NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 26 febbraio 2015

Twitter, LXXXI antologia

Biblioteche, Parlamento e scarabocchiatori-boskemata


Le biblioteche dove vado a fare conferenze non sono tetre e prive di persone vive, sepulcrorum ritu, come sepolcri, al pari di tante altre.
Sarà perché, pur usando il latino ossia l’italiano antico invece dell’inglese, dico parole vive.
Domani, 27 febbraio, alle 18, 30, sarò alla Scandellara di Bologna. Presenterò Lucrezio,

I miseri in Italia sono la maggioranza relativa che diventerà assoluta. Eppure in parlamento non c'è una factio miserorum: un partito che li rappresenti.

Nel parlamento sono rappresentati solo quelli che vogliono consacrare le abbuffate dei ganascioni oziosi, dissacrare la cultura, schiavizzare i lavoratori.

Sono per l'eguaglianza econonìca. Tutti i lavori fatti bene, con impegno serio, sono ugualmente dignitosi. Vorrei che l'unica distinzione tra gli uomini fossero i valori intellettuali

Va sostituito il lavoro alla truffa, la capacità alla raccomandazione, il diritto all'elemosina. Questa sarebbe la vera riforma

La cultura non può chiudersi nelle Accademie senza diventare asfittica. Deve radicarsi tra i lavoratori, Lo scrittore artista deve avere la prospettiva di un popolo colto che lo legge e lo ascolta. Come succedeva ad Atene con Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane i quali scrivevano per gli spettatori Ateniesi del V secolo a. C. e parlano ancora a noi. Gli scarabocchiatori libreschi e i gazzettieri attuali lo fanno, quasi tutti, per compiacere il padrone che vuole dominare la plebe.  Costui quando viene accontentato, riempie la   greppia dei suoi  scribacchini. Boskhvmata (bestiame)

giovanni ghiselli


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mercoledì 25 febbraio 2015

La storia di Didone XIV parte

Rovine di Cartagine

Didone riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea: "Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi, /ulta virum poenas inimico a fratre recepi: /heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito, ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le nostre coste! "I tre perfetti statui, vidi, recepi scandiscono orgogliosamente le sue res gestae…Ulta è participio congiunto con valore temporale, inimico a fratre anastrofe. L'esclamazione successiva felix, heu nimium felix è, in termini sintattici, l'apodosi ellittica del seguente periodo ipotetico dell'irrealtà"[1]
 Il rimpianto della non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la tragica storia d'amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1 e ss. ), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche, IV, 32-33), a quella di Ennio (246-9 Vahlen 2) e all'Arianna dell'opus maximum di Catullo: "utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes " (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso! "Un modo sottile di richiamare le proprie radici culturali è nella poesia di Virgilio quella che Pasquali ha chiamata "arte allusiva". Il poeta, riecheggiando un passo o un verso o parte di un verso di un poeta greco o latino, presuppone che il lettore riconosca il passo riecheggiato e talvolta confronti l'originale colla rielaborazione di Virgilio, che talvolta innova e affina l'originale: infatti il poeta dell'età augustea non "imita", ma "emula" i poeti da cui si ispira, gareggia con essi"[2].
Segue un topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, il bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore. Vediamo i precedenti.
Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo riempie tutto del torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion-ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183-184. ).
Nelle Trachinie di Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto: “w\ levch te kai; numfei' j ejmav, -to; loipo; n h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote –devxesq j e[t j ejn koivtaisi tai'sd j eujnhvtrian” (vv. 920-922), o letto mio e stanza nuziale, addio per sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come sposa nel vostro giaciglio.
 La Medea di Apollonio Rodio invece bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine.
Un gesto ripetuto da Didone la quale muore dopo avere baciato il letto (os impressa toro, Eneide, IV, 659).
 “La donna che si getta sul letto coniugale, che invoca le dulces exuviae e bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal ricordo delle dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i vividi riflessi di Deianira)[3].
Leggiamo dunque questi versi: “Dixit et os impressa toro “Moriemur inultae, /sed moriamur”, ait “sic iuvat ire sub umbras” (vv. 659-660), disse, e, premuta la bocca sul letto, “Moriremo non vendicate, ma dobbiamo morire-disse- così mi va di scendere tra le ombre.
Questi versi sono ampiamente commentati da Leopardi: “ Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento e degno di un uomo conoscitore de’ cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l’animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell’esagerarli, anche, a se stesso, se può (che se può, certo lo fa) nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e procurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch’essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio né impedimento né compenso né consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l’uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura”[4].

Infine Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un annunzio di futuri danni: "Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis " (661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e porti con sé i presagi della mia morte.
Quindi l'atto del suicidio: "Dixerat, atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem" (vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta. -spumantem: prefigura la schiuma di sangue che, secondo la profezia della Sibilla del sesto canto, arrosserà il Tevere: "Bella, horrida bella/et Thybrim multo spumantem sanguine cerno" ( vv. 86-87), guerre, guerre raccapriccianti e il Tevere spumeggiante di molto sangue io vedo. -bacchatur: al v. 301 era la donna abbandonata che baccheggiava infiammata per la città messa in moto dalla Fama spietata; ora è la stessa Fama che, presa la fiaccola da Didone, smania attraverso Cartagine sconvolta.
La morte della regina prefigura la distruzione della sua città: "Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether, /non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671), gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro[5] crollasse, entrati i nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.
Didone che muore furente preannunzia la fine del suo Stato per la connessione organica tra il capo e la comunità e per l'assimilazione della donna non solo alla terra, come abbiamo visto, ma anche alla città.
Tolstoj afferma che è impossibile non sentire la femminilità di Mosca: "Ogni russo, guardando Mosca, prova la sensazione di trovarsi al cospetto di una madre, ogni straniero, guardandola e ignorandone il carattere materno, deve però almeno sentirne la femminilità: questo accadde anche a Napoleone. . . "Una ville occupèe par l'ennemi ressemble à una fille qui a perdu son honneur " pensava"[6].

In effetti anche la sorella Anna identifica la morte di Didone con la fine della città intera: "Extinxti te meque, soror, populumque patresque/Sidonios urbemque tuam " (vv. 682-683), hai annientato te e me, sorella, e il popolo e i patrizi sidoni e la tua città. -Extinxti: forma sincopata per extinxisti. - Populumque patresque: " il Danielino afferma che qui si accenna alle parti in cui era ordinata la cittadinanza cartaginese (oltre alla regia potestas, populus e optimates), ma certo il nesso suggerisce al lettore di Virgilio anche il familiare S. P. Q. R. , e dunque si tratta, come altrove, di un riferimento alla realtà romana"[7]. Si può quindi pensare alla costituzione mista.
Didone muore senza dire altre parole mentre la ferita stride profonda nel petto: "infixum stridit sub pectore volnus " (v. 689). Le ferite spesso parlano: non sempre sono " dumb mouths "[8], bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. Gli occhi erranti cercarono, finalmente, la luce, e la regina mandò un ultimo gemito quando l'ebbe trovata (v. 692). L'episodio si conclude con parole, se non di speranza, certo di pietà per la donna la quale " nec fato merita nec morte peribat/misera ante diem, subito accensa furore "(v. 697), moriva né per il destino suo né per morte meritata, infelice, prima del tempo, accesa da un subitaneo furore.
Negli ultimi versi del poema è il dardo di Enea che stride mentre passa attraverso la coscia di Turno: “Per medium stridens transit femur” (XII, 926).
"Nonostante la presenza corale del popolo, nonostante l'affetto e l'assistenza affettuosa della sorella, Didone è sola nella sua infelicità. La profondità della sua ferita non può essere compresa né da Enea né dagli altri; e l'aggravarsi del dramma dall'innamoramento alla rottura, al maturare del disegno del suicidio, al suicidio stesso, è nello stesso tempo un accentuarsi della solitudine, l'ampliarsi di un allucinante deserto. In questo modo di interpretare e cantare l'amore Virgilio restava fedele a un filo costante della sua sensibilità: già nella seconda ecloga, già nelle Georgiche l'amore, questo furore cosmico irrazionale, è infelicità e solitudine: ciò resta vero e importante, anche se nell'Eneide può avere avuto il suo peso la considerazione che rappresentare l'amore come piacere e gioia era indegno della dignità epica e tragica"[9].

All'inizio del successivo canto V Enea, voltandosi a guardare Cartagine dalla sua flotta che prende il largo, vede brillare le mura, ed egli con gli altri fuggiaschi, intuiscono, pur senza saperlo, che quei bagliori sinistri provengono dal rogo di Didone: " Interea medium Aeneas iam classe tenebat [10]/certus iter fluctusque atros aquilone secabat, /moenia respiciens, quae iam infelicis Elissae/conlucent flammis. Quae tantum accenderit ignem/ causa latet ; duri magno sed amore dolores polluto notumque, furens quid femina possit, /triste per augurium Teucrorum pectora ducunt ( vv. 1- 7), intanto Enea già con la flotta teneva risoluto la rotta in mezzo al mare, e sotto la tramontana fendeva i flutti scuri. Intanto guardava indietro le mura che già brillano per le fiamme dell'infelice Elissa. E' oscuro il motivo che ha acceso un fuoco così grande; ma conducono il cuore dei Teucri attraverso un funesto presagio i tremendi dolori di un grande amore violato e il fatto ben noto di che cosa sia capace una donna sconvolta dalla passione. Il primo verso è echeggiato dal primo della Commedia di Dante: Enea e Dante sono entrambi in fuga dal peccato, ma il secondo non è ancora così certus. La fiamma dell'amore è diventata il fuoco del rogo.
Vediamo qualche altro caso, in letteratura, che all'amore connette, il fuoco tragico e distruttivo, la follia e la rovina.
L'amore che infiamma il Nerone di Tacito per Poppea (flagrantior in dies amore Poppeae, Annales, XIV, 1) sarà una delle cause che scateneranno il giovane imperatore spingendolo fino al matricidio. Agrippina a sua volta brucia, ma il suo ardor è smania di conservare il potere che è il fine [11] mentre l'incesto è solo un mezzo: " Tradit Cluvius ardore retinendae Agrippinam potentiae eo usque provectam ut medio diei, cum id temporis Nero per vinum et epulas incalesceret, offerret se saepius temulento comptam et incesto paratam " (Annales XIV, 2) Cluvio[12] racconta che Agrippina, per ardente smania di conservare il potere, era arrivata al punto che in pieno giorno quando Nerone si scaldava col vino e il banchetto, si offriva a lui ubriaco diverse volte, ornata in modo seduttivo e pronta all'incesto.
 Anna Karenina, la quale è un'adultera che inganna e tradisce un marito vivo, è collegata al fuoco nelle varie fasi del suo amore: "Il suo viso splendeva d'un vivido fulgore, ma questo fulgore non era allegro: ricordava il fulgore terribile di un incendio in mezzo a una notte oscura; vedendo il marito, sollevò la testa e, come svegliandosi, sorrise"[13]. Questa è la fase ascendente della sua relazione con Vronskij. Alla fine, nell'epilogo tragico la fiamma diventa quella di un cero funebre: "E la candela alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era nell'oscurità, crepitò, cominciò a offuscarsi e si spense per sempre"[14].
Il fuoco amoroso di Orazio invece si spegne amabilmente, nelle strofe saffiche del canto di Fillide, l'ultimo amore, che manda un calore di fiamma già lontana: "Age iam, meorum/finis amorum. /(Non enim posthac alia calebo/femina), condisce modos, amanda/voce quos reddas; minuentur atrae/carmine curae " (Odi, IV, 11, vv. 31-36), su, estremo dei miei amori, (infatti non brucerò più per altra donna), impara bene i ritmi da ripetere con voce amabile; si schiariranno con i versi i foschi affanni.
Per quanto riguarda il tema della ferita è notevole che nel V canto dell'Eneide volnus torni come conseguenza di una gara cruenta di pugilato durante i giochi funebri in onore di Anchise: "Multa viri nequiquam inter se volnera iactant, /multa cavo lateri ingeminant et pectore vastos/dant sonitus, erratque auris et tempora circum/ crebra manus, /duro crepitant sub volnere malae " (vv. 433- 436), molti colpi gli uomini si scambiano invano per ferirsi, molti ne raddoppiano sui cavi fianchi e sul petto fanno risuonare vasti rimbombi, va e viene presso le orecchie, intorno alle tempie fitta la mano e crepitano le mascelle sotto i colpi che danno ferite. -nequiquam: il colpo del pugilato è meno implacabile di quello amoroso che non manca mai di ferire.
Si possono accostare i due diversi tipi di ferita pensando al fr. 27D. di Anacreonte: "pro; " [Erwta puktalivzw", voglio fare a pugni con Eros.


giovanni ghiselli

prossime conferenze: 26 febbraio ore 21 ex cinema Castiglione. Parlerò di Ester

27 febbraio ore 18, 30. Biblioteca Scandellara. Parlerò di Lucrezio



[1]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 276.
[2]A. La Penna-C. Grassi, op. cit. , p. XXVIII.
[3] A. La Penna, Prima lezione di letteratura greca, p. 155.
[4] Zibaldone, 2217-2218.
[5] La madre patria di Cartagine: "Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni) /Karthago", Eneide, I, 12-13, c'era una città antica, la fondarono coloni di Tiro, Cartagine. Da Tiro proveniva anche Cadmo, il fondatore di Tebe (cfr. Euripide, Fenicie, 638-639).
[6]Una città occupata assomiglia a una ragazza che ha perduto il suo onore. Guerra e pace, p. 1311.
 Un'altra assimilazione di un altro tipo di donna, in questo caso la prostituta, alla città si trova nella Cistellaria di Plauto: "Verum enim meretrix fortunati est oppidi simillima; /non potest suam rem obtinere sola sine multis viris " (vv. 80-81), infatti la meretrice è molto simile a una città ricca; non può reggersi da sola senza molti uomini.
[7]G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 278.
[8] Shakespeare, Giulio Cesare, III, 2.
[9]A. La Penna-C. Grassi, op. cit. , p. 358.
[10] Questo verso è citato nel Satyricon (68, 4) con intenti canzonatori nei confronti dell'ambiente di Trimalchione: uno schiavo lo grida sbagliando la pronuncia delle lunghe e delle brevi, come fanno gli stranieri incolti, al punto che allora perfino Virgilio risultò fastidioso a Encolpio (68. 5).
[11] Come per Alcibiade.
[12] Storiografo vissuto alla corte di Nerone.
[13]L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 148.
[14] Anna Karenina, p. 772. 

lunedì 23 febbraio 2015

Lucrezio, De rerum natura. V libro

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Lucrezio
De rerum natura, V libro


Inizia con un altro elogio di Epicuro il quale è il vero inventore della ratio che è la vera sapientia.
Si dice che Cerere abbia inventato le messi e Libero il vino, ma la vita può durare senza questi doni, tanto che alcune popolazioni ne fanno a meno.
Ma non si può vivere bene sine puro pectore (18).
Le cosiddette imprese di Ercole fanno ridere. Quale danno potrebbero recarci? Noi infatti possiamo evitare le loro tane.
Ne fa un elenco pieno di immagini: il leone nemeo, il cinghiale di Arcadia, l’idra di Lerna, vallata venenatis colūbris (27) difesa da un vallum - trincea - di serpenti velenosi. Poi i tripectora tergemini Geryonai (28), gli uccelli di Stinfalo, le cavalle del tracio Diomede spirantes naribus ignem (30), e il serpente asper, acerba tuens, immani corpore serpens (33) che sorvegliava gli aurei pomi delle Esperidi propter Atlanteum litus pelagique severa/, quo neque noster adit quisquam nec barbarus audet (35 - 36). Le colonne d’Ercole. Ebbene tali mostri non impedirebbero la nostra vita poiché la terra tuttora brulica di mostri et trepido terrore repleta est (40) in luoghi che possiamo evitare quae loca vitandi plerumque est nostra potestas (42)
E’ più importante per la salute avere purgatum pectus (43)
Nel petto non purificato girano acres curae cuppedinis e timores.
Quindi superbia, spurcitia, petulantia, luxus, desidiae, avaritia ambitio.
Molti di questi vizi sono denunciati anche dagli Stoici e poi dai Cristiani. Sul terreno etico le tre filosofie sono simili.
Ebbene Epicuro che ha cacciato questi mostri dictis, non armis (50) va annoverato tra gli dèi. Egli con le parole ha chiarito la compagine intera dell’universo. Io seguo le sue orme.
La fortuna gubernans (77) dirige il corso del sole e i moti della luna. Questi corpi celesti non sono liberi né mossi dal volere divino.
Gli dèi non c’entrano. Ogni cosa ha una finita potestas atque alte terminus haerens (90). Un giorno ruet moles et machina mundi (96), ci sarà un exitium caeli terraeque (98).
Quello che udite da me non avrà la conferma della vista e del tatto, le due vie sicure. Sed tamen effabor (104)
La fortuna gubernans potrebbe far crollare il mondo - horrisono fragore - (109) prima che io finisca quest’opera. Comunque le mie parole saranno rasserenanti.
Come i pesci non possono vivere nei campi (ajduvnaton), “sic animi natura nequit sine corpore oriri –sola neque a nervis et sanguine longius esse” (132 - 133)
Così le sedi degli dei sono separate dalla nostra e sono tenues de corpore eorum (154) sottili secondo la loro natura.
Desipere est (165) è follia pensare che gli dèi abbiano creato il mondo hominum causa, per gli uomini. Essi non hanno motivi di gratitudine verso di noi.
Seneca invece dice che dio ha creato il mondo perché è buono. Ricorda Platone il quale nel Timeo ha scritto che il mondo è bello e il suo artefice è a[risto" (28a - 29a).
Ita Plato: quae deo faciendi mundum causa fuit? Bonus est (ep. 65, 10)
Il mondo per giunta è un luogo di sofferenza quid obest non esse creatum? (180) che danno ci sarebbe? Cfr. Leopardi Nasce l’uomo a fatica…prova pena e tormento//per prima cosa; e in sul principio stesso//la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato”
Dunque
nequaquam nobis divinitus esse paratam
Naturam rerum: tanta stat praedita culpa (198 - 1999) per niente.

Al contrario: Agostino ricorda Platone: habemus sententiam Platonis dicentis omnes deos bonos esse (civ. Dei, 8, 13).
La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore viene, com’è noto, dal Timeo (28a)
 Il Timeo viene riecheggiato ripetutamente da Agostino attraverso la traduzione ciceroniana. Per esempio: “hanc etiam Plato causam condendi mundi iustissimam dicit, ut a bono Deo bona opera fierent (civ. Dei, 11, 21), anche Platone afferma che la causa più giusta della creazione del mondo è che le opere buone sono fatte da un Dio buono.
Anche Seneca aveva tradotto il medesimo passo del Timeo: Ita certe Plato ait: Quae deo faciendi mundum fuit causa? Bonus est (ep. 65, 10)
Timeo 29a. Dio è il più buono degli autori a[ristoς tw̃n aijtivwn.
E ancora: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt (ep. 95. 49).

Torniamo a Lucrezio.
La terra produce frutti solo in seguito a grandi sforzi degli uomini
A volte le fatiche vengono annichilite dal tempo maligno
Poi c’è il genus horriferum ferarum humanae genti infestum (219), i morbi portati dalle stagioni, la mors immatura.
Il puer è ut navita saevis proiectus ab undis (223) egli nudus humi iacet, infans, indigus omni vitali ausilio. Appena espulso dal ventre materno vagituque locum lugubri complet, ut aequum est
Cui tantum in vita restet transire malorum (225 - 6)
Crescono più facilmente le fiere che non hanno bisogno di ninnoli (nec crepitacillis opus est - sonaglini) né di nutrici che sussurrino e balbettino, e non necessitano di armi né muraglie (234)
Il cielo e la terra come sono ora non ci saranno più.
La terra è madre e sepolcro qodcumque alit auget, redditur, tutto quello che alimenta e accresce le viene restituito
ella stessa viene erosa e aumentata e ricresce
Ella è “omniparens eadem rerum comune sepulcrum” (259)
Cfr. Shakespeare, Macbeth: “poor country, it cannot be called our mother, but our grave (IV, 3). E’ il nobile Ross che parla.
Ma è tutto l’universo che scorre in eterno (280)
Tutto è vinto dal tempo: le pietre, le torri, le montagne, il sole, le stelle.
Denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo/non altas turris ruere et putrescere saxa/non delūbra deum simulacraque fessa patisci/nec sanctum numen fati protollere finis/posse neque adversus naturae foedera niti? (306 - 310)
Nemmeno il sacro nume può protrarre i termini del fato.
Il tempo è il cormorano che ci divora (S. Love’s labours lost)
Pericle, principe di Tiro: del tempo: he is both their parent and he is their grave. La terra è madre e tomba, il tempo è padre e tomba
Ogni cosa scema nutrendo di sé altri corpi.

Questo mondo non c’è stato sempre e finirà. Le storie più antiche sono il bellum thebanum e i funera Troiae (326). Perché non risalgono più indietro? La terra è ancora recente (ma più avanti dirà il contrario)
Anche questa ratio reperta est nuper (335) e io sono il primo qui possim vertere voces in patrias (337). Vertere è un tradurre liberamente. Verbum de verbo exprimere, letteralmente.

Per non finire, per essere eterni, non si deve risentire degli urti. Immortali infatti sono gli atomi e il vuoto sicut inane est - quod manet intactum neque ab ictu fungitur hilum (357 - 358) né riceve i colpi. Anche l’universo è eterno perché non c’è un fuori luogo quo dissiliant dove gli atomi possano saltare. Dunque la leti ianua , la porta della morte, non è chiusa al cielo né alla terra né al sole sed patet immani et vasto respectat hiatu (375) ma è aperta e li osserva con una enorme, mostruosa spalancatura.
Cose mortali che hanno avuto un principio avranno una fine.
Le immense membra del mondo lottano tra loro, l’acqua il fuoco in particolare. Il mito di Fetonte, pur lontano da una corretta ragione racconta un assalto del fuoco, la storia di Deucalione e Pirra, un tentativo dell’acqua.
All’inizio c’era il caos poi un ordo ma non disposto sagaci mente (420).
Prima c’era una tempestas una moles, congerie di semi di ogni specie e confuse battaglie. Poi le particelle simili cominciarono a congiungersi con le simili coepere paresque cum paribus iungi (444), e dunque a separarsi il cielo dalla terra, dal mare. Allora l’etere si levò sopra la terra. Il sole e la luna stanno a mezz’aria, meno pesanti della terra, più dell’etere.
La terra si avvallò dove i corpi celesti si ritirarono e subentrò il mare.
L’etere è la parte più alta e leggera del cielo e non ha le sue perturbazioni
Lucrezio ritiene, come Epicuro che la terra sia ferma al centro del mondo e i corpi celesti in movimento (geocentrismo). L’eliocentrismo di Tico Brahe e Copernico era stato già sostenuto da Eraclide Pontico del VI e Aristarco di Samo del III sec. a. C. Cfr. “maledetto sia Copernico” di Pirandello (Il fu Mattia Pascal)
C’è un aria che muove le stelle che sparse per il cielo pascono i loro corpi ignei (525).
Il sole. La luna e le stelle, data l’ejnavrgeia, l’evidenza dell’ai[sqhsiς, della sensazione, non sono molto diverse nelle dimensioni da come ci appaiono. Pitagora confortato dalla matematica e perfino Democrito attento alla geometria non affermava questo (cfr. Cic. De finibus, I, 20)
Sole e luna, secondo Lucrezio, non sono di dimensione maggiore di come ci appaiono.
Infatti i corpi che appaiono più piccoli del reale, si vedono anche confusi.
Non tali sono la luna e il sole. Il fuoco del sole non è grande ma molto intenso (604 - 5). Oppure il sole ha intorno a sé un grande anello di fuoco di occulto fervore, cioè non visibile (612)
Il succedersi del giorno e della notte dipende da un’accensione ed estinzione quotidiana del sole stesso, oppure perché il sole passa al di sotto della terra (650 - 655).
Così all’aurora Matuta –la dea dell’alba - fa tornare la luce quando il sole torna dalla parte inferiore della terra oppure perché i suoi fuochi si raccolgono e confluiscono. C’è una periodicità nell’accendersi e spengersi della luce del sole come nelle stagioni dell’anno e della vita degli uomini.
D’inverno le notti sono più lunghe e d’estate più corte perché il sole sotto e sopra la terra divide la sua orbita in parti disuguali partit et in partis non aequas dividit orbem (684). Oppure perché l’aria è più densa in certe sue parti aut quia crassior est certis in partibus aer (696) e perciò tremulum iubar ignis, la tremula criniera del fuoco haesitat sub terris
La luna può avere luce riflessa o luce propria.
La luna potrebbe anche mutare e rinnovarsi come le stagioni dell’anno che vedono succedersi ver et Venus preannunziata da Zefiro seguito da Flora che sparge fiori colorati e ne profuma le vie, poi l’estate accompagnata da Ceres pulverulenta, quindi l’Autunno con Bacco Evio, infine Tandem bruma nives adfert pigrumque rigorem - reddit; hiemps sequitur crepitans hanc dentibus algu (746 - 747).
Perciò può darsi che anche la luna si formi e si dissolva.
Vengono poi spiegate le eclissi di sole con le intercettazione della luce del sole da parte della luna; in quelle della luna è la terra che le toglie la luce del sole. Oppure si interpongono altri corpi o c’è uno spengimento delle fiamme di luce. Solis defectus lunaeque (751) dunque possono avere diverse cause. I superstiziosi li consideravano segni sinistri. Ma vedi Alessandro Magno.
Poi Lucrezio vuole tornare ad mundi novitatem (780), ai primi tempi della terra.
Prima la terra produsse le erbe e florida fulserunt viridanti prata colore (785), poi gli alberi vari ai quali datumst magnum certamen crescendi per auras immissis habenis, fu dato una grande gara nel crescere nell’aria a briglia sciolta. Poi la terra mortalia saecla creavit produsse le generazioni mortali multa modis multis varia ratione coorta (792), nate in vari modi
Giustamente dunque la terra ha ricevuto il nome di madre.
La vita nel giovane mondo era più facile. Le creature nascevano dalla terra che le nutriva. La terra offriva ai neonati cibum, il vapor calore dell’aria offriva vestem, herba - cubile praebebat multa et molli lanugine abundans (816 - 817)
Non c’erano grandi caldi né grandi freddi.
Poi la terra madre smise di generare come prima: destitit, ut mulier spatio defessa vetusto (827). Infatti nell’universo omnia migrant, - omnia commutat natura et vertere cogit (831). Aliud putrescit…porro aliud succrescit (832 - 833), in seguito. E’ il tempo che muta la natura del mondo e la terra non produce più quello che poteva ma produce quello che non poteva.
Una volta la terra tentò di creare etiam portenta (837), dei mostri l’androgino, androgynem[1], utrimque remotum (839), creature prive di piedi e di mani, muta sine ore etiam, sine vultu caeca reperta (841), o legati per tutto il corpo a causa dell’adesione. Cetera de genere hoc mostra ac portenta creabat (845), nequiquam poiché la natura non li fece crescere né riprodurre. Gli animali per conservare la specie devono avere aut dolus aut virtus aut denique mobilitas (858). I leoni e le altre stirpi feroci (saeva saecla) li protegge la virtus, vulpis dolus, fuga cervos (863).
I cani dal sonno leggero, le bestie da soma le lanigerae pecudes e quelle cornigere , omnia sunt hominum tutelae tradita, Memmi (867).
Ma le bestie deboli e inutili all’uomo cadevano preda delle altre indupedita suis fatalibus omnia vinclis –donec ad interitum genus id natura redegit (876 - 877). Impedite da vincoli fatali, come gli uomini incapaci di tutto.
Ma i Centauri non sono mai esistiti. Sono troppo eterogenei
Lo spiega in modo che possa capirlo anche un hebes cor, un animo ottuso (882). I tempi dello sviluppo dell’uomo e del cavallo sono diversi.
Le Scille sono mostri mezzi marini cinti da cani rabbiosi. Insomma le discordia membra non possono darsi. La Chimera poi era prima leo, postrema draco, media ipsa Chimaera (Civmaira, capra) e sputava fuoco.
Chi parla di questi mostri invece sputa fandonie. Infatti tutte le cose foedere naturae certo discrimina servant (924) conservano le differenze secondo una ferma legge di natura. Ma Lucrezio è in contraddizione con 837ss.

Storia del genere umano
Comunque nell’età primitiva una dura tellus creò un genere umano multo durius (926), et maioribus et solidis magis ossibus intus (927) connesse da nervi possenti, più resistenti al freddo, al caldo e ai mali. Vivevano una vita da belve. Mangiavano quod terra crearat - sponte sua. Si nutrivano di ghiande e di purpuree corbezzole (arbita punico colore). La novitas mundi produceva pabula dura tulit, miseris mortalibus ampla (944)
A sedare la sete li chiamavano fiumi e sorgenti At sedare sitim fluvii fontesque vocabant (945). Non conoscevano il fuoco, non si servivano di pelli, celavano le ruvide membra in mezzo ai cespugli et frutices inter condebant squallida membra (956). Non conoscevano leggi né mores.
Nelle selve Venere congiungeva i corpi degli amanti. Il concilium con la donna lo favoriva vel mutua cupido, “vel violenta viri vis atque impensa libido” (964) la libidine grande, “vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta” (965).
Inseguivano le fiere scagliando pietre e brandendo clave, alcune le vincevano, con altre fuggivano nei covi e come irsuti cinghiali saetigerisque pares subus (970) membra nuda dabant terrae avvolgendoli con foglie e fronde, quindi in silenzio, sepolti nel sonno aspettavano la luce. Temevano che il sole non tornasse. Succedeva che venissero sbranati dalle fiere: qualcuno di loro “pabula viva feris praebebat, dentibus haustus” 991, sorso per i denti,
et nemora ac montis gemitu silvasque replebat
Viva videns vivo sepeliri viscera busto” (992 - 993), vedendo le proprir viscere vive sepolte in un vivo sepolcro. Allitterazione in “v” e ossimoro co vivo busto
Gorgia chiama gli avvoltoi sepolcri viventi –gũpeς e[myucoi tavfoi (in Sublime, 3, 2).
Chi fuggiva ferito, premendo i palmi tremanti super ulcera taetra tenentes (995) sopra le piaghe orrende, invocava la morte con urla agghiaccianti
palmas horriferis accibant vocibus Orcum” (996), finché atroci spasimi li privavano della vita, senza aiuti né cure.
Però non morivano a migliaia in un sol giorno di guerra, nec turbida ponti - aequora lidebant - sbattevano - navis ad saxa virosque (1001).
 “nec poterat quemquam placidi pellacia ponti
subdola pellicere in fraudem ridentibus undis.
Improba navigii ratio tun caeca iacebat” (1004 - 6) non c’era l’adescamento del mare e la funesta arte di navigare
Allora si poteva morire di fame, “contra nunc rerum copia mersat” (1008)
Vedi la satira Giovenale sui morti per cibo.
Giovenale nella I satira descrive persone che
Comedunt patrimonia una mensa (138).
 Gente imbandisce per sé cinghiali interi,
quanta est gula quae sibi totos
ponit apros, animal propter convivia natum!
poena tamen praesens cum tu deponis amictus
turgidus et crudum pavonem in balnea portas
hinc subitae mortes atque intestata senectus (140 ss,)
Il funerale riceve applausi dai clenti adirati.
La Roma di Giovenale: "questo rospo velenoso con gli occhi di Venere"
( Nietzsche, Umano troppo umano)

Allora, per ignoranza - imprudentes, mangiavano cibi velenosi, ora lo somministrano accortamente ad altri.
Poi arrivò la monoandria - et mulier coniuncta viro concessit in unum” (1012), capanne, pelli, fuoco tum genus humanum primum mollescere coepit (1014) - cominciò a indebolirsi, “ingentilirsi”, secondo Luca Canali.
Ma subito dopo Lucrezio scrive che il fuoco rese i corpi alsia, freddolosi e incapaci di resistere al freddo, poi Venus imminuit viris (1017) ridusse le forze, e i fanciulli con le blandizie piegarono il duro carattere dei padri.
Intervenne anche la pietà per i deboli. Non c’era concordia ovunque
sed bona magnaque pars servabat foedera caste (1025),
aut genus humanum iam tum foret omne peremptum
nec potuisset adhuc perducere saecla propago”, già allora sarebbe andato distrutto.

L’origine del linguaggio
All’origine del linguaggio ci sono l’istinto e il bisogno. Il bambino incapace di parlare prima fa dei gesti, come i piccoli degli uccelli accennano a volare quando ancora non sanno farlo.
E’ dunque follia pensare che un uomo abbia assegnato i nomi alle cose e gli altri abbiano imparato da lui i primi vocaboli
Epicuro sostiene che c’è stata una iniziale fase naturalistica (“ojnovmata ejx ajrch̃ς mh; qevsei genevsqai” (a Erodoto, 75), ma poi di comune accordo furono stabilite espressioni particolari di ciascun popolo, perché le indicazioni reciproche fossero meno ambigue e venissero rese note in modo più sintetico “u{steron de; koinw̃ς kaqj e[kasta e[qnh ta; i[dia teqh̃nai pro;ς to; ta;ς dhlwvseiς h|tton ajmfibovlouς genevsqai ajllhvloiς kai; suntomwtevrouς dhloumevnaς ”. Ma Lucrezio è più epicureo di Epicuro.
Lucrezio è assertore della istintività naturale del linguaggio e ne nega la convenzionalità (qevsei in Epicuro, secondo un accordo).

Platone invece nel Cratilo presuppone un ojnomatourgovς (389a) un legislatore creatore di nomi, il più raro tra gli artefici. Le lettere dei nomi nelle varie lingue sono diverse. Ma al nomoqevth" è bastato rendere l’idea che conviene (ei\do" prosh'kon) a ciascuna cosa.
 Prima di lui Pitagora sostenne che un saggio omnibus rebus imposuit nomen (in Cic. Tusc. I, 62).

Lucrezio: anche gli animali fanno versi differenziati secondi gli umori - varii sensus animalia cogunt varias emettere voces, quindi è ragionevole pensare che a maggior ragione gli uomini abbiano usato parole diverse per oggetti diversi (1090)
Gli uomini primitivi dunque scoprirono il fuoco, e dal sole che inteneriva i prodotti nei campi, impararono a cuocere.
Cominciarono a eccellere e a cambiare la cultura - ingenio qui praestabant et corde vigebant” 1107
I re si diedero a fondare città e fortezze
Et pecus atque agros divisere atque dedere
Pro facie cuiusque et viribus ingenioque;
nam facies multum valuit viresque vigebant.
Posterius res inventast aurumque repertum
Quod facile et validis et pulchris dempsit honorem (1110 - 4)
Anche i belli infatti di solito seguono la fazione del ricco
Divitioris enim sectam plerumque sequuntur (1115)

Se invece uno governasse la vita vera ratione,
divitiae grandes homini sunt vivere parce
aequo animo; neque enim est umquam penuria parvi (1118 - 9).
Non c’è mai miseria del poco.
 Cicerone nei Paradoxa Stoicorum[2] scrive più sinteticamente: "non esse emacem vectigal est" (VI, 51) non essere consumisti è una rendita.
Ma gli uomini vogliono la ricchezza e ad summum accedere honorem (1123)
Et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
Invidia interdum contemptim in Tartara tetra (1125 - 6) li getta colpiti (ico - ici - ictum –ere)
Dunque è molto meglio un parēre quietum “quam regere imperio res velle et regna tenere” (1128).

Cfr. con segno ideologico capovolto quanto dice Anchiese da morto:
“ tu regere imperio populos, Romane, memento
(haec tibi erunt artes) pacique imponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos"( Eneide, VI, 851 - 853), tu, Romano, ricorda di guidare i popoli con il tuo impero (queste saranno le tue arti) e di imporre una norma alla pace, risparmiare i sottomessi e ridurre all'obbedienza i superbi[3].
Torniamo a Lucrezio
Quelli che lottano sull’angusto sentiero dell’ambizione seguono i dettami del “si dice, si fa”. “ quandoquidem sapiunt alieno ex ore, petuntque –res ex auditis potius quam sensibus ipsis (1131 - 2)

I monarchi poi vennero uccisi e tutto tornava al fondo della feccia e alle folle “Res itaque ad summam faecem turbasque redibat” (1141)
Agli uomini poi venne a noia trascorrere la vita nella violenza, quindi vennero create magistrature e leggi.
Cfr. Foscolo: “Dal dì che nozze e tribunali ed are - diero alle umane belve esser pietose –di sé stesse e d’altrui, toglievano i vivi - all’etere maligno ed alle fere - i miserandi avanzi che Natura - con veci alterne a sensi altri destina” (Dei Sepolcri, 91 - 96)

Da allora Inde metus poenarum maculat praemia vitae (1151).
Al timore terreno si aggiunse subito quello ultraterreno.

Poi nacque la religione. Gli uomini credevano di vedere gli dèi e attribuivano loro ogni potere.
O genus infelix humanum (1194) quando ebbe attribuito agli dèi potere e collera grandi.
Che cosa è la pietas (cfr. quella di Enea)
Devozione non è mostrarsi spesso con il capo velato
 Nec pietas ullast velatum saepe videri né nel rivolgersi a una pietra vertier ad lapidem (1199), visitare tutti i templi, gettarsi a terra, cospargere le are di molto sangue di animali, nec votis nectere vota, intrecciare le offerte votive sed mage pacata posse omnia mente tueri (1203)
Temptat enim dubiam mentem rationis egestas” (1211) travaglia le menti la carenza di ragione
Bastano tuoni e fulmini a spaventare gli sprovveduti. Quelli pieni di sensi di colpa hanno sempre paura.
Perfino il comandante di una flotta induperator classis (1227) se viene colto da una tempesta nel mare si riempie di terrore.
Ma cfr. Alessandro Magno a Gaugamela.
L’arcaismo induperator vuole dare dignitas allo stile: . Sentiamo Quintiliano: “dignitatem dat antiquitas. Namque et sanctiorem et magis admirabilem faciunt orationem, quibus non quilibet fuerit usurus…sed utendum modo, nec ex ultimis tenebris repetenda” ( Institutio oratoria, VIII, 3, 24) non bisogna cercare le parole fin nelle tenebre più lontane.
Usque adeo res humanas vis abdita quaedam
Obterit et pulchros fascis saevasque secures
Proculcare ac ludibrio sibi habere videtur (1232 - 5), una forza nascosta calpesta le cose umane e sembra schiacciare e tenere a proprio ludibrio i bei fasci e le scuri crudeli.
Questa vis sconosciuta che calpesta le umane cose è la forza della natura.

Foscolo “e una forza operosa le affatica/di moto in moto, (Dei Sepolcri 19 - 20)
Foscolo ha scritto Della poesia, dei tempi e della religione di Lucrezio.
E Leopardi: Omai disprezza - te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera” (A se stesso).

Quando ci sono i terremoti concussaeque cadunt urbes dubiaeque minantur (1237), allora i mortali spregiano se stessi (se temnunt mortalia saecla) e lasciano il mondo all’immaginario grande potere degli dèi.
Quindi le scoperte
aes atque aurum ferrumque repertumst
Et simul argenti pondus plumbique potestas (1241 - 2)
Con il fuoco videro che questi metalli potevano essere liquefacta calore (1262) e forgiati e prendere le forme volute di vari arnesi e ornamenti
Le credenze mitologiche attribuivano a Efesto l’invenzione della metallurgia, ad Atena quella della tessitura, mentre l’epicureo Diogene di Enoanda dirà che hanno dato origine alle arti aiJ creĩai kai; periptwvseiς meta; cronw/, i bisogni e le circostanze nel tempo.
Nei tempi antichi il rame aes adatto agli sforzi violenti era il metallo più pregiato. Nunc iacet aes, aurum in summum successit honorem
Sic volvenda aetas commutat tempora rerum
Quod fuit in pretio, fit nullo denique honore (1275 - 7)

Le armi e la guerra

Antiche armi:
arma antiqua manus ungues dentesque fuerunt
Et lapides et item silvarum fragmina rami
Et flamma atque ignes, postquam sunt cognita primum (1283 - 5)
Prima del ferro fu trovato il bronzo che è più duttile e più abbondante.
Con il bronzo dissodavano il suolo e facevano la guerra, poi trovarono il ferro. Cfr. Erodoto il ferro è stato inventato per il male dell'uomo : " ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai" (I, 68, 4).
 Ovidio[4] nel I libro delle Metamorfosi[5] descrive un’ età prossima alla nostra [6], un’età non più redimibile, quella del male integrale, quando omne nefas , ogni empietà, irrompe nel genere umano: "fugitque pudor verumque fidesque;/in quorum subiere locum fraudesque dolusque/insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi./effodiuntur opes, inritamenta malorum/ iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma./ Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite tutus,/non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est [7]./Imminet exitio vir coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante diem patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede madentes,/ultima caelestum, terras Astraea reliquit" (I, 129 - 131 e 140 - 150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore criminale del possesso…si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto[8] e, più funesto del ferro, l'oro[9] era venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive di rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal genero, anche l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito minaccia di rovina la moglie, questa il marito; mescolano squallide pozioni velenose le terrificanti matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo negli anni del padre. Giace sconfitta la pietas e la Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le terre sporche di strage.

Torniamo alla guerra di Lucrezio
Segue una storia delle arti belliche che mette in rilievo il carattere perverso della guerra la quale uccide non solo i nemici ma anche gli amici.
Prima combatterono a cavallo, poi sulle bighe, poi i carri falcati falciferi currus (1301).
“uno dei molti composti epicheggianti coniati da Lucrezio (già in III 642; il termine comune e prosaico era falcatus). La nobilitazione epica si accentua quando arriviamo al culmine del progresso nell’uso bellico degli animali, cioè all’uso degli elefanti (1302 - 1304) . Il primo nome con cui i Romani indicarono l’elefante (Luca bos), testimoniatoci da Nevio, richiamava alla memoria la guerra conro Pirro, ma il richiamo dei Poeni come primi istruttori degli elefanti alla guerra rimanda alle guerre puniche, la più grandiosa esperienza bellica che i Romani avessero avuto prima di Lucrezio…La nobilitazione epica è nelle scelte lessicali e nell’allitterazione di 1304; un segno particolare l’allusione ad Ennio nell’epiteto taetras, riferito agli elefanti…il grandioso, accentuato anche da turrito corpore, qui fa tutt’uno con l’orrido, col mostruoso; questo aspetto è accentuato dall’immagine della proboscide come un lungo serpente, che si profila nello strano, allucinante epiteto anguimanus, da Lucrezio coniato appositamente per gli elefanti (ad elefanti è riferito già in II 537): la massiccia bestia è armata di una specie di drago…La breve storia dell’uso degli animali in guerra (1297 - 1304) si chiude con un commento epico - lirico (1305 - 1307), che delinea il progresso tecnico come un crescendo di orrore e di terrore, crescendo causato dalla discordia tristis. Come in altri punti ben noti della storia della civiltà umana tracciata da Lucrezio, come, immediatamente prima, nella storia dell’uso dei metalli, il progresso tecnico si rovescia in processo di corruzione; se il processo è visibile nell’aumento dei consumi superflui (cioè non richiesti dalla vita secondo natura), ancora più visibile è nel crescere del furore della guerra, nell’affinarsi della tecnica bellica, nel moltiplicarsi delle stragi; del resto già per Lucrezio, come poi per i poeti augustei, il furore bellicoso è alimentato generalmente dalla fame di ricchezza e di lusso” (La Penna, p. 38 - 40)

Quindi i Cartaginesi istruirono boves lucas, gli elefanti (buoi lucani perché i Romani li videro la prima volta in Lucania), turrito corpore, anguimanus (1303) dalla mano di serpente (la proboscide)
Così la funesta discordia produsse una cosa dall’altra
Sic alid ex alio peperit discordia tristis (1305) e inventò ordigni sempre nuovi per accrescere gli orrori della guerra.
Scagliarono anche tori, leoni e cinghiali.
I leoni sconvolgevano tutte le schiere senza distinzione.
Turbabant saevi nullo discrimine turmas (1314).
“Nel pezzo che comprende i due versi introduttivi e il primo quadro dei leoni (1308 - 1317), saevus è una parola chiave: saevi sono i cinghiali (1314); ma saevi sono anche i domatori (1311) : non accorti ammaestratori, non blandi moderatori che ammansiscono, ma feroci e violenti come le bestie che devono domare…la logica del fallimento è nell’impossibilità di orientare la furia delle bestie, che si dimostra non meno devastante per i padroni che per i nemici. Nel rilievo icastico del quadro emergono in primo piano le teste terrificanti dei leoni che scuotono le loro criniere:
terrificas capitum quatientes undique cristas (1315)

La ripresa di un verso dal quadro che rappresenta i riti sanguinosi e ripugnanti dei Galli seguaci di Cibele (II 632 terrificas capitum quatientes numine cristas) rientra nel calco di un procedimento “omerico”, che contribuisce in misura notevole a dare al poema la nobilitante patina epica; c’è qualche cosa di più: come in qualche altro caso, la Wiederholung suggerisce analogie più ampie: i due quadri hanno in comune anche l’eccitamento dato dal sangue che scorre (cfr. II 631 in numerumque exultant sanguine laeti con V 1313 permixta caede calentes) (La Penna, p. 41).

Le leonesse avventavano i corpi infuriati a salti da ogni parte
irritata leae iaciebant corpora saltu
Undique et adversum venientibus ora petebant (1318 - 9)
Mentre altri li dilaniavano da tergo
morsibus adfixae validis atque unguibus uncis (1322)
avvinghiandosi con morsi forti e artigli adunchi
I tori sbalzavano via i conduttori poi incornavano dal basso i cavalli,
i cinghiali con forti zanne straziavano anche gli alleati
et validis socios caedebant dentibus apri (1326)
e facevano strage di fanti e di cavalieri.
Anche la guerra dunque fa parte dell’irrazionalità umana
Non si fanno queste battaglie tanto con la speranza di vincere
Sed facere id non tam vincendi spe voluerunt -
quam dare quod gemerent hostes, ipsique perire
qui numero diffidebant armisque vacabant” (1347 - 8)
Fromm assimila il genocidio di Cartagine perpetrato dai Romani ad altri scempi commessi dai vincitori nei confronti dell’umanità: “The history of civilization, from the destruction of Carhage and Jerusalem to the destruction of Dresden, Hiroshima, and the people, soil, and trees of Vietnam, is a tragic record of sadism and destructiveness” (The anatomy of human destructiveness, p. 192), la storia della “civiltà” dalla distruzione di Cartagine e Gerusalemme, alla distruzione di Dresda, Hiroshima, e del popolo, del suolo, degli alberi del Vietnam, è un documento tragico di sadismo e distruttività.
“Di questa sequela di crimini sfuggono le motivazioni nonché le ragioni della sua ininterrotta durata, sicché la storia nel suo complesso si configura, per dirla con Hegel, come un “mattatoio” di dimensioni planetarie[10] ovvero come un insondabile mysterium iniquitatis. A questo punto - possiamo osservare con Gramsci - “irrazionale” e “mostruoso” ci appare il “passato” in quanto tale: la storia nel suo complesso si configura come una “grottesca vicenda di mostri”, come “teratologia”[11][12].

Poi la tessitura
La natura spinse gli uomini prima delle donne a filare la lana (1349) poiché gli uomini ne sono più capaci.
Vediamo un aspetto dei costumi egiziani. Lo storiografo che ama rilevare le diversità degli usi dei vari popoli, non senza la santa tolleranza[13], nota che questo popolo, conformemente al clima diverso e al fiume differente dagli altri, ha costumi e leggi contrari a quelli degli altri uomini: " ejn toi'si aiJ me;n gunai'ke" ajgoravzousi kai; kaphleuvsi, oiJ de; a[ndre" kat j oi[kou" ejovnte" uJfaivnousi" (II, 35, 2), presso di loro le donne vanno al mercato e trafficano, gli uomini invece tessono stando in casa.
Di questo passo erodoteo si ricorda Sofocle nell'Edipo a Colono senza però che il protagonista consideri equivalenti, o dipendenti dal clima, costumi tanto diversi: infatti il vecchio cieco incestuoso e parricida biasima i figli maschi poiché hanno costumi simili agli Egiziani: là i maschi siedono in casa lavorando al telaio (oiJ me;n a[rsene~ kata; stevga~ - qakou'sin iJstorgou'nte~, vv. 339 - 340), mentre le loro compagne vanno sempre fuori a procurare il cibo per vivere. Altrettanto fanno i figli di Edipo e Giocasta: Eteocle e Polinice " kat j oi\kon oijkorou'sin w{ste parqevnoi" (v. 343) restano in casa come fanciulle, mentre le due figlie, Antigone e Ismene , si sobbarcano i gravi affanni del padre.
Ma poi i severi agricolae si sentirono in colpa e si diedero a lavori più duri
La rerum natura creatrix (1362) insegnò la semina e l’innesto facendo germogliare quanto cadeva in terra. Tagliarono i boschi e cominciarono le piantagioni di messi e fecondi vigneti e la fascia degli olivi sparsa come un manto sui poggi. Ora la campagna è vario distincta lepore (1376) suddivisa in varia bellezza.

L’uomo ha appreso la musica dalla natura: dagli uccelli il canto, dal sibilo del vento il flauto (De rerum natura, V, 1379 - 1382). Il flauto risuona “per loca pastorum deserta atque otia dia” (1387).
Ma il primo cantore delle fanciulle di Sparta, fiere e graziose ad un tempo, è Alcmane.
 Vediamo un frammento che ha il nome dell'autore ed è una dichiarazione di poetica o di teoria compositiva basata sull'osservazione e mimèsi del mondo naturale, e, in particolare, del canto degli uccelli(92 D.):
"queste parole e il canto Alcmane
trovò, mettendo in lingua umana
la voce delle pernici geglwssamevnan kakkabivdwn o[pa sunqevmeno~".
Lucrezio, nel finale del V libro del suo poema narra che l'incivilimento umano passa anche attraverso il canto e la musica che furono preceduti dall'imitazione del gorgheggiare degli uccelli: "at liquidas avium voces imitarier ore/ante fuit multo quam levia carmina cantu/concelebrare homines possent aurisque iuvare "(vv.1379 - 1381), ma l'imitare con la bocca le limpide voci degli uccelli avvenne molto prima che gli uomini potessero modulare con il canto poesie dolci e dilettare le orecchie.
 Questa teoria passa anche attraverso Democrito, il filosofo della teoria atomistica, contemporaneo di Socrate: "nelle arti più importanti noi siamo stati i discepoli degli animali...degli uccelli canori, del cigno e dell'usignolo nel canto, mediante l'imitazione"(fr.68 B 154 DK).

Tum ioca, tum sermo, tum dulces esse cachinni –consuerant (1396 - 7)
Allora i contadini si incoronavano di fiori e percuotevano con il piede la madre terra unde oriebantur risus dulcesque cachinni (1403)
Poiché allora tutto allora vigoreggiava più nuovo e meraviglioso. Cfr. La tempesta. Anche ora si suona e si danza e con maggiore regolarità, ma non se ne ricava una dolcezza maggiore
Cfr. la colazione sull’erba di Manet (1863)
Cfr. il carme 61 di Catullo, un epitalamio in gliconei: “Ne diu taceat procax/fescennina iocatio” (vv. 126 - 127), non rimangano a lungo in silenzio gli sfacciati scherzi fescennini.
I Fescennini erano "versibus alternis opprobria rustica "[14], insulti rustici in versi alterni . Inizialmente erano scherzi innocui, scambiati tra i contadini, antichi, forti e lieti del poco "agricolae prisci, fortes parvoque beati "(v.139). Questi, dopo il raccolto, quando scannavano un maiale, per rendersi propizia la terra, libavano il latte per Silvano e offrivano vino con fiori al Genio che ci ricorda la brevità della vita. In seguito però il gioco già crudele si cambiò in aperta rabbia" iam saevus apertam in rabiem coepit verti iocus " (vv. 148 - 149), così venne approvata una legge punitiva per impedire che alcuno fosse oltraggiato da versi infamanti.

Quam silvestre genus capiebat terrigenarum (1411)
Con le scoperte venne in odio la ghianda, e non si usarono più giacigli di erba e di foglie. Così la veste di pelle ferina per la quale pure si ammazzavano. Ora si ammazzano per la porpora e l’oro.
Quo magis in nobis, ut opinor, culpa resedit (1425)
Una colpa maggiore perché delle pelli c’era bisogno mentre non ne abbiamo della porpora e dell’oro per ripararci dal freddo.
Il genere umano in curis consumit inanibus aevum (1431)
Non conosce quale sia il possesso della misura: ha sospinto in alto mare la vita e ha scatenato dal fondo grandi onde di guerra
Et belli magnos commovit funditus aestus (1435)
Poi fu trovata la scrittura e arrivarono i poeti
L’esperienza ha insegnato a usare tutte le scoperte: navi, coltivazione dei campi, mura, leggi, armi, strade, e i vantaggi e i piaceri della vita
Praemia, delicias quoque vitae funditus omnis (1450)
La ragione spingeva gli uomini in alto artibus ad summum donec venere cacumen ( 1457), finché con le arti raggiunsero la vetta suprema.
Poi, per la rationis egestas, la caduta.
Fine V canto

La Penna. La tensione fra inquietudine e serenità e l’esasperazione dei contrasti sono le fonti principali di quella violenza espressionistica così evidente nel poeta preaugusteo: qualche cosa quella violenza deve alla tradizione enniana, molto più all’originalità di Lucrezio, uno dei maggiori lirici che siano mai esistiti” (La Penna, Da Lucrezio a Persio, Sansoni, Milano, 1995, p. 28)

Espressionismo di Ennio
Anche negli Annales di Ennio c'è un combattente che muore cercando la luce con gli occhi: "Oscitat in campis caput a cervice revulsum,/semianimesque micant oculi lucemque requirunt " (vv. 483 - 484 Skutsch) apre la bocca nei campi la testa staccata dal collo, e semivivi brillano gli occhi cercando la luce.
Del resto non solo gli occhi dell'eroe o del milite gregario, ma quelli dell'uomo che non butta via la vita "cercan morendo - il Sole[15]"; così il moribondo di Foscolo; così Osvald che alla fine degli Spettri di Ibsen invoca il sole.

“La liberazione nella verità del materialismo si fonda su una spiegazione scientifica del mondo, ma non è una giustificazione del mondo: una giustificazione del mondo si potrà trovare, a ragione o a torto, nel materialismo marxista a causa della sua origine e della sua importanza hegeliana, non nel materialismo epicureo” (ibidem, 28)


Giovanni ghiselli

p. s.
Presenterò questo percorso il 24 febbraio 2015 dalle 15 alle 17 nel liceo Leonardo da Vinci di Casalecchio (via Cavour, 6)





[1] Ovidio preferisce semivir e semimas.
[2] Del 46 a. C.
[3] Questi sono i popoli riottosi degli “Stati canaglia” dell’epoca.
[4] Vedi anche 13. 2.
[5] Poema epico di quindici libri in esametri. Narra la storia del mondo dall'origine all'età contemporanea attraverso racconti che hanno in comune il tema della metamorfosi. Fu composto fra l'1 e l'8 d. C.
[6] “L’età ferrea non siamo noi, data che questa umanità sarà poi cancellata dal diluvio (cfr. v. 188: diversamente Esiodo, Op. 175). L’effetto di romanizzazione è accompagnato dall’eco di un passo del carme 64 di Catullo (397 sgg.) sulla decadenza che segue all’età eroica e da echi più generici della tematica delle guerre civili e delle proscrizioni a Roma. I tempi narrativi accompagnano questa illusione di “presentizzazione” del mito, dato che a partire dal v. 140 una sequenza di perfetti e piuccheperfetti cede il passo a un blocco di verbi al presente; cfr. Landolfi 1996, pp. 84 e 88 sg. Nonostante tutti questi indizi concomitanti, il poeta non dice, come Esiodo, di vivere nell’età ferrea, mentre più tardi ammetterà di essere parte della razza “pietrosa”, iniziata dopo il diluvio (cfr. v. 414 sg.)”, Alessandro Barchiesi (a cura di) Ovidio Metamorfosi, volume I, p. 172. Noi siamo un genus durum experiensque laborum, una razza dura e rotta alle fatiche, in quanto nati dalle pietre lanciate da Deucalione e Pirra (Ovidio, Metamorfosi, I, 411 - 415). In questo modo i due vecchi “non sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla generazione… restaurarono la specie umana” (Leopardi, Storia del genere umano).
[7] Lucrezio afferma che gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni, e odiano e temono le mense dei consanguinei "et consanguineum mensas odere timentque " (De rerum natura , III, 73).
[8]E' un topos antitecnologico che risale a Erodoto : " ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai, ( Storie, I, 68) , il ferro fu scoperto per il male dell'uomo. Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di ferro: "sidarovfrwnfovno" " (vv. 672 - 673). Del resto, anche il ferro, come l’oro e altri metalli può avere significati diversi, persino contrastanti: “nos e terrae cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agros necessariam, nos aeris argenti, auri venas penitus abditas invenimus et ad usum aptas et ad ornatum decoras” (Cicerone, De natura deorum, 2, 151), noi estraiamo dalle cavità sotterranee il ferro, attrezzo necessario per coltivare i campi, noi troviamo vene di bronzo, d’argento, di oro nascoste in profondità appropriate per l’uso e confacenti all’abbellimento.
[9] Si può pensare a quello nero: il petrolio per il quale si è versato tanto sangue. Che il ferro e l'oro creino discordia tra gli uomini portando differenziazioni economiche e sociali lo afferma anche Platone nelle Leggi (679b).
[10] Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a curadi E. Moldenhauer e K. M. Michel, Suhrkamp. Frankfurt a.. M. (1969 - 1979) vol. 12, p. 35.
[11] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, p. 1417.
[12] D. Losurdo, Stalin, p. 310.
[13] Nel terzo libro troviamo un episodio che afferma il valore della tolleranza e lo riferisco poiché mi sembra uno dei più alti insegnamenti della storiografia antica. Contro "la tolleranza zero" tanto sbandierata oggi dai razzisti e dagli ignoranti. Il re Dario aveva domandato a dei Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati" oiJ; tou;" goneva" katesqivousi"( III, 38, 4) che mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli gridando forte lo invitavano a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che giustamente Pindaro abbia fatto, affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose ("novmon pavntwn basileva fhvsa" ei\nai"). Vedi a questo proposito il volumetto novmo~ basileuv~ a cura di Ivano Dionigi.
[14] Orazio, Epistole II, 1,145.
[15]Foscolo, Dei Sepolcri , vv. 121 - 122.