lunedì 5 settembre 2016

Shakespeare e la letteratura antica. III parte


La vita come recita Shakespeare, Svetonio, Epitteto
Sentiamo Shakespeare:" All the world's a stage-And all the men and women merely players" (As you like it 1, II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti della vita umana". Segue la descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso, si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".
Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite.
Epitteto: “ricorda che sei uJpokrith;" dravmato" ma non il regista. Tu devi recitare bene il ruolo assegnato e scelto da un altro (Manuale, 17).

L’ingratitudine
L'ingratitudine dei vili viene stigmatizzata da Teognide quando afferma che è del tutto insensato il favore ( mataiotavth cavri") di chi fa del bene ai deiloiv :" i\son kai; speivrein povnton aJlov" polih'" " (Silloge, vv. 105-106), è come seminare l'abisso del mare canuto2.
Secondo Shakespeare fu l'ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, a vincere la resistenza del grande Cesare che allora cadde:"Ingratitude, more strong than traitors' arms,/quite vanquished him: then…great Caesar fell" (Giulio Cesare , III, 2).
Gli ingrati sono tanti, eppure l’ingratitudine viene biasimata e detestata da quasi tutti.
Nel Tito Andronico, l'imperatrice Tamora, ex regina dei Goti, suggerisce all'imperatore Saturnino di prendere tempo prima di annientare la fazione di Tito che lo ha appoggiato nell'ascesa al trono: rischierebbe di essere soppiantato "for ingratitude,/Which Rome reputes to be a heinous sin" (I, 1), che Roma considera essere un peccato odioso.
L'ingratitudine è anche una forma diffusa di disprezzo dell’ umanità, dell’altrui e della propria. Seneca: “ Torquet se ingratus et macerat; odit quae accipit quia redditurus sit Ep. 81, 23, l’ingrato si tormenta e strugge; odia i benefici ricevuti perché pensa al momento di contraccambiarli.
Lo nota pure il "collaborazionista" Céline che non si faceva pagare le visite mediche e subiva una gratitudine rovesciata:"Ero troppo compiacente con tutti, lo sapevo. Nessuno mi pagava. L’ho poi visitato gratis, soprattutto per curiosità. E' un torto. Le persone si vendicano dei favori che loro fate"3.

La connessione organica tra il capo, la sua terra e perfino il cielo.
Secondo questo principio dell'unità del tutto, e, in particolare, per quello della connessione organica tra il Capo e la sua gente, nel prologo dell'Edipo re di Sofocle viene descritta la sterilità della terra tebana sconciata e resa malata dai delitti di Edipo, vero mivasma della sua povli" (v. 353), e nell' Antigone Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male della città:" kai; tau'ta th'" sh'" ejk freno;" nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per la tua disposizione mentale. Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo regale ma anche la funzione di mivasma, homo piacularis che contamina la città.
Sappiamo anche da Omero4 e da Esiodo5, che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.
Sofocle nel Filottete rappresenta Neottolemo adirato con Odisseo che si è impadronito delle armi di Achille, spettanti a lui, figlio di Deidamia e del Pelide. Il ragazzo lamenta di essere stato espropriato dei suoi benipro;~ tou' kakivstou kajk kakw'n jOdusseuv~ (384), dal peggiore di tutti, nato da malvagi, Odisseo. Eppure il giovane biasima ancora più tou;~ ejn tevlei (v. 385), quelli che sono al potere, civile e militare: “povli~ ga;r e[sti pa'sa tw'n hJgoumevnwn-stratov~ te suvmpa~, oiJ d j ajkosmou'nte~ brotw'n-didaskavlwn lovgoisi givgnontai kakoiv” (386-388), la città infatti è tutta di coloro che la governano e l’esercito pure, e quelli tra i mortali che si comportano male, diventano malvagi per le parole di chi li ammaestra. Una concezione pedagogica del potere.
Isocrate nell' Encomio di Elena6 chiama i despoti che cercano di dominare i concittadini con la forza, non capi ma pesti delle città (oujk a[rconta" ajlla; noshvmata tw'n povlewn, 34).
Analogamente Cicerone nella prima Catilinaria intima al suo nemico mortale di uscire da Roma portando via la contaminazione da lui stesso costituita (purga urbem , 1, 10); quindi ringrazia gli dèi e in particolare Giove Statore: “quod hanc tam taetram, tam horribilem tamque infestam rei publicae pestem totiens effugimus” (1, 11), poiché siamo sfuggiti tante volte a questa peste tanto ripugnante, tanto spaventosa e tanto minacciosa per lo Stato.
Anche Polibio7 fa dipendere il carattere della città da quello dei suoi capi: ai tempi di Aristide e Pericle, Atene era generosa e meritava lode; sotto il governo di Cleone8 e Carete9 era crudele e degna di biasimo: ne deriva che i costumi della povli" cambiano con il variare di quelli dei governanti ("w{ste kai; tw'n povlewn e[qh tai'" tw'n proestwvtwn diaforai'" summetapivptein", Storie, IX, 23, 8).

Ricordo l'Oedipus senecano dove il protagonista si accusa dicendo "fecimus coelum nocens ( v.36), abbiamo reso colpevole il cielo.
Nel Macbeth10, un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re:"some say the earth was feverous, and did shake" (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato.
La città malata per antonomasia è Tebe: Dante chiama Pisa "vituperio delle genti"11 e "novella Tebe"12 per la crudeltà della pena inflitta ai figli innocenti del conte Ugolino.

Il potere sfrondato dagli allori e grondante di lacrime e sangue
Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”13. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bids us do good for evil:-And thus i clothe my naked villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ,-And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro, e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo.
Queste parole costituiscono il codice dell’uomo di potere.
Nell' Edipo re di Sofocle, Creonte mette in rilievo la paura che circonda il potere assoluto che pertanto non dovrebbe essere desiderabile da parte di una persona ragionevole:" Considera questo anzitutto, se ti sembra che uno potrebbe/scegliere di comandare con paura (a[rceinxu;n fovboisi) piuttosto che/riposando tranquillo, se avrà proprio lo stesso potere. /Ed io dunque né per mia natura desidero/ essere personalmente tiranno piuttosto che fare le cose del tiranno/né chiunque altro sia in grado di ragionare" (vv. 584-589).
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit ". (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute chi lo dice.
Per Seneca il potere è un nucleo di male
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis14: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti.

Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi di Guicciardini " la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita15: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".


continua

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11599-1600.
2L'immagine risale ad Alceo:"chi fa doni a una puttana è come se li gettasse nelle onde del mare canuto" (fr. 117 Voigt).
3L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 257.
4Un re buono, afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea. parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di lui" (vv. 108-114).
Il ribaltamento di questa situazione è il re negativo, cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola quale mivasma. Come si scopre essere il protagonista dell'Edipo re che perciò si allontana da Tebe.
5L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere, vv.240-244:"Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou' ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala mhcanavatai.-Toi'sin d j oujranovqen meg j ejpevgage ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono". Infatti quando sbaglia solo Prometeo tutti gli uomini pagano.
6Del 390 a. C.
7200 ca-118 ca a. C.
8Il famigerato demagogo bersagliato da Aristofane ed esecrato, probabilmente calunniato, da Tucidide. Fu il beniamino del popolo dopo la morte di Pericle, fino al 422 quando morì combattendo ad Anfipoli.
9Comandante della flotta ateniese ai tempi di Demostene
101605-1606.
11Inferno, XXXIII, 79.
1269 Inferno XXXIII, 89.
13Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
14Del 44 a. C.

15F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana , 2, p. 107

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