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mercoledì 11 gennaio 2017

"Storia linguistica dell’Italia Repubblicana" di Tullio De Mauro. II parte


Ripropongo questa presentazione già presentata nel mio blog nel dicembre del 2014.

Tullio De Mauro
Storia linguistica dell’Italia Repubblicana
Dal 1946 ai nostri giorni
Editori Laterza, Roma-Bari 2014

II parte


Insomma nel 1946 si poté tornare a parlare. Non molti Italiani però erano in grado di farlo se consideriamo questi dati: “la bassa scolarità complessiva della popolazione; la persistenza e il predominio dell’uso attivo di numerose parlate eterogenee e, per contro, il possesso modesto delle capacità d’uso attivo della lingua nazionale; il conseguente elevato indice di diversità linguistica e di distanza tra le diverse parlate in uso.” (p. 19)
La lingua media scritta degli Italiani forniti di educazione accademica, o per lo meno liceale, era quella di Manzoni, e una lingua media parlata ancora non c’era, sicché valeva ancora quanto ha scritto Leopardi nello Zibaldone sulla nostra lingua la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica” ( 964).

1. Bassa scolarità (pp. 20-25)
“Ancora negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento l’Italia era un paese scolasticamente sottosviluppato, cui non era stata data la possibilità di sovvertire la bassa scolarità del passato” (p. 20).
Dopo l’unità, le classi dirigenti si preoccuparono dell’istruzione del proprio ceto istituendo scuole medie superiori, cioè licei e istituti tecnici, mentre “lasciarono ai comuni, e a volte osteggiarono apertamente e programmaticamente (e non solo nei settori clericali e più reazionari), la scolarità elementare” (p. 21).

Si trattava di tenere e conservare la distanza di classe. “Una classe dirigente continua ad essere tale soltanto fino a quando è in grado di nominare i propri successori”[1]. Il gruppo dirigente vuole perpetuare se stesso.

“Anche la lotta all’analfabetismo della popolazione adulta, che al censimento del 1861 risultò analfabeta per l’80%, per decenni non ricevette attenzione”.
Vennero del resto istituite “scuole reggimentali che cercavano di “redimere”, cioè di trarre fuori dall’analfabetismo più totale, almeno i militari di leva” (p. 21).
Si trattava di “corsi di un’ora e mezza al giorno per sei mesi”.

Certamente non sufficienti per attivare negli scolari adulti un’abitudine allo studio. Tanto più che quei giovani appartenevano probabilmente a famiglie povere e bisognose del salario ricavato da un lavoro qualsiasi, un impiego del tempo che comunque non avrebbe lasciato libere le ore necessarie allo studio.

L'araldo tebano delle Supplici di Euripide sostiene che il governo di un solo uomo non è male: infatti il monarca esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là a proprio profitto.  Del resto, aggiunge, come potrebbe pilotare uno Stato il popolo che non è in grado di padroneggiare un discorso?
Chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche: "oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" - kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Isocrate nell’Areopagitico (del 356) sostiene che la paideiva va conformata ai mezzi di cui ciascuno dispone.
Quando l’Areopago esercitava la nomofulakiva,   I più poveri venivano indirizzati all'agricoltura e al commercio:" ejpi; ta;" gewrgiva" kai; ta;" ejmporiva"" ( 44). Gli abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, all’ ippica, alla caccia, e alla filosofia. 

Pure Protagora, il sofista eponimo e personaggio del dialogo di Platone fa dipendere la durata dell'istruzione dai mezzi dei genitori. Lo studio della poesia, della musica e la pratica della ginnastica li fanno oiJ mavlista dunavmenoi-mavlista de; duvnantai oiJ plousiwvtatoi (Protagora, 326c) “i più ricchi, quelli che hanno possibilità maggiori” mandano i figli a scuola prima e li fanno uscire dopo. E quando hanno lasciato la scuola, i giovani devono imparare le leggi perché non vivano a proprio arbitrio e a casaccio.

I primi governi dell’Italia unita dunque avevano una concezione classista della cultura e della scuola.
“Come già prima dell’unità, anche nei decenni seguenti continuarono quindi a mancare efficienti scuole elementari e post-elementari di primo grado. Soltanto a mezzo secolo di distanza dall’unificazione politica, nel decennio giolittiano, ci furono segni di mutamento” (p. 21).
Cresceva da una parte la coscienza della necessità di un’istruzione almeno elementare, dall’altra il bisogno di una mano d’opera più istruita. “Crebbe dunque l’attenzione per l’istruzione, e crebbe la relativa spesa pubblica”.
Furono costruiti molti edifici scolastici nuovi e anche i bambini delle classi più povere cominciarono a frequentarli.
“Ma il conflitto mondiale bloccò questo processo e le spese per l’istruzione si contrassero di nuovo. E non risalirono più fino alla nascita della Repubblica” (p. 22).
Infatti il governo Mussolini solo nei suoi primi anni (1922-1925) si pose il problema del riassetto e rilancio della scolarità attraverso il ministro Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo “come direttore generale dell’istruzione elementare”. Ma queste persone vennero rimosse nel 1925, mentre il fascismo si costituiva come dittatura.


continua



[1] G. Orwell, 1984, p. 219.

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