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Jacques Louis David, Eracle torna dall'Ade riportando Alcesti al marito Admeto |
Comunque
catturare quelle cavalle non sarà uno scherzo. L'eroe scambia delle battute con
il corifèo che lo ha incontrato davanti al palazzo:
Corifeo"
Non è facile mettere il morso a quelle
mascelle". (492)
Eracle"Se non spirano fuoco dalle narici"
corifeo"No, ma fanno a pezzi gli uomini
con voraci mascelle"
Eracle"Cibo di bestie selvagge, non di
cavalli è questo che dici"
Corifeo
"Potresti vedere le greppie intrise di sangue" (496).
Quindi
entra Admeto con il capo rasato a lutto (512). Eracle ne domanda la ragione, e
il re di Fere cerca di nasconderla: afferma che i figli e i genitori stanno
bene; per quanto riguarda Alcesti invece dà una risposta ambigua:
"Su di lei mi è possibile fare un doppio
discorso (diplou`~ mu`qo~) " v. 519
L’eroe
della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto
colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più
profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”
Eracle non è avvezzo a certe sottigliezze
sofistiche e vuole una risposta concreta:
"Hai parlato di una morta o di una viva? "
(520),
ma
Admeto rimane in quella ambiguità che secondo Kott è il cardine della tragedia:
"C'è e non c'è più, e mi fa soffrire"
(521).
L'eroe
dorico replica con il buon senso:
"Non ne so più di prima: infatti dici parole
oscure" ( a[shma ga; r levgei~, 522). Sono parole senza segno. Probabilmente
è scritto contro la micrologica e pur ridondante ciancia dei sofisti.
Il
vedovo continua a parlare per enigmi:
"E' morto chi sta per morire, e pur essendo
qui non c'è più" ( v. 527),
Eracle
lo confuta con quel parlare schietto del quale il re di Fere non sembra capace:
"Essere e non essere sono considerate cose
diverse" (528).
Si
può pensare al parricidio compiuto da Platone nei confronti di Parmenide
Nel Sofista
di Platone, lo straniero di Elea chiede a Teeteto di non credere che sia
diventato quasi un parricida ( Mh; me oi|on patraloivan uJpolavbh/~ givgnesqaiv tivna, 241d)
se dovrà sostenere, contro il padre Parmenide, che ciò che non è, in un certo
senso, è esso pure, e ciò che è, a sua volta in un certo senso non è.
Il
senso è che il genere dell’essere si specifica con il genere del non essere. Lo
straniero ha disobbedito a Parmenide andando molto al di là del suo divieto e
ha dimostrato non solo che il non essere è (ta; mh; o[nta wJ~ e[stin ajpedeivxamen, 258d) ma anche
quale sia la forma del non essere. Il non essere è il diverso e il contrapposto
all’essere. Parmenide dice che non è possibile che siano le cose che non sono. Invece
il diverso dall’essere, il non essere, c’è. Così l’essere a sua volta, in tanti
casi non è.
Admeto non si lascia correggere: ammette che
c'è un morto, specifica che si tratta di una donna, ma alla domanda:
"Era un'estranea o una nata nella tua stirpe? ",
risponde:
"estranea ma in altro modo legata alla casa"
(533).
Alla
domanda successiva il vedovo risponde ancora con una mezza verità per
nasconderla intera:
"Mortole il padre, era allevata qui come
orfana" (535).
Sentendo
che si tratta di un lutto domestico, Eracle propone di andarsene:
"mi metterò per via verso il focolare di altri
ospiti" (538), ma il re non lo consente, e anzi, per tagliare corto,
dà un primo segno di oblio nei confronti della morta:
" Sono morti i morti: su entra in casa"
(541).
Kott
ne inferisce che Admeto cominci a dimenticare Alcesti: "Dio ha dato, Dio
ha tolto".
Quindi
il re decide che Eracle non può andarsene, e dà ordine a un servo di
accompagnarlo nelle stanze degli ospiti:
"Non è possibile che tu vada al focolare di un
altro uomo.
Fagli da guida tu aprendogli le stanze degli
ospiti
appartate dal palazzo e dì agli addetti
che ci sia una gran quantità di cibo, e
chiudete bene
le porte che danno nella corte principale. Non
sta bene che mentre sono a banchetto/
gli ospiti sentano lamenti e si addolorino"
(545 - 550).
Questi
versi costituiscono un punto di sostegno per chi afferma che nella schenè
(fondo di legno del palcoscenico), oltre una porta centrale ce n'erano due
laterali più piccole.
Poi
il corifèo chiede ragione di tanta insistenza nell'offerta dell'ospitalità con
un morto in casa. Admeto difende la sua scelta con la ragione sicuramente
nobile della gratitudine:
"io trovo in questo un ottimo ospite
Ogni volta che giungo all’assetata (diyivan) terra di Argo"
( 559 - 560).
L’aggettivo riferito ad Argo è un epiteto
esornativo che si trova nell'Iliade (IV, 171) e nella La città morta
di D'Annunzio.
Admeto
spiega che ha tenuto nascosta la verità all'ospite perché non se ne andasse
rifiutando l'ospitalità:
"il mio tetto non sa
respingere né spregiare gli ospiti"
(566 - 567).
Il
rispetto degli ospiti fa parte del codice tripartito che sancisce i doveri
dell’uomo greco, del greco civile.
Nelle Eumenidi, le Erinni che
incalzano il matricida, lo minacciano di trascinarlo tra i grandi peccatori: quanti
si sono resi colpevoli verso un dio, o un ospite o hanno mancato di rispetto ai
genitori (vv. 269 - 271).
Nel Terzo Stasimo (568 - 605) il Coro elogia
l'ospitalità di Admeto e canta la bella natura che circonda Fere la quale fu
anche nobilitata dal soggiorno di Apollo. Le ultime parole costituiscono una
benedizione del carattere di Admeto:
"Il nobile
è portato al rispetto. To; ga; r eujgene; ~ - ejkfevretai pro; ~ aijdw`.
Nei buoni c'è fior di saggezza. Sono preso da
ammirazione:
nel mio cuore risiede la certezza
che l'uomo pio otterrà il riconoscimento
divino" (600 - 605).
Il
rispetto (aijdwv"),
il pudore che impedisce di trasgredire le leggi morali e quelle della polis,
è un valore senza il quale, diceva già Esiodo
(Opere, 200), la società umana precipita negli orrori del caos.
Chi
si occupa di letteratura greca non può non sentire la forza educativa di questi
autori, o, per dirla con Serenus Zeitblom, il professore di lettere classiche
del Doktor Faustus di T. Mann non può "far a meno
di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia
antica e un sentimento vivamente amoroso della bellezza, della dignità
razionale dell'uomo" (p. 12).
Nel
Terzo Episodio (vv. 606 - 961) assistiamo allo scontro fra Admeto e il padre
Ferete.
Kott mette in rilievo il fatto che nella
tradizione comica, dalle Vespe di Aristofane a diversi drammi di Plauto,
a Molière. quando si incontrano padre e figlio, è il padre a essere svergognato
e ridicolizzato poiché vuole proibire al figlio ciò che ha concesso a se stesso
o per gli atteggiamenti maniacali che assume;
Euripide invece rappresenta il giovane ancora
più egoista e vigliacco del vecchio: " E' dunque il figlio che viene
deriso. Questo inatteso capovolgimento sembra quasi una trovata
brechtiana" (Mangiare Dio, p. 124.)
Io la
chiamerei piuttosto una trovata euripidea.
Viene
dunque annunciato Ferete il quale" avanza
con vecchio piede" (611) per portare i doni funebri alla nuora che
sta per essere sepolta. L'anziano fa le condoglianze al figlio e l'elogio di
Alcesti che ha salvato il marito e
"ha reso più gloriosa la vita a tutte le donne
avendo
il coraggio di compiere questa nobile azione" (623 - 624).
Solo una donna di tale levatura eroica, conclude,
è degna di essere sposata:
"io dico che tali nozze convengono
ai
mortali, altrimenti non vale la pena di sposarsi" (627 - 628).
Ferete invero rappresenta una cultura
pragmatica e valuta il matrimonio con il criterio dell'utile: una moglie come
Alcesti è stata un ottimo affare.
Admeto
risponde al padre con ira e disprezzo, dando un esempio classico di narcisismo,
se il narcisista è colui che considera reali soltanto i propri bisogni. Egli
anzi rifiuta di riconoscersi figlio di chi non ha dato la vita per lui
manifestando egoismo e viltà:
"non eri davvero padre di questo corpo,
né quella che andava dicendo di avermi
partorito ed era chiamata
mia madre mi partoriva, ma nato da sangue di
schiavi
fui messo di nascosto sotto il seno di tua
moglie.
arrivato alla prova hai dimostrato chi sei
e non credo di essere figlio tuo per natura.
Tu certo brilli tra tutti per
vigliaccheria" ( diaprevpei~ ajyuciva/, vv. 636 - 642).
Anche qui Admeto dà prova di imbecillità: se
lui è nato da schiavi, l’ignobile, anche biologicamente, è lui.
Sicché
l'unica persona degna di essere considerata padre e madre è Alcesti:
"tu non hai voluto né osato morire
al posto di tuo figlio, ma lo avete lasciato
fare a questa
donna estranea, la sola che io potrei
considerare
a buon diritto madre e padre" (vv.
644 - 647).
Qui
abbiamo ancora il capovolgimento dello schema usuale: non è il padre che
ripudia il figlio ma è questo che ricusa i genitori.
Quindi
Admeto è figlio spirituale della sola Alcesti, e Ferete non ha un erede cui
potrà lasciare ricchezza di affetti e dal quale riceverà onori funebri:
"infatti io non ti seppellirò con questa mia
mano:
siccome per quanto dipese da te, sono morto"
(665 - 666).
Il
corifèo cerca di mettere pace:
"smettetela, basta già la disgrazia presente:
o figlio, non irritare l'anima del
padre!" (673 - 674).
Ma
Ferete non può fare a meno di rispondere per le rime rinfacciando al figlio
egoismo, vigliaccheria, irrazionalità:
"Io ti ho generato quale padrone della mia
casa,
e ti ho allevato, ma non ti devo il morire
per te:
infatti non ho ricevuto questa legge dagli
antenati,
che i padri muoiano per i figli, e non è uso
greco) novmon…
J Ellhnikovn
Per te stesso infatti, fortunato o
disgraziato,
sei nato e quello che dovevi ottenere da noi,
ce l'hai" (vv. 681 - 686).
Erodoto
racconta novmoi diversi da quelli
greci e commenta tale discrepanza scrivendo che ha fatto bene Pindaro a dire
che il novmo~, la consuetudine, è
regina di tutte le cose (III, 38, 4).
Nel terzo libro troviamo un episodio che afferma il valore
della tolleranza. Lo riferisco poiché mi sembra uno dei più alti insegnamenti
della storiografia antica. Il re Dario dunque aveva domandato a dei Greci se
sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che
non l'avrebbero fatto per niente al mondo. Quindi il re dei Persiani chiese
agli Indiani chiamati Callati" oi{ tou;
" goneva" katesqivousi" ( III, 38, 4) che mangiano i
genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli, gridando
forte, lo invitavano a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste
usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che Pindaro abbia fatto
affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose ("novmon pavntwn basileva fhvsa" ei\nai").
Il frammento di
Pindaro è citato nel Gorgia (484b) di
Platone da Callicle il quale invero dà alla parola novmo" il significato di legge naturale che giustifica
la violenza, come quella di Eracle che portò via i buoi di Gerione senza averli
pagati né ricevuti in dono ("ou[te
priavmeno" ou[te dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta; "
bou'"").
Gli ultimi versi servono a sganciare
l'individuo dalla stirpe e porta un'innovazione rispetto alle tragedie di
Eschilo e di Sofocle dove le colpe dei padri ricadono sui figli (
rispettivamente Sette a Tebe e Antigone).
Quindi
il vecchio fa un elogio della vita, quel bene supremo che Admeto avrebbe voluto
sottrargli:
"Tu godi nel vedere la luce: credi che il
padre non ne goda?
certo, io calcolo un lungo tempo da passare
sotto terra, mentre breve è la vita, ma dolce
lo stesso" (to; de; zh`n smikrovn ahjll j o{mw~ glukuv, 691 - 693).
In
queste parole, sebbene irate, si può trovare un'anticipazione di
quell'ottimismo che si trova nelle Supplici euripidee e pure nell'Eracle
dove Megara domanda ad Anfitrione
"hai bisogno di altro dolore o ami così la
luce? ", e il vecchio risponde:
"godo di questa e amo le speranze";
allora la moglie di Eracle replica: "anch'io" (90 - 92).
continua