NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 26 settembre 2016

Jan Kott, "Arcadia amara. 'La Tempesta' e altri saggi Shakespeariani". Parte II

14 settembre 2016, Festa dell'Unità, Bologna
(il 2° da sinistra)

Poi iniziò la decadenza: l'età argentea presentò le stagioni: non più il ver aeternum (v. 107) ma una primavera abbreviata, quindi gli inverni gelati, le aride calure estive e gli autunni incostanti. Intanto la violenza cominciò ad esercitarsi sugli animali: i buoi gemettero oberati dal giogo (v. 124). L'età del bronzo non era ancora del tutto malvagia, comunque: "saevior ingeniis et ad horrida promptior arma" (v. 126), più crudele nei caratteri e più disposta alle armi raccapriccianti, non scelerata tamen (v. 127), però non criminale.
Segue l’ultima età prima del diluvio[1]: “de duro est ultima ferro” (v. 127), l’ultima è di duro ferro.
E' l' età non più redimibile, quella del male integrale, quando omne nefas , ogni empietà, irrompe nel genere umano:"fugitque pudor verumque fidesque[2];/in quorum subiere locum fraudesque[3] dolusque/insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi[4]/…effodiuntur opes, inritamenta malorum;/ iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum[5]/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma./ Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite tutus,/non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est./Imminet exitio vir coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante diem patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede madentis,/ultima caelestum, terras Astraea[6] reliquit" (I, 129 - 131 e 140 - 150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore criminale del possesso… si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto[7] e, più funesto del ferro, l'oro[8] era venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive di rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal genero, anche l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito minaccia di rovina la moglie, questa il marito; mescolano squallide pozioni velenose le terrificanti matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo negli anni del padre. Giace sconfitta la carità e la Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le terre sporche di strage.


Altra età dell’oro in Ovidio: quella moderna
Ovidio nell'Ars amatoria[9] rovescia la concezione topica dell'età dell'oro. "La trattazione del libro dedicato alle donne", il terzo, "incomincia, dopo il lungo proemio, con una specie di inno al cultus (Ars III 101 - 128). Il passo è celebre...Senza cultus non avremmo i frutti della terra, il vino e le messi. La forma, la bellezza, è dono divino; è il cultus che dà la bellezza anche a chi non l'ha. Si obietta che le donne dei tempi antichissimi non ricorsero al cultus: è perché i mariti, duri soldati, erano rozzi, senza gusto. La rudis simplicitas caratterizzò la Roma arcaica; ma nunc aurea Roma est (v. 113), e alla splendida Roma di oggi, coi suoi superbi edifici, corrisponde meglio il cultus. Si colloca qui la più esplicita professione di modernità lanciata da Ovidio (121 sg.): Prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis "[10], le anticaglie piacciano agli altri, io mi compiaccio di essere nato solo ora: questa è l'età adatta ai miei gusti. Ovidio è il primo scrittore latino che osa negare apertamente il mito del buon tempo antico per affermare la superiorità della Roma moderna.
 E' un ribaltamento del mito dell'età dell'oro: il presunto "paese guasto" è più piacevole e gradito del "mondo casto"[11].

Nella letteratura rinascimentale c’è pure una antiutopia che deriva anch’essa dalla tradizione classica.
Odisseo ha trovato un’Arcadia inospitale e montagnosa abitata dai Ciclopi nel IX dell’Odissea.
Odisseo dovrebbe essere il patrono degli antropologi moderni: spinto dalla curiosità, vuole imparare. Omero è certo che una società priva di leggi e di vita politica non è aurea. Platone lo ribadirà nel mito di Prometeo nel Protagora.
C’è la natura pura dell’Arcadia utopica e anche quella depravata dei cannibali: Ciclopi e Lestrigoni.
Gonzalo, conclusa l’utopia, si stende sull’erba lussureggiante (lusty grass) e green. Ma poco dopo, se non intervenisse Ariel, succederebbe un fratricidio. La storia dunque distrugge il mito.
Niente sovranità auspica Gonzalo, ma in questa isola ci sono un padrone e uno schiavo e sussistono il meum e il tuum.
Caliban chiama Prospero tyrant: “I am subject to a tyrant” (III, 2)
Il brave new world si rivela quale ripetizione dei crimini e delle follie del vecchio mondo. L’Utopia si è rivelata impossibile.
Nei masque rappresentati alla corte degli Stuart, in occasione dei matrimoni aristocratici, le dee scendevano dalle nubi a benedire gli sposi, mentre i cortigiani, vestiti da pastori arcadici, celebravano l’avvento dell’età dell’oro. Ma il masque per celebrare le nozze della Tempesta viene interrotto come succede per le nozze di Enea e Didone.
Il Rinascimento vedeva nel IV libro dell’Eneide la tragedia passionale della vedova Didone
Re Lear, Macbeth e Amleto sono più crudeli della Tempesta ma questo è il più amaro dei drammi shakespeariani e la sua amarezza riflette le speranze perdute del Rinascimento. Prospero vede le lacrimae rerum.
Prospero è pius come Enea se pietas è l’accettazione del destino.
Del resto non gli manca la spietatezza di Enea.
And my ending is despair, a meno di essere soccorso da una preghiera che muova la misericordia divina e le faccia perdonare le colpe (Epilogo)
Le tre ore del purgatorio
L’ora viene ricordata diverse volte, è importante.
Il tempo della Tempesta si svolge tra la terza e la sesta ora
I tempi: Sycorax era incinta di Caliban quando giunse nell’isola. Dodici anni dopo erano sbarcati Prospero e Miranda; altri dodici anni dopo c’è la tempesta. Lo zodiaco si compone di 12 segni e per i neoplatonici il 12 era il segno dell’ordine cosmico e della salvezza.
Due volte nella Tempesta viene rappresentata la scena del regicidio: la prima come un dramma pieno di orrore, la seconda come farsa beffarda: Calibano dice all’ubriaco e al buffone di fare in fretta ad ammazzare Prospero, altrimenti se si sveglia riempirà la nostra pelle di pizzichi he’d fill our skun with pinches (IV, 1) dalla punta dei piedi alla testa from toe to crown.
Alla fine tutto torna come era 12 anni prima: Calibano re dell’isola, Prospero duca di Milano, e Ariel tornerà a congiungersi con gli elementi. La clessidra misura il tempo ed è l’immagine del tempo che si ripete e ritorna.
Nell’Eneide, a Cartagine Enea vede raffigurate le battaglie di Troia e vede se stesso principibus permixtum achivis (I, 488).
E’ stato scoperto il principio del flashback come ritorno drammatico e spettacolare del passato. E un gran gemito gli scoppiò nel cuore. Nell’Eneide l’essenza della storia è nelle città distrutte; nella tragedia scespiriana sono i regicidi.
Nell’Ade dove è sceso (sic!) Ulisse non esistono castighi se non per quelli che hanno insultato gli dèi. Le teste svigorite dei morti vagano per questa prigione frigorifero.
 L’Ade di Omero è solo l’ombra del mondo (cfr. Platone il “non greco”).
 Nell’Ade virgiliano appaiono invece i giardini del paradiso, l’inferno dei tormenti e il purgatorio (cfr. Platone, Fedone)
Nell’Eneide, Anchise mostra i futuri eroi di Roma da Silvio, figlio di Enea, ad Augusto.
Nel Macbeth le tre sorelle profetiche fanno sfilare davanti a Macbeth otto futuri re (V, 1)
Il fatum che spinge Enea a lasciare Didone è inexorabile (Georgica II, 491) e ineluctabile (Eneide, VII, 434)
Nella Tempesta c’è il crudele fatum elisabettiano: Antonio, l’usurpatore, convince Sebastiano a ripetere la storia dei sovrani assassinati e dice che quello che è avvenuto, proviene by destiny, dal destino che li invita a recitare un dramma di cui il passato è il prologo e il futuro è a discrezione vostra e mia.
Ma nella Tempesta c’è pure un altro fatum: Miranda chiede: come approdammo a riva? E Prospero risponde: by Providence divine (I, 2)
Questa provvidenza è il matrimonio dinastico che riconcilierà tutti
Ferdinando dice di Miranda: “she is mortal, but by immortal Providence she is mine” (V, 1)
Si presentano a Miranda tre canaglie: Antonio, Alonso e Sebastiano. Ed ella dice: “O wonder!, How many goodly creatures are there here!
How beatous mankind is! O brave new world, that has such people in ‘t
E Prospero: “’Tis new to thee (V, 1)
Prospero seppellisce il suo libro di magia in fondo al mare più a fondo di quanto mai scandaglio sia giunto (deeper than did ever a plummet sound V, 1)
Le stesse parole aveva usato Alonso per dire che il corpo di Ferdinando era deeper than a plummet sound in III, 3.
Qui tutto si ripete ma niente si purifica.


continua



[1] “L’età ferrea non siamo noi, data che questa umanità sarà poi cancellata dal diluvio (cfr. v. 188: diversamente Esiodo, Op. 175). L’effetto di romanizzazione è accompagnato dall’eco di un passo del carme 64 di Catullo (397 sgg.) sulla decadenza che segue all’età eroica e da echi più generici della tematica delle guerre civili e delle proscrizioni a Roma. I tempi narrativi accompagnano questa illusione di “presentizzazione” del mito, dato che a partire dal v. 140 una sequenza di perfetti e piuccheperfetti cede il passo a un blocco di verbi al presente; cfr. Landolfi 1996, pp. 84 e 88 sg. Nonostante tutti questi indizi concomitanti, il poeta non dice, come Esiodo, di vivere nell’età ferrea, mentre più tardi ammetterà di essere parte della razza “pietrosa”, iniziata dopo il diluvio (cfr. v. 414 sg.)”, Alessandro Barchiesi (a cura di) Ovidio Metamorfosi, volume I, p. 172.
[2] E’ l’ultima virtù che lascia la terra, ed è un valore di base della civiltà latina. Cicerone nel De officiis (del 44 a. C.) dà una definizione della fides " Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas " (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti.
[3] E’ il primo vizio che subentra ed è l’antitesi della fides. Nel mondo rovesciato dei servi plautini al posto del valore forte della fides, fondamento della giustizia, troviamo quello della perfidia:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dicono due di loro.
[4] “Allude alla versione del mito in Virgilio, Aen. VIII 327 amor succesit habendi” (Alessandro Barchiesi, a cura di, Ovidio Metamorfosi, volume I, p. 173.
[5] “L’enfatica menzione dell’oro nell’aetas ferrea, opposta alla perduta aetas aurea, crea volutamente un certo disagio tra le forme tradizionali (vedi l’insistenza di Esiodo sul bronzo come unica e universale materia usata dagli uomini dell’età bronzea, Op. 144 - 151). Ovidio modernizza il mito delle età inserendo l’oro come motore della degenerazione morale: l’età del ferro, oltre che sulla guerra, ha un’economia basata sull’oro e sullo scambio. Nella società romana, il nesso fra guerra e ricchezza è particolarmente esplicito, per la sistematica pratica del saccheggio e per il rapporto fra economia monetaria e servizio militare: la moneta statale è, in primo luogo, paga del soldato” ” (Alessandro Barchiesi, a cura di, Ovidio Metamorfosi, volume I, p. 174.
[6] “Accenno al mito di Dike, la vergine Astrea, che salendo in cielo va a formare la costellazione della Vergine. La fonte principale è Arato, 96 sgg: la dea della Giustizia nell’età del bronzo prima si ritira sulle colline e poi, ultima divinità a lasciare la terra, si rifugia in cielo; ved. anche la versione di Cicerone, Aratea, frr. 17 - 9 Soubiran…. Virgilio, Geor. II 473 - 474. In Esiodo, Op. 197 sgg., nell’età ferrea la terra era abbandonata da Aijdwv~ e Nevmesi~ (Rispetto e Punizione), che scelievano di vivere presso gli dèi” (Alessandro Barchiesi, a cura di, Ovidio Metamorfosi, volume I, p. 175.
[7]Ho già citato l’episodio delle Storie di Erodoto, I, 68) che si conclude con la condanna della scoperta del ferro. Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di ferro:"sidarovfrwnfovno" " (vv. 672 - 673).
[8] Di nuovo un oro nero; noi anzi possiamo pensare addirittura al petrolio per il quale si è versato tanto sangue. Che il ferro e l'oro creino discordia tra gli uomini portando differenziazioni economiche e sociali lo afferma anche Platone nelle Leggi (679b).
[9] Il III libro risale allo stesso periodo (verso l'1 d. C.) dei Medicamina faciei cui Ovidio accenna ai vv. 205 e sgg.
[10]A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p. 188.
[11]Cfr. Dante, Inferno, XIV, 94 e 96. 

sabato 24 settembre 2016

Twitter, CCXL antologia. Renzi-Enea, la pietas, la Raggi, il bestiame e le sue greppie olimpioniche

Roma, 1960

Renzi ricorda la pietas di Enea verso il padre e dimentica la spietatezza  verso Didone. Renzi assomiglia al figlio di Anchise: suo padre padrone è il capitale del quale costituisce la soma, mentre la sua Didone da indurre al suicidio sono i  proletari

La reputazione di pietas dello spietato Enea è stata criticata e derisa già da Ovidio che tra gli amanti infedeli menziona il profugo troiano il quale causò la morte di Didone; e tuttavia egli “famam pietatis habet “ (Ars  III 39).
Il poeta pelino ingaggia una giocosa polemica con Virgilio che aveva glorificato il suo pio eroe. Nel proemio dell'Eneide in effetti il Mantovano domanda con meraviglia: "Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,/quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?" (vv, 8-11), o Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a passare per tante peripezie, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?
 Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi ire divine:  dopo avere affermato che gli uomini ingannano spesso, più spesso delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il Sulmonese  aggiunge Enea al duetto dei seduttori  perfidi,  il fallax Iaso  (Ars, III, 33) e Teseo: "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa. 
In A midsummer-night’s dream di Shakespeare,  Hermia ricorda la fellonia di Enea “when the false Troyan under sail was seen” (I, 1). Tuttavia per Renzi Enea è un modello

Questa volta la Raggi mi è piaciuta non solo come donna bella e fine, ma anche come politica. Approvo il suo NO alla cementificazione di Roma

"Non volevo farlo" si giustificano gli assassini e i cretini. Secondo me è un aggravante: se non volevi, puoi rifarlo, senza volere, in qualsiasi momento. 
Nell’Ippia minore, Socrate chiede al sofista: “Chi è più bravo, un corridore che corre lentamente per scelta, oppure uno che lo fa perché non può fare altro?
E Ippia deve riconoscere che è più bravo chi è lento perché vuole esserlo (oJ ejkwvn, 373d), però se vuole può correre velocemente

Galletti parla a favore del sì. Questo serve alla vittoria del No. I funzionari di Renzi sono quasi tutti funzionali alla sua caduta.

Attraverso le quotidiane tragedie familiari traluce la tragedia greca
Sono riprese le trasmissioni televisive occupate dai sonagli petulanti dei politici e dalle nacchere stridule,  servili dei presentatori
ll bestiame dei politici voraci e dei giornalisti loro servi ha perso, con l'Olimpiade negata, un'occasione per riempire greppie e ventri.
 A detta di Platone, sono uomini fronhvsewς kai; ajreth`ς a[peiroi (Repubblica, 586), inesperti di saggezza e virtù. Costoro non hanno mai guardato in alto, né si sono mai riempiti di ciò che essenzialmente è, non hanno mai gustato un piacere saldo e puro ajlla;  boskhmavtwn divkhn kavtw ajei; blevponteς kai; kekufovteς eijς gh̃n kai; eijς trapevzaς bovskontai cortazovmenoi  kai; ojceuvonteς, kai; e[neka th̃ς touvtwn pleonexivaς laktivzonteς kai; kurivttonteς ajllhvlouς sidhroĩς kevrasiv te kai; oJplaĩς ajpokteinuvasi di’ ajplhsivan” (586b), ma come bestiame al pascolo guardando sempre in giù e piegati verso terra e sulle mense pascolano riempiendosi e accoppiandosi, e per l’avidità di queste cose, scalciando e cozzando, con corna e zoccoli di ferro si ammazzano a vicenda per insaziabilità


giovanni ghiselli
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1) Tanto perfido questo che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini (Ars, III, 35-36). La Fedra di Seneca entrando in scena, afferma che la fedeltà di Teseo è quella di sempre: “stupra et illicitos toros/Acheronte in imo quaerit Hippolyti pater” ( Fedra, vv. 97-98), cerca adulterii e letti illegittimi il padre di Ippolito in fondo all’Acheronte. Interessante è la versione dell’Odissea (11, 324-325) : Artemide uccise Arianna in Dia in seguito alle accuse di Dioniso abbandonato per Teseo che comunque rimane il seduttore principe. 
2) Spada lasciata da Enea ( Eneide, IV, 507) e impiegata quale dono funesto (non hos quaesitum munus in usus., Eneide,  IV, 647,  dono richiesto non per questo uso.  
3)  Participio perfetto di kuvptw.

giovedì 22 settembre 2016

Jan Kott, "Arcadia amara. 'La Tempesta' e altri saggi Shakespeariani". Parte I


Seconda parte del percorso preparato per una relazione tenuta alla Festa dell’Unità di Bologna
il 14 settembre 2016, ore 20,30 Libreria della Festa

“Shakespeare - Eduardo. Le tempeste teatrali”
“La tempesta” tradotta da Eduardo De Filippo
Interventi di Gianni Ghiselli, Giuseppe Spano,
Carlo Cammuso, presiede Federico Diamanti


Jan Kott
Arcadia amara “La Tempesta” e altri saggi Shakespeariani


La tempesta o la ripetizione, p. 57

Esploratori e colonizzatori vissero l’esperienza come una ripetizione dei viaggi di Ulisse e di Enea, o di Giasone delle Argonautiche.
Il Nuovo Mondo è nuovo ma anche una ripetizione trasfigurata di quello antico. Una trasformazione purificata o corrotta,
I miti antichi erano localizzati per lo più nel Mediterraneo; nella geografia mitica del Rinascimento l’oceano Atlantico diventa il nuovo Mediterraneo.

L’isola di Prospero si trova sulla rotta dei viaggi di Enea, tra Cartagine - Tunisi e Cuma - Napoli, ma è anche intorno alle Bermuda.
Come nel’Eneide ha fatto Eolo per volontà di Giunone, Ariele ha disperso la flotta di Alonso per ordine di Prospero.
Ferdinand emerge dal mare come l’Odisseo nudo di Omero e Miranda come fa Nausicaa lo guarda quasi fosse un dio: I might call him/ a thing divine (I, 2)
La musica di Ariel attira Ferdinand come il canto delle Sirene (I, 2
I poteri magici di Prospero ricordano quelli di Medea nelle Metamorfosi di Ovidio, Sycorax risente di Circe.
Caliban deve il suo nome al saggio di Montaigne Des cannibales (1570 peraltro vi troviamo il relativismo culturale di Erodoto)
Calibano è lo schiavo deforme e selvaggio (a savage and deformed slave), spropositato dispropotion’d nello stile e nell’aspetto (V, 1)

Il mostro è spesso ibrido: Calibano è una cosa di tenebra (this thing of darkness V, 1) e del diavolo che l’ha generato con una strega depravata. "Nella mitologia greca la figura ibrida è, in generale, un contrassegno di appartenenza a un mondo primitivo"[1].
Nell’Eneide l’ibrido è il Minotauro Minotaurus inest, Veneris mo -
numenta nefandae (VI, 26)
Di là, elevata sul mare, corrisponde la terra di Cnosso:
qui l’inumano amore del toro e postasi sotto furtivamente
Pasife e la razza mista e la prole bimembre
il Minotauro c'è, ricordo di una Venere infame (VI, 23 - 26)
E’ un’ejkfrasiς: descrizione delle scene scolpite sulle porte del tempio di Cuma.
Calibano è pesante e si muove come una tartaruga (I, 2); Ariel è leggero e fluttua nell’aria. Calibano è tellurico: “tu, terra!”, gli fa Prospero.
L’arte di Prospero si impone sul selvaggio che dice: “I must obey: his Art is of such power” (I, 2). Ma Prospero si è imposto con la forza poiché Caliban non è educabile: “on whose nature, Nurture can never stick. (IV, 1), dice Prospero che ha provato a umanizzare Caliban ma invano.
 You taught me the language (I, 2) dice Caliban, ma poi lo maledice poiché ha imparato a maledire appunto.
Trinculo, il buffone, quando vede Caliban pensa di presentarlo nelle fiere.
Gli inglesi non darebbero un soldo per aiutare a lame beggar, ma pagheranno per vedere un indiano morto.
Caliban è half a fish and half a monster (III, 2)
Perfino la dolce Miranda lo tratta come thing most brutish (I, 2)

Sh trasforma l’isola in una colonia del nuovo mondo. Cronisti del Cinquecento descrivevano i selvaggi come creature subumane
Gonzalo vorrebbe far rivivere l’età dell’oro nell’isola se fosse una sua colonia (plantation, un neologismo che risale a mezzo secolo prima della Tempesta). All’esperienza storica subentra il mito virgiliano - ovidiano.
Prospero ricrea il paradiso terrestre nel suo masque per gli sposi novelli.
Le utopie rinascimentali invero avevano un luogo: nelle isole del nuovo mondo.
Nel 1506 Tommaso Moro colloca la sua utopia su un’isola vicina all’arcipelago delle Indie occidentali scoperto da Vespucci.
Gli abitanti delle utopie rinascimentali non conoscono proprietà, né legge (magistrate), né ricorrono alla violenza, né al commercio traffic), riches, poverty, service, servitù, contract, succession, confini, vincoli, non metalli, grano, olio, vino, lavoro, all men idle, tutti gli uomini in ozio, and women too, ma innocenti e pure, nessuna sovranità (II, 1)
 L’età dell’oro è fatta di negazioni degli usi delle civiltà corrotte, Gonzalo riprende il brano delle Metamorfosi di Ovidio sull’età dell’oro: niente giudici, guerre, lavoro: la terra produceva tutto da sola.


Le Metamorfosi[2] di Ovidio
Tradizionale è la visione dell'età dell'oro nelle Metamorfosi: "Aurea prima sata est aetas quae vindice nullo/sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat " (I, 89 - 90), per prima fiorì l'età aurea che, senza alcuna repressione, spontaneamente, senza legge, onorava la lealtà e la giustizia.
 Ovidio afferma che durante l'età dell'oro non c'erano le navi che solcavano i mari:"nullaque mortales praeter sua litora norant"
(Metamorfosi, I, v. 96), i mortali non conoscevano altri lidi che i propri.
Cfr. il secondo e il terzo coro della Medea di Seneca
In questo primo libro del poema troviamo un collegamento esplicito tra la decadenza della storia umana, l'avidità di ricchezze, e la guerra. Durante
 l'aurea età :"nondum praecipites cingebant oppida fossae,/non tuba directi, non aeris cornua flexi,/non galeae, non ensis erant: sine militis usu/mollia securae peragebant otia gentes " (I, 97 - 100), non ancora fosse a precipizio cingevano i castelli, non c'era tromba di bronzo diritto, non corni di metallo piegato, non elmi, non spade, e, senza la pratica militare, le genti prive di affanni passavano la vita in dolce pace.



continua



[1]K. Kerényi, Miti e misteri, p. 45.
[2] Poema epico di quindici libri in esametri. Narra la storia del mondo dall'origine all'età contemporanea attraverso racconti che hanno in comune il tema della metamorfosi. Fu composto fra l'1 e l'8 d. C.

lunedì 19 settembre 2016

Shakespeare e la letteratura antica. VIII parte

Antoni Stanislaw Brodowski,
Oedipus and Antigone

In effetti Dafni, l'innamorato del romanzo di Longo Sofista nota che gli occhi di Cloe erano "megavloi kaqavper boov""[1], grandi come quelli di una giovenca.
Il nesso tra lo sguardo e la brama amorosa viene evidenziato da Teocrito[2] quando, nell'Epitalamio di Elena, fa lodare la bellezza della sposa di Menelao da un coro di fanciulle spartane le quali mettono in rilievo che il desiderio è suscitato soprattutto dagli occhi di lei: "wJ" JElevna, ta'" pavnte" ejp j o[mmasin i{meroi ejntiv", come Elena nei cui occhi risiedono tutte le seduzioni (XVIII, 37).
Anche la nostra Medea aveva occhi particolari, come abbiamo visto nella tragedia di Euripide e come si legge nelle Argonautiche. Apollonio Rodio, raccontando l’incontro della fanciulla di Colchide e sua zia Circe, nota che la stirpe del sole si riconosceva bene dal bagliore, che arrivava lontano, degli occhi, i quali mandavano un fulgore simile a quello dell’oro (4, 727-729). Nonostante questa somiglianza, la zia, dopo avere ascoltato la nipote che del resto non le ha detto tutta la verità, la caccia dicendole: “io non approvo le tue decisioni e la sconcia fuga-ajeikeva fuvxin” (4, 747-748).
Quale attrattiva di Cinzia ha catturato Properzio[3] per sempre se non gli occhi? La prima elegia dei quattro libri del "romano Callimaco" si apre nel nome e con gli occhi di Cinzia: "Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis " (I, 1, 1), Cinzia per prima ha preso me infelice con i suoi occhi; una cattura non solo dolorosa ma anche definitiva: "Mi neque amare aliam neque ab hac desistere fas est: / Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit " (I, 12, 19-20), io non posso amare un'altra né staccarmi da lei: Cinzia è stata la prima, Cinzia sarà l'ultima.
Dagli occhi parte la ricerca amorosa secondo Ovidio[4], poeta tutt'altro che incline a suggerire la fedeltà eterna.
Il Sulmonese che consiglia di usare l'argomento "tu mihi sola places" come mezzo di seduzione, fa scattare l'operazione erotica dallo sguardo scrutante dell'uomo il quale deve individuare, e mettere nel mirino, la preda adatta, ossia non impossibile:"elige cui dicas " tu mihi sola places". / Haec tibi non tenues veniet delapsa per auras; / quaerenda est oculis apta puella tuis" (Ars amatoria [5], vv. 42-44), scegli una cui dire: "tu sola a me piaci". Questa non ti verrà incontro scendendo per i soffi leggeri dell'aria; con i tuoi occhi devi cercare la ragazza adatta.
Nell'esordio poetico degli Amores [6], e con il tono del lusus ironico di derivazione callimachea, lontano comunque dal pathos di Catullo e di Properzio, Ovidio aveva scritto:"Non mihi mille placent, non sum desultor amoris" ( I, 3, 15) a me non ne piacciono mille, non sono un saltimbaco dell'amore.
L'ironia porta al lettore l'eco rovesciata di questa affermazione.
Nella Vita Nuova di Dante[7] si ritrovano gli occhi della donna mirabile che ingentilisce l'oggetto dei suoi sguardi: "Ne li occhi porta la mia donna Amore, / per che si fa gentil ciò ch'ella mira/ (cap. XXI, sonetto Ne li occhi porta, vv. 1-2).
" dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto secondo la nobilissima parte de li suoi occhi", commenta l'autore stesso.
 La potenza dello sguardo di lei del resto può anche avere effetti paralizzanti, non senza vaghe reminescenze catulliane: "ov'ella passa, ogn'om ver lei si gira,/e cui saluta fa tremar lo core,/sì che, bassando il viso, tutto smore,/…" (Ne li occhi porta, vv. 3-5. Gli echi catulliani sono più evidenti nel sonetto Tanto gentile del XXVI capitolo:" Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand'ella altrui saluta, / ch'ogne lingua deven tremando muta, / e li occhi no l'ardiscon di guardare… Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi una dolcezza al core" (vv. 1-4, 9-10).
Sant' Agostino nel Secretum ricorda a Francesco Petrarca[8] la pericolosità dello sguardo femminile: se contemplare un bel corpo infiamma la lussuria, un leggero volger d'occhi risveglia l'amore che si era assopito: "spectata corporis species, luxuriam incendit; levis oculorum flexus, amorem dormitantem excitat " (III, 50).

 Il tovpo" dell'amore ispirato solo o soprattutto dagli occhi si trova anche in Pene d'amore perdute di Shakespeare[9] : Biron in preda a un amore "pazzo come Aiace" cerca di resistergli per non finire ammazzato al pari di una pecora, ma nella donna che lo ha stregato, Rosalina, c'è qualche cosa di irresistibile: "Oh, ma il suo occhio... per la luce del giorno, se non fosse per il suo occhio io non l'amerei; sì, per i suoi due occhi!... Dagli occhi delle donne io traggo questa dottrina: essi scintillano senza posa di un vero fuoco prometeico (From women’s eyes this doctrine I derive: they sparkle still the right Promethean fire), e rappresentano i libri, le arti, le accademie che mostrano, contengono e alimentano il mondo intiero; senza di loro nessuno può eccellere in cosa alcuna" (IV, 3).

Di nuovo Leopardi situa la significazione massima e la parte più importante della bellezza negli occhi: “Quanto sia vero che la bellezza delle fisionomie dipende dalla loro significazione, osservate. L’occhio è la parte più espressiva del volto e della persona; l’animo si dipinge sempre nell’occhio; una persona d’animo grande ec. ec. non può mai avere occhi insignificanti…Ora l’occhio ch’è la parte più significativa della forma umana, è anche la parte principale della bellezza” ( Zibaldone, 1576-1577).

Sicché l'amore viene attivato e tenuto vivo soprattutto dagli occhi.
Proseguo con una una lettera di Guy de Maupassant (1850-1893): "Vorrei, soprattutto, rivedere i vostri occhi, i vostri due occhi. Perché il nostro primo pensiero è sempre per gli occhi della donna che amiamo? Come ci ossessionano, come ci rendono felici, o infelici, questi piccoli enigmi chiari, impenetrabili e profondi, queste piccole macchie blu, nere o verdi, che senza cambiare forma né colore, esprimono, volta a volta, l'amore, l'indifferenza e l'odio, la dolcezza che placa ed il terrore che agghiaccia più di tante parole in eccesso e meglio dei gesti più espressivi"[10].
Gli occhi delle donne che ci attirano non sono soltanto delle cose, pur molto belle insomma non sono soltanto materia secondo Proust: "Se pensassimo che gli occhi di una ragazza come quella non sono che una brillante rotella di mica, non saremmo così avidi di conoscere e di unire a noi la sua vita. Ma sentiamo che quel che riluce in quel disco pieno di riflessi non è dovuto unicamente alla sua composizione materiale; che sono, ignote a noi, le nere ombre delle idee che quell'essere si fa a proposito delle persone e dei luoghi che conosce… Le ombre, anche, della casa in cui rientrerà, i progetti ch'essa fa o altri han fatti per lei; e soprattutto che è lei, con i suoi desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante volontà"[11].
Anche Svevo ha capito che l'attrazione più forte esercitata dalla donna deriva dal fulgore dei suoi occhi: "Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto…Non so se a questo mondo vi siano dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per sbalordirle"[12].
T. Mann spiega, a ragione, che l'amore è suscitato e mantenuto soprattutto dall'attrazione del volto, e in questo degli occhi, siccome significativi del carattere della persona: "C' era stato uno spazio non più lungo di due palmi fra il suo viso e quello di lei, quel viso dalla forma strana eppure nota da tanto tempo, una forma che gli piaceva come null'altro al mondo, una forma esotica e piena di carattere...ciò che lo aveva colpito ancora maggiormente erano stati gli occhi, quegli occhi sottili, quegli occhi da Kirghiso dal taglio schiettamente affascinante, occhi d'un grigio azzurro o d'un azzurro grigio come i monti lontani, che, a volte, con un curioso sguardo di traverso non destinato certo a vedere, potevano oscurarsi, fondersi in una tinta velata notturna"[13]. Molto più avanti[14] si legge: " Quando il desiderio carnale...s'è fermato sopra una persona con un determinato viso, allora si parla d'amore.Io non desidero soltanto il suo corpo, la sua carne; anzi dico che se nel suo viso qualche cosa anche piccola fosse diversamente conformata, probabilmente non desidererei più neppure il suo corpo... Questo dimostra che amo l'anima sua e l'amo con l'anima. Poiché l'amore per il viso è amore spirituale".
“Gli uomini di sentimento sono pieni di espressione, perché l’espressione nasce dal bisogno del sentimento di farsi valere, un bisogno che si mostra senza inibizioni, apertamente…Rachele era bella e graziosa. Lo era in una maniera nello stesso tempo mansueta e birichina, che veniva dall’anima, ma si vedeva-e anche Giacobbe lo vedeva perché lei lo guardava-che spirito e volontà trasformati in senno e coraggio muliebri, erano le segrete sorgenti che alimentavano quella grazia; tanto espressiva era la sua persona, tanto aperta e pronta alla vita nella fermezza dello sguardo…la cosa più bella e graziosa era il suo modo di guardare, era lo sguardo dei suoi occhi neri, dal taglio lievemente obliquo, uno sguardo che la miopia stranamente trasfigurava e addolciva, in cui, lo diciamo senza esagerazione, la natura aveva raccolto tutte le attrattive che essa può dare a uno sguardo umano: una notte profonda, liquida, mite, dolcissima, una notte eloquente, piena di serietà e di ironia, uno sguardo che Giacobbe non aveva o credeva di non avere ancora mai visto…Era giunto alla meta, e la fanciulla con gli occhi pieni di dolce oscurità che pronunciava il nome di suo padre lontano era la figlia del fratello[15] di sua madre[16]… Quanto a Lia, non appariva meno ben formata di Rachele, era anzi più alta e imponente, ma offriva un esempio caratteristico di quel singolare deprezzamento che una figura perfetta subisce quando si accompagna a un volto brutto. Aveva bensì abbondantissimi capelli color cenere… Ma i suoi occhi di un verde-grigio convergevano malinconicamente strabici in direzione del naso lungo e rosso, e arossate erano anche le palpebre colpite da infezione, arrossate le mani che cercava di nascondere, come pure lo sguardo strabico su cui abbassava continuamente le ciglia con una specie di dignità pudica. ‘Ecco qua’, pensò Giacobbe osservando le due sorelle, ‘la luna scema e la luna piena!’”[17].

Gli occhi sono comunque legati all'amore e al sesso
Gli occhi che Edipo si colpisce da solo sono, secondo Freud, il simbolo dei genitali:"l'accecamento con cui Edipo si punisce dopo aver scoperto il proprio crimine è, a quel che testimoniano i sogni, un sostituto simbolico dell'evirazione"[18]. Già in Totem e tabù si legge[19]: “La castrazione, e il suo surrogato per mezzo dell’accecamento, sono le minacce che provengono dal padre” (p. 186).
"Si deve tenere presente che, nella mitologia classica, gli occhi presentano spesso un legame con l'amore e con la sessualità, e in particolare con i genitali maschili: numerose sono le rappresentazioni vascolari di falli con occhi. Forse il gesto dell'autoaccecamento di Edipo racchiude anche un significato di simbolica castrazione, di autopunizione per i delitti sessuali commessi. Infliggendo una punizione ai suoi occhi, Edipo punisce la parte del suo corpo che si è macchiata di colpa nei confronti della madre"[20].


FINE I PARTE

Giovanni ghiselli



[1] Le avventure pastorali di Dafni e Cloe, I, 17. Romanzo ellenistico, composto tra il II e il III secolo d. C.
[2] Teocrito siracusano (310 ca-250 ca a. C.) visse tra Siracusa, Coo e Alessandria alla corte di Tolomeo II filadelfo. Abbiamo un corpus di 30 idilli e 24 epigrammi.
[3] Nato ad Assisi nel 49 a. C. circa, morto a Roma intorno al 15a. C., ha scritto quattro libri di elegie. Il primo fu pubblicato nel 28, il secondo e il terzo nel 22, il quarto nel 16 a. C. I primi tre cantano l'amore per Cinzia, il IV, quello delle elegie romane, racconta per lo più miti, riti della tradizione, episodi della storia di Roma e italica.
[4] Nato a Sulmona nel 43 a. C., morto a Tomi, sul mar Nero nel 17/18 d. C. Indicheremo le date delle sue opere a mano a mano che le menzioneremo.
[5] Tre libri, in distici elegiaci, di insegnamenti sull'amore: i primi due usciti tra l'1 a. C. e l'1 d. C.; il terzo poco dopo. Ci torneremo diverse volte durante il percorso.
[6] Raccolta di elegie in tre libri. La prima edizione è di poco posteriore al 20 a. C.; la seconda, rielaborata, uscì quasi venti anni dopo, intorno all' 1 a. C.
[7] Firenze 1265-Ravenna 1321.
[8] Arezzo 1304-Arquà 1374.
[9] Stratford on Avon 1564-Warwickshire 1616. Love's labour's lost è del 1594-1505.
[10] Le plus belles lettres d'amour, tratto da Lunario dei giorni d'amore, p. 502.
[11] M. Proust (1871-1922), All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 397.
[12]Italo Svevo (1861-1928), La coscienza di Zeno, p. 317 e p. 319.
[13] T. Manno (1875-1955), La montagna incantata. vol., I, p. 163.
[14]P. 304 del II vol.
[15] Labano ndr
[16] Rebecca ndr
[17] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, La storia di Giacobbe, pp. 265 ss.
[18] Compendio di psicoanalisi, in Freud Opere 1930-1938, volume 11, p. 617, n. 1.
[19] Del 1913.
[20] D. Puliga e Silvia Panichi, In Grecia, p. 199.

giovedì 15 settembre 2016

Shakespeare e la letteratura antica. VII parte


Il sole vede tutto. Shakespeare, Omero, Eschilo, Sofocle, Ennio, Apuleio, Ovidio

L'onniveggenza del sole è riconosciuta da Shakespeare:"the all-seeing sun ne'er saw her match, since first the world begun ", il sole che tutto vede non ha mai visto una sua pari da quando il mondo è cominciato, giura Romeo[1].
L'elogio del sole, il dio che vede, ode tutto, e nutre la vita, percorre parte della letteratura greca e prosegue in quella europea. Voglio indicarne alcune espressioni. Già Omero, nell' Iliade, gli attribuisce la facoltà di vedere e ascoltare tutto: " jHevliov" q j, o{" pant j ejfora'/" kai; pavnt j ejpakouvei""[2] (III, 277); una formula che torna un poco variata in Odissea (XI, 109) :" jHelivou, o{" pavnt jejfora'/ kai; pavnt j ejpakouvei"[3].
Nell'Inno "omerico" a Demetra, quando Persefone venne rapita da Ade, solo Ecate ed Elio signore, splendido figlio di Iperione (" jHevliov" te a[nax JUperivono" ajglao;" uiJov"" v.26), udirono la fanciulla che invocava il padre Cronide.

Nel Prometeo incatenato di Eschilo il titano invoca, tra gli altri, "to;n panovpthn kuvklon hJlivou"(v. 91), il disco del sole che tutto vede.
Nelle Supplici di Eschilo il coro delle Danaidi chiede aiuto ai raggi del sole che danno salvezza (kalou'men aujga;" hJlivou swthrivou", v. 213).

Nella Parodo dell’Antigone di Sofocle, il coro dei Tebani esprime gratitudine alla luce del Sole per la vittoria sugli Argivi:" raggio di sole, la luce/più bella apparsa su Tebe dalle sette porte/tra quelle di prima" (vv. 100-102) e più avanti la protagonista condannata a morte lo saluta e rimpiange quale "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce.
Nell' Edipo re il sole è" pavntwn qew'n provmo"" (660), il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
Nell' Edipo a Colono è, con una ripresa dell'idea omerica,"oJ pavnta leuvsswn {Hlio"" (v. 869), Elio che vede tutto.
Nella Parodo delle Trachinie il Coro di donne di Trachis prega Elio, perché annunzi dove si trova Eracle, invocandolo come "kratisteuvwn kat j o[mma" (v. 102), tu che superi tutti con il tuo sguardo, come interpreta lo scoliaste:"w\ nikw'n pavnta" tou;" qeou;" kata; to; ojptikovn", tu che vinci tutti gli dèi nel potere visivo.

Sul sole onniveggente torna Ennio nella Medea (fr. 148, v. 1):"Iuppiter tuque adeo summe Sol qui omnis res inspicis ", Giove e tu in particolare, sommo sole che vedi tutto) poi, all'inizio dell'Asino d'oro, Apuleio quando Aristomene giura che sta per raccontare la verità (I, 5):"sed tibi prius deierabo solem istum omnividentem deum ".
Nelle Metamorfosi di Ovidio, il sole identificato con Febo, vide per primo l’adulterio di Venere con Marte[4]. Infatti videt hic deus omnia primus (IV, 172). Ne ebbe dolore e denunciò la tresca a Vulcano che incatenò i due amanti i quali si trovarono a giacere ligati- turpiter (186-187) oscenamente legati. Allora Venere volle vendicarsi e dice: “Nempe, tuis omnes qui terras ignibus uris/ureris igne novo, quique omnia cernere debes,/Leucothoën spectas et virgine figis in una,/quos mundo debes, oculos” (194-197), certo, tu che con i tuoi fuochi bruci tutte le terre, sei infiammato da insolito fuoco, e tu che devi vedere ogni cosa, Leucotoe[5] contempli e fissi solo su quella ragazza gli occhi che devi puntare sul mondo.
Quindi il Sole va a corteggiare la ragazza con queste parole: "ille ego sum-dixit-qui longum metior annum,/omnia qui video, per quam videt omnia tellus,/mundi oculus: mihi, crede, places !" (IV, 226-228), io sono quello, disse, che misuro il lungo anno, che vedo tutto, per cui vede tutto la terra, sono l'occhio dell'universo: abbi fiducia, mi piaci!". La fanciulla, vinta dallo splendore del dio si arrese senza lamentarsi


Le mani dell’assassino. Shakespeare, Seneca, Manzoni

Lady Macbeth in un primo momento afferma che poca acqua basterà a pulire le mani lordate dal misfatto: "A little water clears us of this deed " (Macbeth, II, 2) leggiamo nella tragedia di Shakespeare[6].
Più avanti la stessa donna che, aizzando il marito al tradimento e al delitto, era sembrata tanto salda, resa malata dal crimine sospira:"All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand ", tutti i balsami d'Arabia non basteranno a profumare questa piccola mano (V,1).
Il protagonista eponimo, dopo che ha assassinato il re, fa:" Will all great Neptune's Ocean wash this blood clean from my hand?, tutto l'oceano del grande Nettuno potrà lavar via questo sangue dalla mia mano? No, piuttosto questa mia mano tingerà del colore della carne le innumeri acque del mare facendo del verde un unico rosso (II, 2).

Nell'ultima scena dell'Hercules furens l'eroe che impazzito ha ucciso i suoi cari teme che le sue mani sporche di sangue non potranno purificarsi mai:"Quis Tanais, aut quis Nilus, aut quis Persica/violentus unda Tigris, aut Rhenus ferox,/Tagusve ibera turbidus gaza fluens,/abluere dextram poterit? Arctoum licet/Maeotis in me gelida transfundat mare,/et tota Thetys per meas currat manus:/haerebit altum facinus" (vv. 1321-1329), quale Tanai o quale Nilo, o quale Tigri violento per l'onda persiana o il Reno impetuoso, o il Tago che scorre torbido per l'oro di Spagna, potrà purificarmi la destra? Anche se la gelida Meotide versasse in me il mare del Nord e tutto l'Oceano corresse per le mie mani rimarrà profondamente impresso il delitto.
Il modello di questi passi si trova nella Fedra dove Ippolito, sentendosi contaminato dalla matrigna, dice:" quis eluet me Tanais aut quae barbaris/Maeotis undis pontico incumbens mari?/Non ipse toto magnus Oceano pater tantum expiarit sceleris, o silvae, o ferae! " (vv.715-718), quale Tanai mi laverà o quale Meotide che con le barbare onde preme sul mare pontico? Nemmeno il grande padre mio con tutto l'Oceano potrebbe espiare un delitto così enorme. O foreste, o fiere!
Un concetto espresso anche dal Manzoni con parole sante che dovrebbero venire in mente ai tanti macellai di carne umana di questi ultimi tempi:" il sangue d'un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra"(Osservazioni sulla morale cattolica, VII).


Oculi sunt in amore duces
Properzio. Apollonio Rodio. Seneca. Leopardi. Longo Sofista. Teocrito. Ovidio. Dante. Petrarca. Shakespeare. Maupassant. Proust, Svevo. T. Mann. Freud
La significazione particolare degli occhi. Il legame dello sguardo con l'amore[7]. Gli occhi come simbolo dei genitali

Gli occhi di Medea figlia di un figlio del sole, e quelli di Fedra, figlia di Pasife, figlia del sole contengono un riflesso della luce solare: nel quarto libro del suo poema Apollonio Rodio racconta della visita di Giasone e Medea fatta a Circe per purificarsi dell’assassinio di Assirto: ebbene zia e nipote hanno qualcosa in comune nello sguardo: tutta la stirpe del sole infatti era ben riconoscibile poiché con il bagliore degli occhi lanciavano lontano come un raggio d’oro guardando di fronte (Argonautiche, 4, vv. 727-729)
Gli occhi della Fedra di Seneca hanno perso la luce del Sole a causa del male d’amore: “et, qui ferebant signa Phoebeae facis,/oculi nihil gentile nec patrium micant” ( Fedra, vv. 380-381), e gli occhi che portavani segni della luce solare, non mandano più i bagliori nobili della stirpe. E’ una considerazione che risale ad Apollonio.

Per risalire verso gli archetipi di questa considerazione ci fornisce alcune indicazioni Leopardi.
“Espressione degli occhi. Perché si ha cura fino ab antico di chiudere gli occhi ai morti? Perché con gli occhi aperti farebbero un certo orrore. E questo orrore da che verrebbe? Non da altro che da un contrasto tra l’apparenza della vita, e l’apparenza e la sostanza della morte. Dunque la significazione degli occhi è tanta, ch’essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbro a dare una sembianza di vita agli estinti” (Zibaldone, 2102).
L'importanza capitale degli occhi nel sembiante divino e umano viene chiarita dal poeta di Recanati nello Zibaldone: "Le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero bow'pi" (bowvpido") cioè ch' ha occhi di bue . La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell'uomo. Nondimeno i greci intendentissimi del bello, non temevano di usare questa esagerazione in lode delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come titolo di bellezza, indipendentemente anche dal resto, e come contenente una bellezza in sé, contuttoché contenga una sproporzione. E in fatti non solo è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne (che non sieno, come sono molti, di gusto barbaro) la grandezza degli occhi, ma anche un certo eccesso di questa grandezza... Dalle quali cose deducete

1°. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si dipinge la vita e l'anima dell'uomo (e degli animali); e però quanto più son grandi, tanto maggiore apparisce realmente l'anima e la vitalità e la vita interna dell'animale. (Né quest'apparenza è vana). Per la qual cosa accade che la grandezza loro è piacevole ancorché sproporzionata, indicando e dimostrando maggior quantità e misura di vita"(2546-2548).


continua



[1]Romeo e Giulietta (I, 2)
[2] E’ Agamennone che prega nel sancire i patti prima del duello tra Menelao e Paride.
[3] Qui parla Tiresia dopo avere bevuto il sangue della vittime sgozzate da Odisseo per evocare i morti. Gli dice che deve lascire intatte nell’isola di Trinachia le floride greci del Sole che tutto vede e tutto ascolta.
[4] Viene raccontato da Demodoco nell’VIII canto dell’Odissea (vv. 266 ss.)
[5] Principessa persiana, figlia di Orcamo
[6] Una battuta che nel libretto di Piave del melodramma musicato da Verdi diventa:" Ve' le mani ho lorde anch'io; poco spruzzo e monde son" (Macbeth, I atto).
[7] Ricorda: "si nescis, oculi sunt in amore duces " di Properzio (II, 15, 12).