Ripropongo questa presentazione già presentata nel mio blog nel dicembre del 2014.
Tullio De Mauro
Storia linguistica dell’Italia Repubblicana
Dal 1946 ai nostri giorni
Editori Laterza, Roma-Bari 2014
E’ con emozione che mi accingo a
presentare questo bel libro di Tullio De Mauro poiché nell’“Avvertenza” (pp.
XI-XV) che precede il primo capitolo trovo il mio nome e il mio cognome situati
tra quelli delle persone che l’autore menziona per “qualche consenso” e “i
suggerimenti” ricevuti “in successive fasi di stesura”. Un riconoscimento molto
generoso nei miei confronti, che ho fatto ben poco, ma l’ho fatto con impegno e
con affetto per Tullio De Mauro il quale, con questo ringraziamento per un
aiuto minimo, manifesta quella cavriς, quella
gratitudine che è predicato della nobiltà di animo.
Il libro si apre con alcune epigrafi. Riporto quella tratta da
Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana di Don Lorenzo Milani che
è stato uno degli ottimi maestri della “meglio gioventù” della mia generazione:
“E’ solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende
l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli…E
non basta certo l’italiano…Gli uomini hanno bisogno d’amarsi anche al di là
delle frontiere”, p. 96”
E’ un altro segno di nobiltà che un linguista raffinato come De
Mauro, uno specialista di fama e prestigio internazionali, citi un dilettante
sia pure santo e geniale, un prete che insegnava i rudimenti della lingua
nostra a dei ragazzi di una campagna confinata e stretta tra i monti. Ma lo
specialista e il dilettante hanno in comune la forza di un pathos morale,
scaturito dalla volontà di ridurre e annullare l’ingiustizia delle
disuguaglianze, da quella economica a quella linguistica che quasi sempre ne
consegue: “In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in
montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano
d’essere fatti uguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come
Gianni. Il meglio dell’umanità”
Il primo capitolo si intitola “1946: Vita nuova per un paese
antico” (pp. 3-18). Vediamolo.
Con la caduta del regime fascista “tornarono a vivere i partiti e
con essi parole vituperate quando non del tutto messe da parte: democristiano,
liberale, socialista, comunista” (p. 10).
Questa censura sulle parole è segno di oppressione sulle persone,
ed è uno degli aspetti odiosi della tirannide messo già in alto rilievo dalla
letteratura greca classica, in particolare dalla tragedia e dalla storiografia
ateniese del V secolo a. C.
La soppressione della parrhsiva è il primo segno della tirannide
Faccio un paio due esempi: nello Ione di Euripide il protagonista
eponimo esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese il dono della
libertà di parola, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che emigra in quella
città, anche se di nome ne diventa abitante, ha schiava la bocca senza la
parresía ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai koujk e[cei parrhsivan",
vv. 674-675).
Analogo concetto si trova nelle Fenicie dello stesso autore,
quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule: "e{n me;n mevgiston,
oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire
quello che si pensa.
continua
Giovanna Tocco
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