domenica 10 marzo 2024

Fedra in Euripide, in Aristofane, in Seneca, in Racine e in D’Annunzio.


 

Artemide nell’esodo dell’Ippolito di Euripide

Nell’Esodo dell’Ippolito compare Artemide che svela a Teseo come sono andati i fatti. Dunque gli dice: “tu hai ucciso empiamente tuo figlio -pai'd j oujc oJsivw" so;n ajpokteivna" (1287) credendo alle parole false di tua moglie-yeudevsi muvqoi" ajlovcou peisqeiv"- 1288

Con questa rivelazione non otterrò un miglioramento (prokovyw   g j oujdevn) ma ti recherò dolore, ajlgunw' dev se, 1297.

Ti mostrerò l’animo giusto di tuo figlio  e l’assillo o, per qualche verso, la nobiltà di tua moglie kai; sh'" gunaiko;" oi\stron h] trovpon tina;-gennaiovthta (1300-1301)

Ella si innamorò di tuo figlio,  morsa dagli aculei (dhcqei`sa kevntroi~ paido;" hjravsqh sevqen v. 1303) della dea Afrodite, odiosissima a noi, quante abbiamo il piacere della  verginità: “ hJmi'n o{saisi parqevneio~ hJdonhv” (v.1302). Mentre con il senno cercava di vincere Cipride-gnwvmh/ de; nika'n th;n Kuvprin peirwmevnh-1304- , Fedra  fu annientata contro la sua volontà dalle macchinazioni della nutrice-trofou' diwvlet j oujc eJkou'sa mhcanai'"- (1305). Ippolito non te lo ha rivelato per tenere fede ai giuramenti dal momento che è pio eujsebhv" (1309)

La dea poi dice a Teseo “ti sei mostrato malvagio faivnh/ kakov", ( 1320) maledicendo tuo figlio senza aspettare prove né voce di indovini

Cipride volle che andasse così, placando la sua collera: “plhrou`sa qumovn” (v. 1328). Cfr. lo qumov~ di Medea.

 

Per noi dèi c’è il costume novmo" che nessuno vuole scontrarsi con il desiderio di un altro e ce ne asteniamo sempre-oujdei;" ajpanta'n bouvletai proqumiva/-th'/ tou' qevlonto", ajll j ajfistavmesq j ajeiv (1327-1330).-

Una legge vigente in tutte le caste.

Io non ho salvato Ippolito per timore di Zeus.  Il tuo non conoscere i fatti to; mh; eijdevnai  (Ippolito 1335)- dice ancora Artemide- ti assolve per prima cosa dall’accusa di malvagità. Inoltre tua moglie si è uccisa senza parlarti

Io ne soffro poiché gli dèi non gioiscono quando muoiono gli uomini pii tou;" ga;r eujsebei'" qeoi;-qnh/vskonta" ouj caivrousi  (1339-1340)

Insomma è stata Cipride la scellerata (hJ panou`rgo~, v. 1400) a macchinare l’orrore. 

 

Nell’Ippolito di Euripide dunque “Respinta, Fedra si impicca, però dopo aver applicato il motivo biblico di Putifarre: incolpandolo cioè in una lettera di aver fatto lui l’avanceQuello che noi leggiamo è il secondo Ippolito euripideo, detto anche “coronato” (dalla corona che egli porta in omaggio ad Artemide, alla quale è votatissimo, essendo purtroppo perduto il primo- il “velato” (a indicare probabilmente la ritrosia pudica di fronte alla profferta illecita)-, che sappiamo da Aristofane aver suscitato un certo scandalo”[1].

 

 

La Fedra di D’Annunzio soffre una guerra interna come inferno sulla terra, lucrezianamente: “Pronta, eccomi, all’Ade;/ché non nell’Ade, non nelle tenarie/fauci sono i castighi più crudeli,/ma l’infinito cuore è solo il luogo/dell’infinito strazio” (Fedra, atto II).

Ella soffre l’eredità di Pasife ma non si sente in colpa nei confronti di Teseo.

Ippolito le dice: “Sei la donna di Teseo,/né la vergogna ti rattien la bocca”.

Ed ella risponde: “Non la donna di Teseo,/la cosa fui del rubatore, messa/nella stiva coi trìpodi e con gli otri;/poi nascosta in Decèlia per sett’anni,/custodita nell’ombra, candidezza/illesa, unta d’unguenti,/e cresciuta allo stupro” (atto II).

 

Racine e la Poetica di Aristotele.

 

Racine nella Prefazione alla sua Fedra (1677) scrive: “ In Euripide e Seneca, Ippolito è accusato di aver realmente violato la matrigna: “vim corpus tulit ” (v. 892) dice la Fedra di Seneca.

 “Ma qui è accusato[2] soltanto di averne avuto l’intenzione. Ho voluto risparmiare a Teseo una vergogna che lo avrebbe reso sgradito al pubblico”.

Nel dramma di Racine l’accusa viene dalla nutrice.

Per quanto riguarda Fedra, il suo carattere: “ possiede tutte le qualità che Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a provocare la compassione e il terrore. In verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente. Essa è trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita…Ho avuto cura di renderla un po’ meno odiosa di quanto non fosse nelle tragedie degli Antichi dove è lei stessa che decide di accusare Ippolito. Ho ritenuto che la calunnia avesse in sé qualcosa di troppo basso e nero per metterla sulle labbra di una Principessa che, per il resto, esprime sentimenti tanto nobili e virtuosi. Una tale bassezza mi è parsa convenire meglio a una nutrice”.

 

Nell’Ippolito,  Teseo dopo avere letto la tavoletta con denuncia di Fedra già morta grida: “  jIppoluto~ eujnh`~ th`~ ejmh`~ e[tlh qigei`n-biva/ 885-886, Ippolito ha osato toccare il mio letto con violenza. Quindi Teseo chiede a suo padre Poseidone di esaudire una delle tre maledizioni che gli aveva promesso: katevrgasai- ejmo;n pai`d j 888-889 uccidi mio figlio!

 

 

Aristotele ha scritto con maggior chiarezza quanto leggiamo  nella prefazione di Racine alla sua Fedra.

Il filosofo sostiene che il protagonista  non può essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe ripugnanza. Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan tinav,  1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale, piuttosto che un crimine voluto, un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre suo e sposato la madre sua che non conosceva ; inoltre è necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio,  non sia troppo lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me;n peri; to;n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to;n o{moion, 1453a, 5 ).

 

Nell’Ippolito di Euripide, Fedra, che parla con la nutrice, la quale cerca invano di dissuaderla dall’annientarsi nel dolore , insiste nell’ affermare che vuole commettere un errore: “e[a m j aJmartei'n: ouj ga;r ej~ se; aJmartavnw” (v. 323), lascia che io sbagli, infatti non sbaglio contro di te.  

 

Ma torniamo a Racine: “Per quanto riguarda il personaggio di Ippolito, avevo appreso, studiando gli Antichi, che si rimproverava a Euripide di averlo dipinto come un filosofo esente da qualsivoglia difetto. La qual cosa faceva sì che alla morte del giovane il pubblico reagisse più con indignazione che con pietà. Ho creduto di dovergli attribuire qualche debolezza per renderlo un po’ colpevole nei confronti del padre, senza tuttavia ridurre in lui quella grandezza d’animo che gli fa risparmiare l’onore di Fedra, lasciandosi perseguitare senza accusarla. Do il nome di debolezza alla passione che, suo malgrado, egli prova per Aricia, che è figlia e sorella dei nemici mortali di suo padre” (Prefazione di Racine a Fedra). Si tratta dei Pallantidi.

Da dove viene fuori questa Aricia? “Aricia non è un personaggio di mia invenzione. Virgilio afferma che Ippolito, dopo che Esculapio l’ebbe risuscitato, si sposò con lei e ne ebbe un figlio”.

Racine allude al VII libro dell’Eneide dove Virgilo passa in rassegna l’esercito di Turno. Tra gli altri c’è il giovane Virbio (quasi bis vir! Commenta Servio) allevato nei boschi della ninfa Egeria e mandato in guerra dalla madre Aricia.

 Infatti Ippolito dopo la morte fu richiamato in vita dalle erbe di Peone e dall’amore di Diana. Giove punì Peone fulminandolo, ma l’ alma Trivia (Eneide, VII, 774) nascose Ippolito nelle selve italiche e gli mutò il nome in Virbius (v. 777).

Dal tempio di Trivia e dai suoi boschi, si tengono lontani gli zoccoluti cavalli, “cornipedes arcentur equi quod litore currum/et iuvenem monstris pavidi effudere marinis” (vv. 779-780) poiché spaventati dai mostri marini disfecero il carro e il giovane.

Il figlio, di nome Virbio anche lui, tuttavia conservava la passione per i cavalli.

Ippolito del resto contiene “cavallo” e “sciolto” e può significare sciolto dai cavalli.

Fedra viene moralizzata, direi quasi cristianizzata da Racine, che la rappresenta convinta della morte di Teseo prima della dichiarazione d’amore al figliastro. L’autore francese cerca anche di razionalizzare il mito della discesa di Teseo agli Inferi: “Ho tenuto pure conto della storia di Teseo, così come è narrata in Plutarco; e in questo storico ho trovato che la convinzione diffusa, che Teseo fosse disceso agli inferi per rapire Proserpina, si basava sulla notizia di un viaggio compiuto da quel principe in Epiro, alle sorgenti dell’Acheronte, presso un re cui Piritoo voleva rapire la sposa, e che aveva tenuto Teseo prigioniero dopo aver ucciso Piritoo...E la voce della morte di Teseo, fondata su quel mitico viaggio, dà modo a Fedra di fare una dichiarazione d’amore, che sarà una delle cause principali della sua rovina e che essa non avrebbe mai osato fare, fin che avesse ritenuto in vita il suo sposo…Ciò che posso dire con sicurezza è che in nessun’altra tragedia da me scritta la virtù è messa maggiormente in luce…Questo è precisamente lo scopo che deve proporsi ogni uomo che lavori per il pubblico. Ed è questo che i primi poeti tragici avevano in mente sopra ogni cosa. Il loro teatro era una scuola in cui si insegnava la virtù altrettanto bene che nelle scuole dei filosofi. Così Aristotele ha voluto fissare le regole del poema drammatico, e Socrate, il più saggio dei filosofi, non disdegnava di mettere mano alle tragedie di Euripide” (Prefazione alla Fedra di Racine). 

 

  Aristofane  nelle Rane mette in rilievo il  contenuto didascalico-educativo dei drammi eschilei. Il personaggio che rappresenta il tragediografo di Eleusi afferma, riferendosi ai Sette contro Tebe , di avere composto"un dramma pieno di Ares",  una tragedia così ricca di ardore bellico che "chiunque l'avesse vista bramava diventare un terribile combattente"(Rane, v.1022). Quindi prosegue facendo una storia della poesia che è anche storia della paideia: “"considera come fin dall'inizio sono stati utili i poeti di rango. Orfeo infatti ci ha fatto apprendere le cerimonie sacre e ad astenerci dai delitti, Museo le cure delle malattie e gli oracoli, Esiodo poi i lavori della terra, le stagioni dei frutti e l'aratura; il divino Omero da che conseguì onore e gloria se non dall'averci insegnato cose utili come gli schieramenti, il valore e gli armamenti degli uomini?" (vv. 1031-1036).  Poi il personaggio  Eschilo, in polemica con il personaggio Euripide, si pregia di non avere mai messo in scena (oujejpoivoun) Fedre e Stenebee povrna~ (v. 1043), puttane, e nemmeno una donna in amore[3]:ejrw'san pwvpot j ejpoivhsa gunai'ka" (Rane, v. 1044).   

 

 

 

Il Caos è la conclusione del dramma di Seneca

 

Fedra dopo la morte di Ippolito accusa Teseo di essere il distruttore della sua famiglia, e un uomo senza compassione: “ O dure Theseu semper, o numquam ad tuos/ tuto reverse: natus et genitor nece/reditus tuos luēre; pervertis domum/amore semper coniugum aut odio nocens” (vv. 1164-1167), O Teseo sempre spietato, tu che non sei mai tornato dai tuoi senza sventure: il figlio e il padre hanno pagato con la morte i tuoi ritorni; tu abbatti la famiglia facendo sempre del male con l’amore o con l’odio per le mogli.  

Quindi la donna apostrofa Teseo accusandolo di essere un padre peggiore di una matrigna funesta: “tuque, funesta pater/peior noverca” (1191-1192).

Infine confessa di essersi inventata lo stupro e si uccide.

Il Caos è invocato da Teseo quando viene a conoscenza del suo errore: vorrebbe subire per contrappasso le pene che ha fatto patire alle sue vittime e le pene dei grandi criminali del Tartaro: Tantalo, Tizio, Issìone padre di Pirìtoo, e infine: “dehisce tellus, recipe me dirum chaos” ( Fedra, v. 1238), apriti terra, accoglimi Caos tremendo. Lo stesso corpo di Ippolito sconciato è una rappresentazione del Caos: “Hoc quid est forma carens/et turpe, multo vulnere abruptum undĭque?” (Fedra, vv. 1265-1266), che cosa è questo  pezzo privo di forma e sconcio, lacerato da ferite da tutte le parti?  

 

Le sventurate Minoidi e la loro madre

D’Annunzio rappresenta una Fedra che prima rivendica la nobiltà delle sue origini: “ Mia madre/ nacque dal Sole e dall’Oceanina[4];/ e per ciò sono anch’io piena di raggi/ e di flutti, sono piena di chiarori e di gorghi”, poi però “l’orrore della materna infamia la riafferra, l’orrore del congiungimento bestiale. E il bianco toro condotto dal boaro alla falsa giovenca ella vede, e la lussuria nefanda, e il generato mostro bovino e umano, e il labirinto vorace, in baleni di delirio…Ecco, ecco, il toro si precipita/all’inganno, ansa, sbuffa/dall’orribili froge, fiuta, lambe,/lorda”[5].

 

Anche nell’Ippolito di Euripide torna in mente a Fedra l’infamia della madre Pasife e la sciagura della derelitta sorella Arianna: “o disgraziata madre, quale amore amasti! (v. 337), quindi: “e tu misera sorella, sposa di Dioniso!” (v. 339). Ella si sente la trivth (...) duvsthno~ ”(v. 341), la terza sventurata, il terzo anello della catena.  

 

La castità sbandierata da Ippolito è offensiva per Afrodite che lo punisce.

Nell’Ippolito di Euripide, Afrodite odia Ippolito il quale dice di lei  che è per natura la peggiore tra le divinità: levgei kakivsthn daimovnwn pefukevnai (Ippolito, v. 13), il giovane rifiuta l’amore e fugge le nozze, aggiunge Afrodite, dopo essersi presentata quale dea grande e non ignota tra i mortali nel cielo (vv. 1-2). Dunque punirà Ippolito e farà morire anche Fedra, sia pure ella nobile: “h{ d  j eujkleh;~ mevn, ajll j o{mw~ ajpovllutai-Faivdra” (v. 47). Ippolito saluta l’immagine della dea dell’amore solo da lontano ajgno;~ w[n (v. 102), siccome sono casto, afferma. E poco dopo, rivolto al servo che cerca di metterlo in guardia, dice: alla tua Cipride, tanti saluti da parte mia:th;n sh;n de; Kuvprin povll’ ejgw; caivrein levgw” (v. 113). Il servo allora prega la dea di fare come se non lo avesse udito: gli dèi infatti dovrebbero essere più saggi dei mortali: “sofwtevrou~ ga;r crh; brotw'n ei\nai qeouv~” (v. 120).

Dopo il suicidio di Fedra, Ippolito, creduto ingiustamente colpevole dal padre, riprende a sbandierare la sua castità: non c’è uomo più puro di me (oujk e[nest j ajnh;r ejmou'swfronevstero~, Ippolito, vv. 994-995) dice a Teseo, anche se tu lo neghi.

Il mio corpo, continua, fino a oggi è puro da amplesso (levcou~ ga;r ej~

tovd j hJmevra~ aJgno;n devma~, v. 1003). E anche la mente è sana poiché il potere non lo interessa: ai saggi comandare non piace: infatti il potere sconvolge la mente di quelli cui piace (vv. 1013-1015).

 Ippolito fa appello ai giuramenti e ai responsi degli indovini, ma il padre, che già lo aveva irriso per il suo orfismo (v. 953) rifiuta la mantica: tanti saluti agli uccelli che vanno e vengono sul nostro capo” ( tou;" d j uJpe;r kavra-foitw'nta" o[rni" poll j ejgw; caivrein levgw-;vv. 1058-1059). Ippolito però insiste: esce di scena dicendo: non vedrete mai altro uomo più casto (ou[pot  a[llon  a[ndra swfronevsteron-o[yesqe keij mh; tau`t j ejmw`/ dokei` patriv. vv. 1100-1101), anche se a mio padre non sembra.

Infine  la morte del ragazzo, la maledizione di Afrodite da parte di Artemide: “Kuvpri~ ga;r hJ panou'rgo~ w||d j ejmhvsato “ (v. 1400) la scellerata Cipride ha macchinato questo, e Teseo che ribadisce l’accusa nei confronti della dea dell’amore: “wJ" polla;, Kuvpri, sw'n kakw'n memnhvsomai” 1461, quante volte, Cipride, mi ricorderò dei tuoi misfatti!

Chiude la tragedia la corifea con cinque versi che notano la imprevedibilità dei casi umani, soprattutto quelli dolorosi- koino;n tovd j a[co~ pa`si polivtai~-h\lqen ajevlptw~ 1462-1463 questo dolore comune a tutti i cittadini giunge inattesi.

 Dureranno tuttavia molto a lungo le rinomanze degne di compianto  dei grandi tw`n ga;r  megavlwn axiopenqei`~- fh`mai  ma`lllon katevcousin 1465 -1466

La constatazione finale che i fatti avvengono inaspettatamente (ajevlptw", 1463)  è topica. Simili sono le conclusioni dell'Alcesti, della Medea,  dell'Andromaca , dell'Elena e delle Baccanti

Bologna 10 marzo 2024 ore 18, 12 giovanni ghiselli

p. s

Statistiche del blog

Sempre1468974

Oggi307

Ieri403

Questo mese4176

Il mese scorso10454

 

 



[1] R. Andreotti, Classici elettrici, p. 61

[2] Dalla nutrice (ndr).

[3] Lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :" Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n'è seicento volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera impudente l'andarlo fomentando con gli scritti".

 

[4] Perseide

[5] Fedra (del 1909), atto I.

Nessun commento:

Posta un commento

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...