Mercoledì 4 luglio Ifigenia in forma splendente venne a Pesaro per fare l’amore con me. Non nella casa delle zie le quali però, avvertite, la accolsero decentemente. Quel giorno parlammo senza fraintenderci delle nostre vite e delle letture fatte nel frattempo, poi giocammo, nuotammo, remammo e verso la sera facemmo l’amore nel mare che al tramonto assumeva il colore del vino. La bella ragazza era piena di luce: scintillava sulla sabbia, rifulgeva sopra e dentro l’acqua salata, e dopo il tramonto mandava lampi di gioia nella notte musicata dal verso trepido dei grilli e ingentilita da uno spicchio sottile di luna. Alle sette di sera la spiaggia era quasi deserta: sulle cabine chiuse, sull’umida sabbia, sulle sdraie ripiegate e addossate ai gambi degli ombrelloni mietuti, sui mosconi allontanati dall’acqua, si stendevano lunghe le ombre degli alberghi costruiti pazzamente subito sopra la rena. Ifigenia aveva un costume di colore carneo che metteva in risalto l’abbronzatura e la compattezza liscissima della sua pelle.
Verso le otto di sera sulla spiaggia non c’era anima viva e la ragazza propose: “Vieni, andiamo a fare l’amore nell’acqua”.
L’invito mi piacque assai, però domandai: “Come facciamo?”
“Come i pesci”.
Pensavo che poteva essere scomodo e difficoltoso un concubito subacqueo oltre che irregolare e proibito, però se non l’avessi fatto quella sera con la splendidissima giovane che me l’aveva chiesto forse non avrei avuto un’altra occasione di povare tale esperienza che poteva allargare la mia coscienza di me stesso e della vita. Sicché entrammo nell’acqua che non era calda, anzi faceva accapponare la pelle.
“Hai la pelle d’ochina”, dissi per esorcizzare quel freddo con una canzonatura. Ridemmo, poi, per scaldarci, nuotammo fino agli scogli antistanti la riva. Fare l’amore lì sopra non si poteva: era troppo scabroso.
Dove non toccavamo il fondo non era possibile, per mancanza di appoggio.
Allora tornammo verso la riva deserta. Il sole, tramontato dieci minuti prima dietro l’alta terrazza di un albergo sovrastante la spiaggia, era risorto a sinistra dell’edificio e aveva aggiunto un tocco di arancione al mare imasto tuttavia cupo, denso e capace di tenere celata la nostra impudicizia. Ci fermammo dove l’acqua ci arrivava alle spalle: a metà strada tra gli scogli scabri della scogliera e la rena asciutta.
Ci togliemmi i costumi sistemandoli intorno alle braccia. L’acqua ci dava carezze lascive: senza difficoltà pentrai nella giovane donna come un pesce boccheggiante e silenzioso.
Arrivato alla base del fianco occidentale dell’abergo follemente edificato sulla riva marina, il sole , sgonfio oramai di luce e calore, sembrava una palla rossiccia gettata via da un bambino stupido, che stanco di giocarci, per spregio l’aveva laciata da una finestra
Bologna 17 marzo 2024 ore 20, 23 giovanni ghiselli
p. s
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