi di Gozzano del tutto disincantato rispetto all’illusione del monumentum aere perennius.
“Oimé! La Gloria!  un corridoio basso- tre ceste, un canterano dell’Impero,-la brutta effigie incorniciata in nero-e sotto il nome di Torquato Tasso!”[1].

“ Quando la Santa Alleanza impone il mantenimento dello status quo alle potenze europee restaurate, le aspirazioni dei popoli alla gloria attraverso le guerre di liberazione vengono soffocate: restano sporadiche insurrezioni presto represse da interventi di polizia internazionale” (p. 103).
Leopardi e Stendhal sono tra i testimoni “dell’appassire dei sogni di gloria”.

Sentiamo intanto Leopardi il quale “vede nella gloria una generosa aspirazione del passato”.
La gloria per il Recanatese è una di quelle illusioni che cadono “all’apparir del vero”. Bodei cita alcune frasi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (del 1824) : “la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore” .

Leopardi individua nella storia un ritorno ritmico di questo scadere delle illusioni. Riferisco, dalle prime pagine dello Zibaldone,  un pensiero che risale all’agosto del 1820: “La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e certo nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, né i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i popoli…Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre sue Orazioni politiche; sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamene, sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria, meglio la morte che il servizio; che vergogna è questa: Antonio un tiranno… Cicerone predicava indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ec. eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile...l’esempio de’ maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi…E la ragione facendo naturalmente amici dell'utile proprio, togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone"[2].

Quindi Stendhal.
“La scomparsa  dell’aspirazione alla gloria militare dopo il Congresso di Vienna trova la sua massima espressione ne La certosa di Parma e ne Il rosso e il nero. Nella prima opera, l’intero tessuto narrativo mira a mostrare, attraverso il suo aspirante eroe, Fabrizio del Dongo, come gli ideali si trasformino nella finale accettazione della prosa del mondo” ( Immaginare altre vite, p. 105).
 “Anche un altro personaggio del romanzo, il conte Mosca, che aveva combattuto in Spagna con le truppe francesi, prova un analogo disinganno e, in cinica connivenza con l’esistente, comincia a pensare alla propria carriera e ai propri interessi” (p. 106).

Il rosso e il nero  mostra Jiulien Sorel che “vuole imitare Napoleone (di cui conserva, nascondendolo, il ritratto), che imitava Cesare, che imitava Alessandro, che imitava Achille” (p. 107).

Certi personaggi della letteratura, come i loro autori sono connessi nella  catena delle mimesi.
Robert Musil attraverso il suo protagonista Ulrich, il quale gioca sempre al ribasso, parla ironicamente di una  "catena di plagi"[3] che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.

 Ora vediamo il paragrafo successivo : Il contributo dei sergenti (pp. 108-110)
“La medesima delusione nei confronti della gloria si manifesta molti decenni dopo anche in Tolstoj, proprio da parte di uno dei personaggi di Guerra e pace da cui meno la si aspetterebbe: dal principe Andrej Bolkonskij” (p. 108)
 Questo aristocratico russo nella guerra contro Napoleone sente l’obbligo del nobile la cui funzione politica e militare è trovarsi sempre in prima fila: “la sola idea che potesse avere paura bastò a rinfrancarlo. “Io non posso avere paura”, pensò e scese lentamente da cavallo in mezzo ai cannoni”[4].

A proposito degli obblighi della nobiltà, nel XII canto dell'Iliade  Sarpedon spinge Glauco a rischiare la vita ricordandogli che in Licia tutti concedono speciali privilegi e onori ad alcuni " ejpei; Lukivoisi mevta prwvtoisi mavcontai"(v.321), poiché tra i primi Lici combattono.
Così avviene anche tra i Germani di Tacito:"et duces exemplo potius quam imperio, si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt " (Germania , 7, 1) e i capi piuttosto con l'esempio che con il grado di comandante, se sono capaci, se si mettono in luce, se stanno davanti alla schiera, comandano poiché sono ammirati. E più avanti (14):" Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci ", ogni volta che si è giunti alle armi, è vergognoso per il capo essere superato in valore.

Il giorno prima della battaglia di Austerlitz il principe Andrei dice a se stesso: “che cosa posso fare io se non amo che la gloria e l’amore degli uomini. La morte, le ferite, la perdita della famiglia: nulla mi fa paura! E per quanto dilette mi siano tante persone, mio padre, mia sorella, mia moglie, ossia le persone che mi sono più care, per quanto terribile e innaturale questo possa sembrare, le sacrificherei tutte all’istante per un minuto di gloria, di trionfo sugli uomini, per conquistarmi l’amore di uomini che non conosco e non conoscerò mai: per l’amore, ecco, di questi uomini”, pensava, prestando ascolto al chiacchiericcio nel cortile del palazzotto abitato da Kutuzov”[5].   

Ma poi, quando  viene ferito a morte nella battaglia di Borodino, Andrei Bolkonskij pensa: “Possibile che sia la morte?...io non posso, non voglio morire, io amo la vita, amo questa erba, la terra, l’aria”[6].
L’amore per la vita  al di sopra di tutto è anche l’approdo dell’eroe omerico Achille che nella Nevkuia  dice a Odisseo il quale lo ha elogiato per la supremazia conservata nell’oltretomba: " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488-491).
E' il ribaltamento della sapienza silenica[7]:  essere vivi diventa il valore supremo.

Torniamo al  libro di Bodei: “Andrej, come più tardi Pierre Bezukov, ha capito che la guerra non è condotta solo da grandi personaggi che si spartiscono la gloria (imperatori, monarchi, generali), ma che è un’impresa collettiva, dove intervengono anonimamente, con il loro indispensabile contributo individuale, centinaia di migliaia di uomini. Senza l’apporto dei sergenti, Napoleone non avrebbe potuto vincere le sue battaglie: solo le imprese dei senza nome, che rimangono ignote, rendono possibili le gesta memorabili dei grandi” (Immaginare altre vite, p. 108).

Si ricorderanno i versi dell’Andromaca di Euripide (698) e la poesia di Brecht (Domande di un lettore operaio)  citati in precedenza.  Li riporto in nota[8].

 Non tutti gli scrittori hanno tale considerazione e rispetto per la truppa dei militi ignoti
Alfieri nel 1770 tornò a Berlino e andò a vedere il luogo dove si svolse una battaglia della guerra dei sette anni (1756-1763): "Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia tra’ russi e prussiani, dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio” (3, 9).
La riflessione impietosa, quasi empia, non annulla la positività della vita che trionfa sulla morte dalla quale rinasce sempre, in forme rinnovate, nella folta e verdissima bellezza del grano.

Il culto degli eroi risorge,“almeno come ispirazione” , in  Thomas Carlyle.
La sua opera,  Gli eroi. Il culto degli eroi e l’eroico nella storia, del 1840,  distingue sei tipi di eroi e “lamenta la loro scomparsa e il declino del loro culto nelle società contemporanee, in un periodo che non solo nega l’esistenza dei grandi uomini, ma non li desidera” (p. 109).
Tra le varie forme eroiche esistono dei nessi “tutti gli eroi partecipano della medesima stoffa e grandezza” [9], e il nesso è più forte nel caso di poeti, preti e profeti.

Si ricorderà che Platone attribuisce a innamorati,  poeti, profeti e fondatori di religioni una pazzia divina che è più saggia della saggezza del mondo.
Platone assimila la follia erotica ad altre manie: nel Fedro   ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati. C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti", “profeta”, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
 I beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi ( Fedro, 244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c),  l’hanno chiamata mantica.
A proposito della follia dei profeti, Cicerone  nel De divinatione  fa derivare divinatioa divis ” e mantikhv  ut Plato interpretatur , a furore” (1, 1) secondo la spiegazione di Platone, da pazzia, rivendicando la superiorità dei Romani nel denominare quest’arte prestantissima.

Vediamo dunque alcune affermazione di Carlyle traendole dal capitolo L’eroe come poeta Dante-Shakespeare. La parola “vate significa nello stesso tempo  profeta e poeta; e veramente, in ogni tempo, profeta e poeta ben compresi hanno una grande affinità di significato…essi hanno penetrato tutti e due il sacro mistero dell’universo, quello che Goethe chiama “il segreto aperto”…
Se altri può vivere nell’apparenza delle cose, egli sente la naturale necessità di vivere nell’intimo delle cose...si tratta di un uomo che prende sul serio l’universo, mentre tutti gli altri non farebbero che prenderlo a gioco. Egli è un vate, prima di tutto in virtù della sua sincerità. In tale misura poeta e profeta, che partecipano al “segreto aperto”, formano uno solo. Quanto poi alla loro  distinzione, il vate profeta, potremmo dire, ha colto questo mistero sacro piuttosto dal lato morale, come Bene e Male, Dovere e Proibizione; il vate  poeta dal lato che i tedeschi chiamano estetico, come Bello e altre simili cose…sono la sincerità e la profondità di visione di un uomo quello che lo fanno poeta.
La grandezza di Dante  è “concentrata in profondità e in energia di fuoco; egli è grande come il mondo, non perché sia vasto come il mondo, ma perché è profondo come il mondo…Dante, l’uomo italiano, è stato inviato nel nostro mondo per incarnare musicalmente la religione del medioevo…Shakespeare incarna per noi la vita esteriore della nostra Europa, come era sviluppata allora, con la sua cavalleria, la sua cortesia, i suoi malumori, le sue ambizioni, la maniera pratica di pensare, agire, considerare il mondo che avevano allora gli uomini. Come in Omero  possiamo ancora ricostruire la vecchia Grecia, così in Shakespeare e in Dante, dopo migliaia d’anni, sarà ancora leggibile quello che era la nostra moderna Europa, come fede e come pratica. Dante ci ha dato la fede o l’anima, Shakespare, in maniera non meno nobile, ci ha dato la pratica o il corpo”[10].

Torniamo a Immaginare altre vite: “Attorno agli anni della pubblicazione del libro di Carlyle, con il fiorire della “primavera dei popoli”, gli eroi intesi come padri della patria e libertadores, soldati dell’ideale, ritorneranno e verranno esaltati con statue, quadri, monumenti, strade e piazze” (p. 109). Bodei ricorda Mazzini e Garibaldi citando anche le loro parole.
Più tardi torna di moda la spersonalizzazione dell’eroe la quale “culmina nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale…proprio allora nasce il culto del Milite Ignoto e si innalzano innumerevoli monumenti ai caduti (i cui nomi sono scolpiti anche nei sacrari, sui campi di battaglia o sui luoghi del ricordo), riflesso diretto del moderno conflitto di massa, in cui la tecnologia riduce il margine degli atti di coraggio individuale, colpendo a caso i combattenti  mediante cannoni, bombe o gas. Eppure, accanto agli eroi anonimi, hanno continuato a esserci quelli che, con il proprio nome, servono da esempio agli altri, come Ernst Jünger” (p. 110).
Se mi chiedessero di nominare un eroe vivente, oggi indicherei Gino Strada.

Giovanni Ghiselli

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28 dicembre 2013 . Buon anno a tutti.


[1] La signorina Felicita, 163-168
[2]Zibaldone , 22-23.
[3]L'uomo senza qualità , p. 270.
[4] Guerra e pace I,  2, 20
[5] Guerra e pace I,  3, 12
[6] Guerra e pace III, 2,  36
[7] Questa  considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati.
[8] Nell’Andromaca, Peleo  critica il fatto che nei trofei venissero iscritto solo il nome dello stratego il quale“oujde;n plevon drw'n eJno;" e[cei pleivw lovgon” (Andromaca, v. 698), non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore.  
Curzio Rufo racconta  che Clito, per sminuire le vittorie di Alessandro, il quale poi per rappresaglia lo uccise, recitò ai convitati i  versi dell’Andromaca di Euripide con il  biasimo di Peleo  “quod tropaeis regum dumtaxat nomina inscriberent” ( Historiae Alexandri Magni, 8, 1, 29), il fatto che nei trofei  scrivessero solo i nomi dei re.
Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare sconfisse i Galli./Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”. 
[9] Immaginare altre vite, p. 227, nota 40.
[10] T. Carlyle, Gli eroi, trad. it. Dall’Oglio, Milano, 1962.

venerdì 27 dicembre 2013

Sul tradurre



Il 28 gennaio si terrà una tavola rotonda al liceo Galvani sul tradurre.
Ho preparato queste pagine per la parte che mi spetta.

Cicerone afferma che nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati.
In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio,  Accio, e molti altri, piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci. 

Io mi trovo d’accordo piuttosto con Leopardi.
Leggiamo qualche riga dello Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in  italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” ( 2134).
La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” ( 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[1].
Ma sentiamo di nuovo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717) 

Se devo dire parole mie, credo che le lingue si debbano insegnare attraverso gli autori, partendo da quelli che scrivono con chiarezza e bellezza.
La bellezza infatti è sempre associata alla chiarezza Ad pulchritudinem tria requiruntur: integritas, consonantia, claritas … Lo splendore di cui parla san Tommaso è la quidditas scolastica, l'essenza di una cosa[2].
Boitani traduce claritas con “trasparenza”: “La trasparenza: quella che Tommaso d’Aquino chiamava claritas, e, associandola a consonantia e integritas, considerava uno dei tre criteri della bellezza”[3].
Lucrezio condanna gli stolti che ammirano e amano quanto rimane nascosto sotto parole contorte: "omnia enim stolidi magis admirantur amantque/inversis quae sub verbis latitantia cernunt "[4] gli stolti ammirano e amano di più tutto ciò che scorgono nascosto sotto parole contorte.
Quindi Cicerone: "quae sunt recta et simplicia laudantur"[5], ricevono lode gli aspetti schietti e semplici.

Posso fare degli esempi di testi belli, chiari e funzionali all’apprendimento del greco e del latino: il Nuovo Testamento, o, per stare nei classici, le Troiane di Euripide o l’Edipo re di Sofocle, i carmi del Liber di Catullo o l’Eneide di Virgilio tra i latini. Per quanto riguarda la prosa, indicherei le orazioni di Lisia, o di Isocrate per i Greci; Sallustio, o Seneca, o, perché no[6], Petronio per i latini.

Una grammatica di base è necessaria, per carità, ma non deve essere il punto d’arrivo, bensì solo il primo gradino.   
Il fatto è che talora i tecnicismi sono stati impiegati da insegnanti spiritualmente distorti in maniera mortificante, come " una misura di polizia per rintuzzare le intelligenze "[7].
Riporto un messaggio mandatomi da una mia allieva, un'alunna di trent'anni fa .

"Ciao, ho letto il tuo pezzo sul lavoro ... e la perdita del lavoro ... e
di Odisseo che viaggia viaggia ma brama il ritorno a Itaca, approdo
desiderato e sicuro. Dopo tanti discorsi sul lavoro un po' rituali e un
po' troppo ascoltati, un'immagine chiara ... del desiderio di movimento,
di attività, di pensiero, di sogno .. ma alla fine di approdo sicuro.
Cati
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni
e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si
leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".

"Pascoli, invitato a stendere una relazione sulle cause dello scarso rendimento degli alunni agli esami di licenza liceale, così si esprimeva: "Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica…Anche nei licei, in qualche liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un'ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de' quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio"[8].
Inoltre: "I più volenterosi si svogliano, si annoiano, s'intorpidiscono…;…e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso"[9].
"Lo studio del greco e del latino si caratterizza soprattutto come uno studio linguistico di impronta grammaticale chiuso in se stesso e funzionale solo in minima parte alla lettura dei testi. In queste condizioni la realtà difficilmente può ripagare gli studenti degli sforzi fatti"[10].
 La grammatica serve a leggere i testi, la metrica, soprattutto l'esametro, il pentametro quindi il distico elegiaco, e il trimetro giambico,  aiuta a memorizzarli.
Ho notato che sono  le persone a disagio con se stesse, incapaci di trovare  una qualsiasi bellezza nella propria vita, le persone che si sentono brutte insomma, e temono la libertà, la crescita mentale dei giovani, quelli che preferiscono fermarsi alla tecnica morfologico-sintattica. Questa, vista come fine,  può oscurare o limitare la bellezza della letteratura.
"Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione dove si diceva così"[11].
Ricordo, per esempio, che quando studiavo al liceo Mamiani di Pesaro, il preside, tal Marchi, venuto a fare visita alla quarta ginnasio, mi chiese di dirgli "destino" in latino. Dissi fatus. Mi rimproverò: credeva che fossi bravo,  l'avevo deluso. Ci rimasi male. In effetti non ero abbastanza bravo per rispondergli come avrei fatto in terza liceo. 
Al ginnasio non conoscevo il Satyricon dove l'autore usa appunto fatus invece di fatum.  Gli schiavi sono uomini, proclama Trimalchione rimasticando dottrine stoiche: "et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto" (71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte, anche se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento.
Fatus   (invece di fatum) è uno di quegli "errori grammaticali" denunciati da chi non se ne intende abbastanza. Non è l'unico caso del genere nel Satyricon dove troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus (12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus (47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora. "Più rari sono gli ipercorrettismi da maschile a neutro ( thesaurum 46). Nel passaggio dal latino all'italiano il genere neutro scompare, e i neutri latini sono diventati in italiano maschili. Il latino volgare anticipa dunque tale evoluzione, e ci fa capire tra l'altro come poté avvenire concretamente questa "scomparsa" di una categoria grammaticale: a poco a poco tutte le parole neutre divennero maschili"[12].

Ho insegnato per 2 anni nel liceo di Imola (uno al biennio uno al triennio) e per cinque al Minghetti (due nel biennio, tre nel triennio), poi per 28 anni in questa scuola: dall'82 al 91 nel ginnasio; dal 92 al 2010 nel liceo. Dal 2000 ho avuto il semiesonero dopo avevo vinto un concorso.
Per 10 anni ho  insegnato didattica della letteratura greca, a contratto, nella SSIS. Traggo alcune di queste considerazioni dalla metodologia che ho elaborato in tutto questo tempo, leggendo, imparando e insegnando. Insomma ho utilizzato "una lunga esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique"[13].

Ebbene, già insegnando al ginnasio, avvicinavo i ragazzini ai testi belli fin dalla quinta. Un anno di pura morfologia bastava. E d'altra parte, già trattando questa, davo grande spazio allo studio e all'apprendimento del lessico. Nel secondo anno si potevano confrontare le regole della grammatica con testi come l' Edipo re. o le Troiane, l'Eneide o il Vangelo.  Gli allievi portati per le lingue classiche, con questo metodo,  studiavano volentieri, i refrattari meno malvolentieri che se mi fossi fermato ai tecnicismi delle due lingue.
La lobby dei colleghi esclusivamente morfologisti, gli umbratici doctores, che all'epoca dettavano le regole alla scuola spinsero il preside Magnani a chiamare contro di me due ispettori ministeriali in tre anni. Speravano di cacciarmi. Non potevano tollerare che molti allievi con le loro famiglie dicessero che ero più bravo e interessante di loro, pallide vestali del manuali.
Il protagonista del Satyricon   contrappone tali maestrucoli ai grandi tragici: "nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. et ne poetas solum ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video" (2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici[14],  si peritarono a cantare in versi omerici. E per non far venire solo i poeti come testimoni, di certo non trovo che Platone né Demostene si sono abbassati a questo genere di esercitazione. 
Anche il classicista Quintiliano  vuole  escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che sarà un buon  oratore: "Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformīdare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[15], prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui  fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.
Il maestro pallido desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano: "aijboi', ponhroiv  g' oi\\da. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei furfanti,  ho capito. Tu dici quelle facce pallide, gli scalzi.  
Voglio dire che il greco e il latino vanno collegati non solo alla successiva letteratura europea ma anche alla vita. E che noi docenti dobbiamo avere cura anche del nostro aspetto.
Per fortuna in quegli anni, siamo nella seconda metà degli Ottanta, le cose stavano cambiando nella scuola italiana e nel suo Ministero: i due inquisitori dei miei presunti peccati sbugiardarono i minimalizzatori del greco e del latino: il primo, Adelelmo Campana, scrisse nel rapporto, come poi seppi, che Giovanni Ghiselli era uno dei migliori insegnanti d’Italia, il secondo Antonio Portolano, mi cooptò nel suo gruppo di lavoro e di studio. Attualmente continuo a collaborare con l’ispettore Luciano Favini succeduto a Portolano.
Io credo che se non si renderà più vivace lo studio del greco e del latino, continuerà la crisi delle vocazioni e la conoscenza di queste lingue un poco alla volta scomparirà. Invece è necessario farne rifiorire lo studio per il bene della nostra cultura e della civiltà italiana.
L’argomento che uso a priori per invogliare i ragazzi è che il greco e il latino sono, come minimo, e se non altro, dei mezzi per conoscere meglio la lingua italiana, strumenti funzionali a scrivere meglio, a parlare in maniera più persuasiva, capacità che sono utili alla vita, che accrescono  potenza in tutti i campi, da quello religioso a quello erotico, per dire i due estremi
A questo proposito cito due maestri, un magister di amore e uno di religione e di morale. Li ricordo in ordine cronologico.
"Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas [16]. ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[17].
Parlare e scrivere male è la quintessenza del fallimento dell’essere umano che è animale linguistico
Parlare male, affermava Socrate nel Fedone , non  solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime: " euj ga;r i[sqi a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[18], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene … ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime[19].

Viene in mente anche il pur antiplatonico  Isocrate, lo strapagato principe della retorica nell'Atene del IV secolo, l'educatore dei prìncipi: egli afferma che nelle altre facoltà che abbiamo non ci differenziamo per niente dagli animali, anzi ci troviamo ad essere inferiori a molti per la velocità, e la forza e per altre risorse. Quindi arriva alla celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe umanità né civiltà: "ejggenomevnou dj hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai;  scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa"" (Nicocle[20], 6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e inventato arti, e  quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La parola dunque è creatrice e civilizzatrice.
Il prologo del Vangelo di Giovanni  estende questa considerazione a  termini cosmici: " jEn ajrch'/  h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn." In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la Parola e la Parola era con  Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.

Torno al tradurre e concludo. Credo che tradurre gli ottimi auctores, i nostri accrescitori, sia un modo, un ottimo modo per incrementare la nostra capacità linguistica, la nostra facoltà estetica di intendere il bello e pure il nostro senso etico. Il bello e il bene infatti sono congiunti nella kalokajgaqiva.

giovanni ghiselli


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[1] P. Citati, Leopardi, p.58.
[2] J. Joyce, Dedalus, p. 258.
[3] Sulle orme di Ulisse, p. 151.
[4] De rerum natura, I, 641-642,
[5] Cicerone, De officiis, I, 130.
[6] Negli anni Ottanta il mio utilizzo a scuola del Satyricon era considerata empia o almeno eversiva da certi colleghi, poi un brano di questo capolavoro venne dato da tradurre a un esame di maturità, e gli incauti detrattori dovettero tacere, pur mugugnando
[7] Sono parole dello studente Kolia in I fratelli Karamazov (p. 661) . Questo romanzo è l'ultimo di Dostoevskij (1821-1881).
[8] A. Giordano Rampioni, Manuale per l'insegnamento del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, Pàtron, Bologna, 1999, p. 49.
[9] G. Pascoli, Prose, vol. I, Milano 1956 (2 ed.), p. 592. Da un rapporto al Ministro della Pubblica Istruzione del 1893.
[10] R. Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di letteratura greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION” Phil. 2004,., p. 254.
[11] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[12] M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 190.
[13] N. Machiavelli, Il Principe (del 1513), Dedica al Magnifico Lorenzo De' Medici.
[14] Il canone alessandrino dei nove lirici più importanti comprendeva Saffo, Alceo, Anacreonte (lirica monodica), Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane, Stesicoro, Ibico (lirica corale). Li abbiamo menzionati quasi tutti come poeti d'amore e maestri dei latini.
[15] Institutio oratoria I, 2, 18.
[16] Ovidio,  Ars Amatoria , II, 123-124.
[17]Lettera a una professoressa  , p. 95.
[18] Aggettivo formato da plhvn e mevlo~, contro il tono, contro il metro.
[19] Lo ha ricordato Ivano Dionigi nel convegno di Torino-Ivrea dell'ottobre 2003.
[20] Del 368 a. C. Le stesse parole tornano nell’Antidosis (254-255) del  354 a. C.