NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 29 aprile 2013

La cultura umanistica contro la violenza


Ho letto in molti giornali che sarebbero state le parole di dura critica al governo a provocare  l’orrenda violenza della quale sono rimasti vittima due carabinieri.
In effetti l’apparenza per giunta spesso violenta la verità.

So bene che sarebbe odiosa sapienza 
[1] se un modesto scarabocchiatore quale sono io  osasse contrapporsi a  fior di  giornalisti  e a fior fiore  di uomini politici, come Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, guide scelte, ductores delecti,  prima virorum [2].  
Tuttavia voglio ribadire la mia idea di fondo che non è stata la critica, seppure dura, ma  l’ignoranza e la follia a generare la violenza.
Chi ha sparato era un criminale pazzo e ignorante.
Contro la violenza propongo il recupero dell’umanesimo e della cultura umanistica.
Non si leggono più gli autori, nemmeno gli autori i massimi. Omero, Sofocle, Euripide, Virgilio, Seneca, Dante, Machiavelli, Shakespeare, Goethe, Leopardi, per fare solo qualche esempio, sono del tutto sconosciuti a gran parte degli studenti e non sono abbastanza conosciuti da una parte non piccola degli insegnanti; l’obbrobrio dell’ignoranza dei testi induce gli ignoranti al tedioso racconto di vuote ciance.
Questo oblio dei classici caratterizza le epoche di decadenza

Il personaggio Messalla del Dialogus de oratoribus di Tacito [3] lamenta che non  si dedichi più abbastanza  lavoro alla lettura degli autori (nec in auctoribus cognoscendis) né allo studio dell'antichità (nec in evolvenda antiquitate), né alla conoscenza della storia (nec in notitiam vel rerum vel hominum vel temporum satis operae insumitur, 30). Si cercano solo le chiacchierate dei retori.
Alla micrologica ciancia di moda contrappongo un sapere serio e umano. Quello che  il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo nell'Edipo a Colono: "e[xoid  j ajnh;r w[n"(v.567), so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile.
"Fammi sapere - dice l’umano re di Atene a Edipo, esule, mendico, cieco e malfamato - infatti dovresti raccontarmi misfatti atroci perché mi sottraessi; siccome anche io sono stato allevato da straniero, come te, e in terra straniera ho affrontato più di ogni altro uomo lotte rischiose per la mia vita, sicché non rifuggirei dal salvare nessuno straniero, come ora sei tu, in quanto so di essere uomo e so che del domani nessun attimo appartiene più a me che a te"(vv.560-568).
Queste parole potrebbero essere utili alla rieducazione dei razzisti nostrani.
E' una dichiarazione di quella filanqrwpiva che si diffonderà in età ellenistica e partorirà l'humanitas  latina.  
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo, leggiamo nel  più famoso verso di Terenzio: "Homo sum: humani nihil a me alienum puto "[4], sono uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda.

All'opposto della folle chiusura nell'ego del pazzo che va a sparare, c'è l'Antigone di Sofocle che afferma il suo amore per l'umanità: "ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore. "Esiste un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'Antigone  di Sofocle, una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento"[5].
"Mi aspetto da un medico, nemmeno io so bene perché, un resto di quell’umanesimo per cui si richiede la conoscenza del latino e del greco oltre a una certa preparazione filosofica, e che nella maggior parte delle professioni, oggigiorno, non è più necessario. Io, che in genere amo così fervidamente tutto ciò che è nuovo e rivoluzionario, in questo sono senz'altro retrivo, e dai ceti colti pretendo un certo idealismo, una certa disposizione a discutere e a capire del tutto indipendentemente da ogni vantaggio materiale, insomma un resto di umanesimo, anche se so che quest'umanesimo, in realtà, ha cessato di esistere e che tra poco anche la sua apparenza esterna non si troverà più se non nei musei delle figure di cera"[6].
Bisogna comunque lottare perché la sostanza dell'umanesimo rimanga nella scuola italiana. E non solo nella scuola: "Si sa o si intuisce che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell'ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di valore e di autorità, e si cade nel caos (…) Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani, rossi e bianchi non s'intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abbaco che non fossero dettati dagli interessi dei grandi, né venissero modificati a ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos" [7].

La scuola può aiutare i giovani a trovare la strada di questo superamento. Deve farlo: “E’ in stato di rovina l’economia - quella delle nazioni e quella teorica. E’ in stato di rovina, infine, e di grave rovina, perfino la femminilità” [8].
“Che cos’era in fondo l’umanesimo? Nient’altro che amore verso gli uomini, quindi: politica e ribellione contro tutto ciò che macchinava e offendeva l’idea dell’uomo” [9].
“L’umanesimo non dovrebbe più essere portavoce dell’orgogliosa volontà di dominare l’Universo. Diviene essenzialmente quello della solidarietà fra umani, la quale implica una relazione ombelicale con la natura e con il cosmo” [10].
Marco Aurelio, imperatore (161-180 d. C.) e filosofo, scrive: noi siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;" sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin") [11].
Questa idea di humanitas è stata e sarà ripresa nei secoli dei secoli: in Devotions upon Emergent Occasion di  John Donne (1572-1631) per esempio  leggiamo: "Nessun uomo è un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse stato spazzato via un promontorio... La morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana ("for whom the bell tolls[12] ); suona per te.
Leopardi aveva suggerito una relazione polemica con la natura, ma, nello stesso tempo, un rapporto di solidarietà e amore tra gli uomini: “Costei chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana compagnia, / tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nella angosce della guerra comune” [13].
P. P. Pasolini denunciava un vuoto di Carità [14] nell'Italia degli anni Settanta, un vuoto identificato con la mancanza di cultura.


"L'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva dunque in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica" [15].

Nella tragedia attica i personaggi “puramente pragmatici” costituiscono modelli negativi per il pubblico.
Nel Filottete[16] di Sofocle, Odisseo, la consumata volpe,  suggerisce allo schietto figlio di Achille di agire con la frode (
dovlw/, v. 101) e di parlare mentendo, se la menzogna porta salvezza e profitto:"o{tan ti dra'/" ej" kevrdo", oujk ojknei'n prevpei" (v. 111), quando fai qualche cosa per un guadagno non è conveniente esitare. L’Itacese[17] in conclusione raccomanda a Neottolemo  di ricavare un utile dalle parole che dirà e da quelle che ascolterà via via:"devcou ta; sumfevronta tw'n ajei; lovgwn" (v. 131).
Tale è anche Giasone nella Medea di Euripide. Il suo pragmatismo spietato si manifesta chiaramente dichiara alla compagna abbandonata di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia (o le famiglie) e senza restrizioni [18], sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono, anche se amico. Egli insomma "
dra'/ ta; sumforwvtata"[19] (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce con ironia la donna abbandonata, quando finge di sottomettersi e di approvarlo, beffeggiandolo.

In questa categoria dell'utile non onesto può essere  inserita anche la Poppea Sabina di Tacito la quale: "unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat " (Annales, XIII, 45), volgeva la libidine là dove si mostrava l'utile.
Si pensi alla maggior parte degli individui, femmine e maschi, che appaiono nelle trasmissioni televisive.
“E la ragione facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone” (Leopardi, Zibaldone, 23).

In maniera pragmatica e priva di carità si comporta Carlo Grandet quando scrive a sua cugina Eugenia che lo aveva atteso per sette anni, amandolo, dopo che si erano giurati amore eterno: "L'amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e salvaguardare col matrimonio tutte le convenienze volute dal mondo…Oggi io posseggo ottantamila lire di rendita. Questo denaro mi consente di unirmi alla famiglia d'Aubrion, la cui ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta col matrimonio il suo nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di camera di sua Maestà, e una posizione fra le più brillanti. Vi confesserò, mia cara cugina, ch'io non amo affatto la signorina d'Aubrion; ma, unendomi a lei, assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi saranno in avvenire incalcolabili"[20].
Viceversa Kierkegaard afferma: "Sincerità, apertura di cuore, rivelarsi, intendersi, ecco il principio vitale del matrimonio, senza le quali cose esso è contrario alle regole della bellezza e, propriamente, amorale, perché così si separa ciò che l'amore congiunge, il sensuale e lo spirituale (...) L'intesa, ecco dunque il principio vitale del matrimonio"
[21].
Analoga riflessione (sempre a proposito del matrimonio) si trova in Svevo: "Se il giovine ama la ragazza, l'affare è certamente buono; se non l'ama, pessimo"
[22].
Eugenia Grandet  non accetta le convenzioni dell'eterna borghesia e risponde al cugino arrampicatore sociale:"Sì, cugino, avete giudicato bene il mio spirito e i miei modi: non sono fatta per la società, non ne conosco né i calcoli né i costumi, e non saprei darvi i piaceri che voi volete trovarvi. Siate felice, secondo le convenzioni sociali alle quali avete sacrificato il nostro primo amore"[23].
Tony Buddenbrook, la vestale della religione della famiglia borghese, invece accetta la logica del matrimonio-contratto e rinuncia all'amore senza del resto trarre alcun vantaggio da diverse nozze mal calcolate. Nell’ultima pagina del romanzo, diventata una cinquantenne benportante, dice queste parole di commento alla vita: “Dio mi perdoni, si comincia a dubitare della giustizia, della bontà… Di tutto. La vita, voi sapete, frantuma tante cose nel nostro cuore, delude tante volte la nostra fede… Rivedersi?... Fosse vero!...”[24].

Nelle scuole si dovrebbe insegnare qualche cosa anche sul rapporto tra uomo e donna.
“In fondo, è una cosa importante quanto la geografia del nostro paese, o le regole fondamentali della conversazione. Influisce sulla serenità di una persona tanto quanto l’educazione o una sicura padronanza dell’ortografia. E non ha nulla di frivolo… Voglio dire, al momento giusto, persone intelligenti e preparate - poeti, medici - dovrebbero parlare ai giovani delle gioie della convivenza… Non di “vita sessuale”, ma di gioia, pazienza, modestia, appagamento”[25].

Ma torniamo alla “carità” di cui Pasolini soffriva la mancanza.
La caritas secondo l'apostolo Paolo è il valore massimo:"Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens" [26], se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, però non avessi la carità, diverrei un rame risonante o un cembalo che squilla. "Nunc autem manet fides, spes, caritas, tria haec; maior autem ex his est caritas"[27] ora dopo tutto restano fede, speranza e carità, questi tre pilastri, ma la più grande è la carità. In un altro scritto Pasolini associa l’assenza di cultura alla droga: “Perché ci si droga? Non lo capisco, ma in qualche modo lo spiego. Ci si droga per mancanza di cultura… E’ chiaro che chi si droga lo fa per riempire un vuoto, un’assenza di qualcosa, che dà smarrimento, angoscia. E’ un sostituto della magia. I primitivi sono sempre di fronte a questo vuoto terribile, nel loro interno”[28]
L’incolto, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della perdita della propria identità. In non pochi casi questa viene cercata nella violenza.

Concludo con un consiglio semiserio a Enrico Letta: si guardi dalle male lingue dei suoi nemici. Potrebbero imitare Marco Antonio il quale diceva del suo nemico Ottaviano, il futuro Augusto: “adoptionem avunculi stupro meritum[29]  che si era guadagnata l’adozione del prozio, Giulio Cesare, col prostituirglisi.
Io non credo, proprio non credo che questa  storia, se pure è vera, si sia ripetuta, in una specie di eterno ritorno, tra lo zio e il nipote Letta. Lo escludo.
Tuttavia invito il Presidente del consiglio dei ministri e suo zio Gianni a mettere in conto le  accuse di nepotismo, forse non tutte ludiche.

Giovanni Ghiselli


[1] Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38).
[2] Lucrezio, De rerum natura, I, 86
[3] 55 ca.-120 ca d. C.
[4] Heautontimorumenos, 77.
[5] E. Fromm, La disobbedienza e altri saggi, p. 63.
[6] H. Hesse, La Cura , (del 1925), p. 27.
[7] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 33 e p. 368.
[8] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 29.
[9] T. Mann, La montagna incantata, I, p. 177.
[10] E. Morin, La testa ben fatta, p. 101.
[11] Ricordi , II, 1
[12] E', notoriamente, il titolo di un romanzo di  Hemingway, 1940
[13] La ginestra (del 1836, vv. 126-135).
[14] Marzo 1974. Vuoto di Carità, vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini. (Scritti corsari, p. 44).
[15] Scritti corsari , p. 49.
[16] Del 409 a. C.
[17] Personaggio nel quale, secondo Luciano Canfora, gli spettatori potevano riconoscere l’abile e spregiudicato Teramene, soprannominato “coturno”, il calzare che si adatta ad entrambi i piedi, per la sua ambiguità politica. Filottete viene invece identificato con Alcibiade e Neottolemo con il più giovane stratego Trasillo.
[18] "ajll j wJ", to; men; mevgiston, oijkoi''men kalw'"-kai; mh; spanizoivmeqa" (vv. 559-560).
[19] Si può notare che il
suvmforon, l'utile, il vantaggioso, è etimologicamente connesso a fwvr (lat. fur), ladro. Chi guarda esclusivamente all'utile insomma non può essere onesto.
[20] H. d. Balzac, Eugenia Grandet (del 1833),  pp. 158-159.
[21]Enten-Eller (Aut-Aut) , Validità estetica del matrimonio , trad. it. Adelphi, Milano, 1981,  p. 163 del Tomo Quarto.
[22] Una vita , p. 208.
[23] H. d. Balzac, Eugenia Grandet, p. 165.
[24] T. Mann, I Buddenbrook, p. 484.
[25] Sàndor Màrai, La donna giusta, p. 136.
[26] Ep. Ad Conrinthios, I, 13, 1.
[27] Ad Corinthios, I, 13, 13.
[28] Saggi sulla politica e sulla società, I Meridiani, Mondatori, Milano 1999, p. 1168.
[29] Svetonio, Augusti Vita, 68.


domenica 28 aprile 2013

Ulisse nei moderni


Ulisse in altri autori classici (Cicerone, Apuleio,  Seneca) e in alcuni moderni: Tennyson, Boitani, Cesare Pavese, Costantinos Kavafis, Guido Gozzano, Dante, Pascoli, T. Mann, Bertold Brecht, Kafka e il silenzio delle Sirene, Italo Calvino,  l’Ulisse di James Joyce.

Cicerone  nel De finibus bonorum et malorum [1] premette che è innato in noi l’amore della conoscenza e del sapere, ed è tanto grande che la natura umana vi è trascinata senza l’attrattiva di alcun profitto.
Questo si vede dall’episodio odissiaco delle Sirene le quali attiravano i naviganti, non per la dolcezza della voce o la novità dei canti , “sed quia multa se scire profitebantur” (V, 18), ma poiché dichiaravano di sapere molte cose.
L’Arpinate traduce i vv. 184-191 del XII canto del poema di Omero  nei quali  le Sirene attirano Odisseo dicendo che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", XII, 188).
Cicerone conclude con queste parole: “Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur, scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupǐdo patriā esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum”, Omero si accorse che il mito non poteva essere approvato se un uomo di quella levatura fosse stato trattenuto irretito da canzoncine; il sapere promettono, e non era strano che a uno bramoso di sapienza fosse più caro della patria.
E certamente la brama di sapere tutto, di qualunque genere sia, è proprio delle persone curiose.

La curiosità  caratterizza il Lucio di Apuleio  che consiera Ulisse una prefigurazione di se stesso, quando, in mezzo ai travagli, fa questa riflessione:" Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar... Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " ( L’asino d’oro, IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità...e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.
La curiosità è un antidoto alla noia, se questa è un frutto della triste incuriosità: “L’ennui, fruit de la morne incuriosité”[2].
     
Seneca antepone Catone Uticense a Ulisse e ad altri personaggi mitici e letterari: “pro ipso quidem Catone securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum” (De costantia sapientis, 2, 2), per Catone in persona ti[3] invitai a stare sicuro: in effetti nessun saggio può ricevere ingiuria né offesa, e con Catone gli dèi immortali ci hanno dato un esempio di uomo saggio più reale di Ulisse ed Ercole per i secoli precedenti. Questi infatti i nostri Stoici hanno proclamato sapienti, invitti dalle fatiche e spregiatori del piacere e vincitori di tutti i terrori.
Il paradigma positivo costituito da Ulisse dunque viene relativizzato dal filosofo stoico.


 Qualche cosa della violenza che Ulisse incontra e si aspetta,  è dentro di lui, come afferma l’ Ulisse di Alfred Tennyson[4] in un monologo di settanta versi: ““I am a part of all that I have met ” (Ulysses v. 18), io sono una parte di tutto quello che ho incontrato. 
Leggiamone parte (vv. 1-39), in inglese, poi nella traduzione di Giovanni Pascoli:
It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these barren crags,
Match’d with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and Know nt me.
I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: all times I have enjoy’d
Greatly, have suffer’d geatly, both with those
That lov’d me, and alone; on shore, and when
Thro’ scudding drifts  the rainy Hyades
Vex’d the dim sea. I am become a name:
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and Known: cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself non least, but honor’d of them all;
And drunk delight of battle with my peers,
Far on the ringing plains of windy Troy.
I am a part of all that I have met;
Yet all experience is an arch wheretro’
Gleams that untravell’d world, whose margin fades
For ever and for ever when I move.
How dull it is to pause, to make an end,
To rust unburnish’d, not to shine in use!
As tho’ to breathe were life. Life pil’d on life
Were all too little, and of one to me
Little remains: but every hour is sav’d
From the eternal silence, something more,
A bringer of new things; and vile it were
For some three suns to store and hoard myself,
And this gray spirit yearning in desire
To follow knowledge like a sinking star,
Beyond the utmost bound of human thought.
This is my son, mine own Telemachus,
To whom I leave the sceptre and the isle
Well-lov’d of me, discerning to fulfil
This labor, by slow prudence to make mild
A rugged people, and thro’ soft degrees
Subdue them to the useful and the good”.
 “Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova:
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce./
Starmi non posso dall’errar mio: vuo’ bere la vita
Sino alla feccia. Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
Molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
Loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai nella mia strada, ora ne sono una parte.
Pur, ciò ch’io vidi, è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare
Sotto la ruggine opaci né splendere più nell’attrito.
Come se il vivere sia quest’alito! Vita su vita
Poco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
Porta con sé nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche
Due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta,
ch’arde e desia di seguir conoscenza: la stella che cade,
oltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero”.

Vediamo ora gli ultimi versi con il topos eroico del “non cedere”[5]

Tho’ much is taken, much abides; and tho’
We are not now that strenght which in old days
Mov’d earth and heaven, that which we are, we are:
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yeld.”
“Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
più che ne’ giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempra d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai”.

Leggiamo ora il commento di Piero Boitani
“L’Ulisse di Alfred Tennyson-il poeta simbolo dell’età vittoriana-è l’Ulisse della più romantica e della più imperiale delle nazioni, l’Inghilterra. La composizione, Ulysses, risale al 1833, la pubblicazione al 1842: lo stesso periodo in cui Wordsworth rivede il Preludio. Nessun osservatorio migliore, dunque, per fare il punto sulla poesia della conoscenza in un altro momento cruciale della storia: l’epoca della fede nel progresso scientifico, del trionfo della tecnica e dell’industria, dell’espansione imperiale, dell’affermazione del capitalismo. Ulysses è un monologo drammatico le cui fonti fondamentali di ispirazione sono, per esplicita ammissione dell’autore, la profezia di Tiresia nel Libro XI dell’Odissea e il canto XXVI dell’Inferno: le due ombre, le due ‘figure’ di cui abbiamo seguito le reincarnazioni in questo libro. Ritornato in patria da anni, ormai vecchio, l’Ulisse di Tennyson desidera salpare di nuovo per un ultimo grande viaggio verso occidente. Il monologo lo coglie sospeso tra l’abdicazione e la partenza. Sovrano apparentemente stanco di regnare, come potrebbe esserlo un re Lear di monarchie più moderne, egli si sente inattivo e inutile. L’isola che governa è sterile; la razza che vi abita selvaggia, preoccupata soltanto di ammassare, dormire e mangiare; le leggi che egli stesso emana non sono uguali per tutti. E’ con questa spietata analisi del materialismo piccolo-borghese e dell’arbitrarietà del potere che Ulisse inizia il suo discorso. Sono presenti però in lui impulsi contrastanti: curiosamente, egli proclama proprio nel primo verso che non vi è utilità alcuna, alcun “profitto” nel reggere le sorti di un tale stato; aggiunge subito dopo che il suo focolare è immobile e spento; rivela di avvertire sempre più opprimente il peso dell’unione con Penelope, moglie ormai vecchia; risente in particolare il fatto che il proprio popolo non lo “conosca”. Insomma, è un Ulisse che parla lo stesso linguaggio economico dei suoi sudditi, ma che dietro ad esso cela un disgusto insopprimibile per la tediosa normalità familiare e amministrativa, e soprattutto dimostra un grande amor di sé, un egocentrismo quasi sconfinato. Sparita è la “pieta del vecchio padre”, inaridito il “debito amore lo qual dovea Penelope far lieta”, trasformata anche la “dolcezza del figlio”. L’Ulisse di Tennyson ama Telemaco, a metà del suo monologo lo unge proprio successore con le parole del padre (“This is my son, mine own Telemachus…Well-loved of me”-Questo è il figlio mio prediletto, in cui mi sono compiaciuto), ne apprezza le qualità di discernimento e lenta prudenza, lo proclama “del tutto irreprensibile”…Ulisse vede in Telemaco il modello di saggezza politica, di equità, di amministrazione conservatrice, ragionevole e illuminata- il ‘pio Enea’ della tradizione romana, il progressista moderato e attento dell’impero britannico. Di contro a questo erede (il quale non ha comunque modo di replicare), il vecchio staglia se stesso: un eroe del tempo antico, un indomabile ricercatore della conoscenza, un Ulisse a tratti veramente ‘empio’, satanico, e nello stesso tempo incerto, contraddittorio, amletico, presago di morte; pronto a partire, ma non ancora nell’alto mare aperto. Fin dall’inizio, dopo aver rivelato la sua stanchezza del regno, Ulisse annuncia di non poter trattenersi dal viaggiare, che equipara al “bere la vita fino in fondo”. Guarda poi alla vita, ma quella passata: grandi gioie e grandi sofferenze, solitarie e in compagnia, a terra (ma significativamente la parola usata è “shore”, lido, come se l’unica vita concepibile fosse comunque in riva al mare), e quando “le Iadi piovose tormentavano il mare scuro con turbini guizzanti”. Il verso, che echeggia Virgilio, Orazio, Shelley, Shakespeare e Milton, costituisce la solenne presentazione di sé da parte di Ulisse: tale egli si vuole, uomo dalle mille esperienze, navigatore intrepido. Egli è cosciente di essere diventato un nome, un mito: il mito di colui che sempre errando “con un cuore affamato” ha, come l’eroe dell’Odissea, visto e conosciuto le città e i costumi degli uomini, ma anche se stesso, e, come quello dell’Iliade, ha “bevuto la gioia della battaglia” con i suoi pari “sulle piane sonanti di Troia ventosa”. Ulisse ha ricostituito la propria identità di personaggio letterario e di uomo. Facendo incontrare Virgilio e Byron, il classico e il romantico, egli si dichiara ora “parte di tutto ciò che ho incontrato” come Enea e Childe Harold. “Del mondo esperto” come l’Ulisse di Dante, egli è divenuto porzione vivente di quel mondo: la vita è esperienza del tutto”[6].   
  
Nel dialogo, di Cesare Pavese, L'isola, le ultime parole di Odisseo a Calipso sono:"Quello che cerco l'ho nel cuore, come te"[7]. Lo stesso concetto si trova nel poeta neogreco[8] Costantinos Kavafis:"In Ciclopi e Lestrigoni, no certo/né nell'irato Nettuno incapperai/se non li porti dentro/se l'anima non te li mette contro"[9] (Itaca , vv. 9-12).


Guido Gozzano  ridicolizza Ulisse parodiando Dante: “Il re di Tempeste[10] era un tale/che diede col vivere scempio/un ben deplorevole esempio/d’infedeltà maritale,/che visse a bordo d’un yacht/toccando tra liete brigate/le spiagge più frequentate/dalle famose cocottes…/ Già vecchio, rivolte le vele/al tetto un giorno lasciato,/fu accolto e fu perdonato/dalla consorte fedele…/Poteva trascorrere i suoi/ultimi giorni sereni,/contento degli ultimi beni/come si vive tra noi…/Ma né dolcezza di figlio,/né lagrime, né la pietà/del padre, né il debito amore/per la sua dolce metà/gli spensero dentro l’ardore/della speranza chimerica/e volse coi tardi compagni/cercando fortuna in America…/Non si può vivere senza/danari, molti danari…/Considerate, miei cari/compagni, la vostra semenza!” (L’ipotesi, vv. 11-138).  
Nell’Ulisse del XXVI canto dell’Inferno di Dante ricorda “l’orazion picciola” (v. 122) che tenne ai compagni “vecchi e tardi” come lui (v. 106) per trasmettere loro  “ l’ardore-ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,-e delli vizi umani e del valore” (vv. 97-99).

Le Sirene
E’ lo stesso ardore che lo aveva spinto a rischiare la vita per ascoltare il canto delle Sirene nell’ Odissea (XII).

Il canto delle Sirene ha suscitato diversi commenti.

Ne  L'ultimo viaggio dei Poemi conviviali , Pascoli riprende alcuni episodi dell’Odissea: la XXI parte ricorda Le Sirene: “E gli sovvenne delle due Sirene./ C’era un prato di fiori in mezzo al mare./Nella gran calma le ascoltò cantare/- “Ferma la nave! Odi le due Sirene/ch’hanno la voce come è dolce il miele; /ché niuno passa su la nave nera/che non si fermi ad ascoltarci appena,/ e non ci ascolta, che non goda al canto, /né se ne va senza saper più tanto:/ché noi sappiamo tutto quanto avviene/sopra la terra dove è tanta gente!”-/Gli sovveniva, e ripensò che Circe/gl’invidïasse ciò che solo è bello;/saper le cose”.
Nell’episodio XXIII, Il Vero, Ulisse torna dalle Sirene per fermarsi. Le interroga e le provoca: “Sirene, io sono ancora quel mortale/che v’ascoltò, ma non poté sostare/più sempre avanti sospingea la nave. //E il vecchio vide che le due Sirene,/le ciglia alzate su le due pupille,/avanti sé miravano, nel sole,/fisse o in lui, nella sua nave nera/ E su la calma immobile del mare,/alta e sicura egli inalzò la voce.//Son io! Son io, che torno per sapere!/Ché molto io vidi, come voi vedete/me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,/mi riguardò; mi domandò: Chi sono?// E la corrente rapida e soave/più sempre avanti sospingea la nave.// E il vecchio vide
un grande mucchio d’ossa/d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,/presso le due Sirene, immobilmente/stese sul lido[11], simili a due scogli.// Vedo. Sia pure. Questo duro ossame./cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!/Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,/prima ch’io muioa, a ciò ch’io sia vissuto!” //E la corrente rapida e soave/più sempre avanti sospingea la nave./E s’ergean su la nave alte le fronti,/con gli occhi fissi, delle due Sirene./ “Solo mi resta un attimo. Vi prego!/Ditemi almeno chi sono io! Chi ero!”/E tra i due scogli si spezzò la nave”.

Sentiamo l’interpretazione che T. Mann dà della brama del conoscere e della solitudine cui questo desiderio smanioso ci condanna
"Allora, col martirio e l'orgoglio del conoscere, sopravvenne la solitudine, ché la vicinanza dei bonari, delle anime gaiamente ottenebrate, gli riusciva intollerabile, e il marchio sulla sua fronte turbava costoro. Ma sempre più dolce divenne per lui la gioia della parola e della forma"[12].

Tale gioia del resto è contaminata dal dolore:"La letteratura non è affatto una vocazione; è una maledizione…perché lo sappiate. E quando principia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente presto. A un'epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d'amore e d'accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d'essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l'abisso d'ironia, d'incredulità, d'opposizione, di lucidità, di sensibilità che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c'è più possibilità d'intesa"[13]


Torniamo all’Ulisse di Boitani: “nonostante tutto, il cuore di Odisseo vuole udire, desidera la seduzione, aspira a sentire quella voce di bellezza e di morte da vivo….Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[14] O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto-decostruzione, proponeva nella Repubblica, esseri celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[15]; quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del sapere, sul tipo delle doctae sirenes celebrate da Ovidio?...”[16].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi racconta che le doctae Sirenes, figlie dell’Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra sparì,  cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i fiori primaverili. Come la kore scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la cercarono per tutta la terra, poi vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.
  Per questo divennero alate. Ma conservarono volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero la facoltà del canto mulcendas natus ad auras (561), fatto per incantare gli orecchi. 
Nell’ultimo libro delle Argonautiche,  Orfeo con il suo canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa, usualmente identificata con  degli scogli vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne, incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per dimora.  (Argonautiche, 4, 892 sgg.).  Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica benigna e maligna

Sentiamo ancora Boitani che cita e commenta Brecht: “Nel 1933 Bertold Brecht-torniamo così al riparo della mera letteratura-scrisse, nelle sue Rettifiche di miti antichi, un pezzo minuscolo su Ulisse e le Sirene. Il drammaturgo vi riporta la versione tradizionale, in cui l’eroe si fa legare all’albero maestro e poi tura gli orecchi dei rematori con la cera “così che… il suo godimento dell’arte possa rimanere senza brutte conseguenze”. Giunti dinanzi all’isola, i “servi” resi sordi vedono Ulisse contorcersi all’albero e le “seducenti femmine” gonfiare la gola. Tutto in ordine, dunque: secondo il programma. L’intera antichità credette che al volpone fosse riuscito il suo stratagemma.” Ma Brecht mette in dubbio la veridicità della storia. Dopotutto, Ulisse è il mentitore per eccellenza:
Dovrei essere io il primo ad avanzare sospetti? Ebbene, io mi dico-D’accordo, ma chi, all’infuori di Ulisse, dice che le Sirene cantarono veramente davanti all’uomo legato? Queste femmine abili e potenti dovrebbero davvero aver sprecato la loro arte con gente che non possedeva alcuna libertà di movimento? Qui vorrei perciò supporre, invece, che le gole gonfie osservate dai rematori gridassero, con tutta la loro forza, insulti al maledetto e prudente provinciale, e che il nostro eroe eseguisse i suoi contorcimenti (anch’essi attestai), perché pure lui alla fine provava vergogna.
E dunque le Sirene, nonostante il “definitivo” silenzio di Kafka, riprendevano bellamente a cantare; la narrazione, e l’interpretazione, continuavano. La nota di Brecht al racconto proclama, in perfetto stile midrash[17] ironico: “Per questa storia si trova una rettifica anche in Franz Kafka, ma nell’età moderna essa non appare più, davvero, credibile”.
Le Sirene cantano, anzi urlano insulti: nei “tempi nuovi” l’arte un po’ sfacciata non può che prendere a male parole il borghese autoritario e provinciale che vuole godersela senza brutte conseguenze. Un anno più tardi, nel 1934, era Walter Benjamin a rievocare Ulisse e le Sirene…Nello splendido saggio su Franz Kafka, Benjamin chiama l’ebreo praghese “novello Ulisse” perché egli non ha ceduto, dice, alle lusinghe del mito, che potrebbe offrire redenzione al mondo. In Kafka, scrive il critico, le Sirene tacciono “forse perché in lui la musica e il canto sono un’espressione, o almeno un pegno di salvezza”. L’esegesi sembrava ribadire la fine ”[18] .
 Il silenzio delle Sirene
Che cosa cantava Calipso, o Circe (X, 221, 227, 254), o la Sfinge dell'Edipo re[19]   è un quesito più legittimo e logico di quello che  poneva Tiberio imperatore ai grammatici:"quid Sirenes cantare sint solitae? "[20] che cosa cantassero abitualmente le sirene.
Kafka sostiene che quelle creature non cantavano:"le sirene hanno un'arma ancor più terribile del canto, ed è il loro silenzio. E' forse pensabile, sebbene non sia mai successo, che qualcuno possa salvarsi dal loro canto: sicuramente non dal loro ammutolire...E davvero, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantavano...Ma Odisseo, se così si può dire, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e che lui soltanto fosse preservato dall'udirle"[21].
T. Mann attribuisce il silenzio alla Sfinge egiziana; “Che cosa diceva quell’enigma? Non diceva assolutamente nulla. Consisteva nel silenzio, nel silenzio imperturbabile ed ebbro con cui quell’essere mostruoso …mirava con sguardo selvaggio e veggente lontano, oltre colui che interrogava e nello stesso tempo veniva interrogato…Era una Sfinge, cioè un enigma e un mistero; e precisamente un mistero selvaggio, con branche di leone, cupido di sangue giovane, pericoloso per il figlio di Dio…Su quel petto di roccia, tra le branche di quel drago femmina, non si sognavano sogni di promessa, e tutt’al più sogni ben miseri”[22].
Kafka racconta che Ulisse si chiuse le orecchie con la cera e opera una "dislettura del mito originario, nel quale l'eroe tura invece le orecchie dei compagni"[23] per affermare il loro silenzio e descrivere la loro mimica:"Esse però, mai così belle, si tesero e si torsero, lasciarono ondeggiare liberi nel vento i loro orridi capelli, aprirono, nudi, gli artigli sulle rocce; non volevano più sedurre, volevano soltanto afferrare, finché era possibile, il riflesso lucente degli occhi immensi di Odisseo". E' un'interpretazione inquietante:"da essa emerge per la prima volta nella letteratura occidentale il punto di vista delle Sirene. Ma , "più belle che mai", le Sirene (e siamo nel sesto paragrafo) allungarono il collo e si voltarono, lasciarono ondeggiare i loro capelli "raccapriccianti" nel vento e, dimenticando tutto, afferrarono le rocce con i loro artigli. Tornate mostruose dopo il passaggio dell'eroe, esse non avevano più alcun desiderio di sedurre:"volevano solamente trattenere il più a lungo possibile il riflesso luminoso che veniva dai grandi occhi di Odisseo". Le "legatrici" sono legate. E' l'uomo ormai ad ammaliare, ad essere specularmente divenuto una sirena"[24].
 In realtà Omero attribuisce sette esametri al canto armonioso delle Sirene: sono i versi 184-191 del XII canto dove le misteriose creature promettono a Odisseo quello che desidera di più: l'accrescimento della conoscenza che rende felici: chi sente le loro voci dal suono di miele, riparte “teryavmeno~kai; pleivona eijdwv~” (v. 188), pieno di gioia e conoscendo più cose.
Noi infatti, concludono: “   i[dmen d  j o{ssa gevnhtai ejpi; cqoni; pouluboteivrh/" (v. 191), sappiamo quanto avviene sulla terra nutrice
 E’ meno dislessico attribuire il silenzio delle parole  a Calipso o a Circe o alla Sfinge di Sofocle.




Ulisse è spinto a partire ma anche a ritornare.
Se da una parte "il non domato spirito,/e della vita il doloroso amore"[25] sospingono Ulisse, come il poeta triestino,  “al largo”[26],  dall'altra il richiamo e il risucchio della patria ve lo fa tornare.
 Nel IX canto del poema omerico Odisseo dichiara ad Alcinoo il proprio nome e quello della  sua terra: “Itaca distinta   (  j Iqavkhn eujdeiveleion, v. 21); dove c’è ben visibile il monte Nerito che scuote le foglie, ed è aspra, ma buona nutrice di giovani: “trhcei` j ajll j ajgaqh; kourotrovfo~”(v. 27).
 Così pure l'Ulisse  di Joyce, altro uomo che ha molto sofferto anche se di formato non eroico, dopo un lungo girovagare per Dublino torna a casa[27] dalla moglie, sebbene adultera, da quella Molly che E. Pound interpreta come "Gea Tellus, simbolo della Terra... il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltare via, e nel quale  ricade in saecula saeculorum.".
La donna di questo Ulisse in effetti è un personaggio universale come lo è egli stesso:"I dettagli della carta topografica sono locali ma Leopold Bloom (né Virág [28] ) è di tutti i luoghi"[29] .
Sul ritorno di Ulisse e il rischio di scordarlo ha scritto parole interessanti Calvino:"Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX-XII si ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante...Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il ritorno"[30]. Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di battaglia del loro repertorio"[31]

Concludo con l’Ulisse di Joyce. E’ Leopold Bloom, un ebreo ungherese. Il suo vero cognome è Virág che in lingua magiara significa fiore.
Si dice che Bloom è la controfigura dell’eroe omerico. Di fatto  ha in comune con Odisseo la pazienza e la curiosità: gira per casa sua e per Dublino nella lunga giornata del 16 giugno 1904 osservando tutto e riflettendo su tutto. Sopporta  con ironia e non senza dignità. A proposito della moglie che ha un amante, Boylan “l’eroe conquistatore”, Leopold Bloom “l’eroe inconquistato” pensa: “Lei voleva andare. Ecco perché. Donna. Tanto vale fermare il mare”[32]
Nel XII episodio Il Ciclope- la taverna, Bloom viene aggredito da nazionalisti razzisti gaelici, antisemiti in un crescendo di insulti.
Questo nuovo Ulisse sopporta siccome è “papà prudenza” (p. 407) e oppone argomenti razionali all’irrazionalità dei razzisti, il cui corifeo è “il Cittadino” scortato da un cane ringhioso . Rinfacciano all’Ulisse ebreo la puzza semitica, le corna, e attribuiscono ogni male a chi non ha una nazione.
“Una nazione?” replica Bloom. “Una nazione è la stessa gente che vive nello stesso posto…Qual è la sua nazione, se è lecito? Dice il cittadino
-L’Irlanda”, risponde Bloom. “Sono nato qui. L’Irlanda”
Il cittadino non disse nulla, si schiarì appena in gola, e, perdiana, fece volare una patacca di scaracchio fin nell’angolo”
Bloom risponde proponendo di sostituire l’amore all’odio che è “il contrario di quel che è veramente la vita”
Poi il nostro Ulisse viene definito “un ebreo rinnegato…venuto da qualche parte dell’Ungheria…si chiamava Virag. Il nome del padre, quello che si avvelenò. Se l’è fatto cambiare ufficialmente, il padre…Virag d’Ungheria. Io lo chiamo Assuero. Maledetto da Dio…San Patrizio dovrebbe sbarcare un’altra volta a Ballykinlar e riconvertirci , dice il cittadino, dopo che abbiamo permesso a tipi simili di contaminare i nostri lidi.
Gli insulti agli Ebrei e a Bloom continuano, finché Leopold reagisce: “Mendelssohn era ebreo e anche Carlo Marx e Mercadante e Spinosa. E il Redentore era ebreo e suo padre era ebreo. Il vostro Dio…Il vostro Dio era ebreo. Cristo era ebreo come me”[33].
Quindi Bloom scappa via inseguito dal lancio di una scatola di biscotti e dal cagnaccio aizzato dal padrone. L’episodio  Il ciclope-La taverna finisce con varie reminiscenze delle Sacre Scritture, soprattutto 2 Re II, 11 dove si parla dell’ascesa al cielo di Elia
“E videro Lui nel carro, rivestito nella gloria di quello splendore, che aveva vestimento come del sole, bello come la luna e terribile sì che per tema non osarono levare gli occhi a lui”[34].
 Bloom dunque ha una sua dignità, anche se non ha l’eroismo di Odisseo né una Penelope fedele. La moglie Molly  lo tradice, ma dopo tutto rimane con lui. L’ultimo capitolo[35] Il XVIII, Penelope- il letto si chiude si chiude con una serie di sì che la donna dice alla vita, alla sua vita con il suo Ulisse, a tutta la vita: “and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume yes and his heart was going like mad and yes I said yes I will yes
Sono le ultime parole del romanzo uscito nel 1922.

Giovanni Ghiselli


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[1] Del 45 a. C. E’ un dialogo in cinque libri, dedicato a Bruto, sul problema del sommo bene e del sommo male.
[2]  Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Spleen,  LXXVI, 3.
[3] Si rivolge ad Anneo Sereno, un giovane allievo e amico cui Seneca indirizza anche il De tranquillitate animi e il De otio..
[4] 1809-1892.
[5] L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura:  Achille , cedere nescius ( Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta  ira di Achille incapace di cedere. ) ,  non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto,  e gli risponde:"ouj lhvxw"( Iliade , XIX, v. 423), non cederò.
 Della definizione oraziana dell'eroe si ricorda Leopardi nel Bruto Minore:" Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38-40).
[6] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 119-120.
[7]C. Pavese, Dialoghi con Leucò , p. 136.
[8] 1863-1933.
[9]Costantinos Kavafis, Settantacinque poesie .
[10] E’ una citazione parodica di D’Annunzio : « Odimi » io gridai/sul clamor dei cari compagni/ « odimi, o Re di tempeste !” (Maia, IV)
[11] Cfr. Odissea  XII, 45 h[menai ejn leimw`ni, sedute sul prato.
[12] T. Mann, Tonio Kröger, cap.IV.
[13] T. Mann, Tonio Kröger, cap. IV.
[14] 403d, Sono le sirene ctonie evocate già nella parodo dell’Elena di Euripide dove Elena intona  il primo  canto   cui risponde coro di donne greche rapite dai corsari e vendute come schiave in Egitto.  La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~  (v. 169)  pterofovroi neanivde~ ragazze alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a venire compagne ai suoi  gemiti con il flauto libico o le zampogne ,  lacrime, canti di pianto accordati con i suoi   desolati lamenti, dolori per dolori, canti per canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri ndr
[15] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che  l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che erano  risuonava una sola armonia ( ejk pasw`n de; ojktw;  oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)

[16] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27-28
[17] Esposizione ebraica del vecchio testamento (ndr).
[18] P. Boitani, Sulle orme di Ulisse, pp. 134-135.
[19]  vv. 35-36: " ejxevlusa"... sklhra'" ajoidou' dasmo;n oJ;n pareivcomen", hai fatto cessare... il tributo della cantatrice dura che pagavamo, e v. 130 "hJ poikilw/do;" Sfi;gx", la Sfinge dal canto variopinto.
[20]Svetonio, Tiberii Vita , 70.
[21]F. Kafka, Il silenzio delle sirene, scritti e frammenti postumi  (1917-1924) p. 45.
[22] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, vol. III, Giuseppe in Egitto, p. 100.
[23]P. Boitani, L'ombra di Ulisse , p. 214.
[24]P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p.216.
[25]Umberto Saba, Ulisse , vv. 12- 13.
[26] Umberto Saba, Ulisse , v. 11.
[27] Cfr. il XVII episodio: “Itaca” la casa
[28]Cognome che significa "fiore" nella lingua magiara e dunque indica l'origine ungherese di questo ebreo che vive a Dublino. Ulisse è greco ma pure cittadino del mondo.
[29]Ulysses , in Pound  Opere Scelte ,  p. 1168
[30] Novstou te laqevsqai, Odissea IX, 97 ndr.
[31]I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15-16.
[32] XI episodio, Le Sirene, la mescita.
[33] Joyce, Ulisse, p. 468.
[34] Joyce, Ulisse, p. 468
[35] Il XVIII, Penelope- il letto