I diaconi
della finanza vorace e dell’usura impietosa, se pure negano di averci
spremuto sangue con lacrime, di sicuro non ci hanno fatto ridere. Erano seduti
freddi nell’ombra fredda: molti uccelli ora giacciono spennati ai loro piedi.
Uccelli piccoli e deboli del resto, e non solo uccelli purtroppo. Mi sembra
dunque il momento di passare in rassegna pregi e difetti, elogi e biasimi della
democrazia, il regime che si fa derivar dalla costituzione e dal governo di
quel grande e vero signore che fu Pericle.
Finché questo stratego visse, ad Atene
vigeva un’aristocrazia con il consenso della massa, secondo la definizione data
da Aspasia nel Menesseno di Platone (238d). Inoltre questo governo
era un regime educativo, tale che non escludeva nessuno per debolezza sociale,
né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferiva alcuno per i
motivi contrari. Chi era reputato saggio e onesto, otteneva il consenso e le
cariche. Questo era possibile poiché i cittadini ateniesi dotati di piena
cittadinanza nascevano uguali, ossia con le medesime possibilità di sviluppo.
Aspasia compose tale discorso encomiastico perché venisse recitato da Pericle,
secondo Socrate.
Infatti gli stessi pregi vengono attribuiti
alla “sua” democrazia dal grande stratego ateniese nel discorso che Tucidide gli fa pronunciare, in encomio
dei caduti nel primo anno di guerra (431 a. C.), e in elogio di Atene, la
scuola dell’Ellade.
Vediamo alcune frasi iniziali del famoso
lógos epitáfios di Pericle. “In effetti ci avvaliamo di una costituzione che
non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio a qualcuno
piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere amministrata
non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia: per legge c’è
una condizione di uguaglianza per tutti, e uno viene preferito alle cariche
pubbliche, secondo la reputazione, per come viene stimato in qualche campo, non
per il partito di provenienza più che per il suo valore; né d’altra parte, se
uno può fare qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito
per l’oscurità della sua posizione sociale” (Tucidide, Storie, II, 37, 1).
In altre parole nessuno era avvantaggiato,
né svantaggiato per il partito da cui proveniva, né alcuno veniva inceppato
dalla povertà o dalla modesta posizione sociale, se poteva fare qualche cosa di
buono per la comunità. Questo principio sacro, attualmente profanato, si trova
altresì nell’articolo 3 della Costituzione italiana.
I nostri padri costituenti, che sicuramente
avevano letto Tucidide, stabilirono che “Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza,
di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese”.
Entrambe le
costituzioni ricordate evidenziano il fatto che se non c’è l’uguaglianza, non
c’è vera libertà. Lo ripeterà Giacomo Leopardi nello Zibaldone (923). Ora io non credo che questi tecnocrati,
banchieri e finanzieri vari, si siano adoperati in favore dell’uguaglianza e
delle pari opportunità per tutti, condizioni senza le quali non c’è democrazia.
Dopo l’encomio, sentiamo alcune opinioni
contrarie alla democrazia. Severo critico della democrazia demagogica, radicale
e sfrenata, è Platone che nell’VIII
libro della Repubblica biasima la
mancanza di serietà di questo regime che non si dà pensiero delle abitudini
morali di chi fa politica, ma onora chi si vanta di essere amico del popolo. E’
una costituzione anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza
nello stesso modo a uguali e disuguali (558c). In questo passo c’è l’idea che
l’uguaglianza imposta a persone diverse e disuguali sia opera di un regime
privo di giustizia.
Può sembrare un’idea elitaria e reazionaria,
ma la presenta anche Don Milani, in
un contesto tutt’altro che elitario, la Lettera
a una professoressa: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le
parti eguali fra disuguali”.
Le commedie di Aristofane mettono in rilievo e in ridicolo l’impudenza dei
demagoghi succeduti a Pericle, in particolare quella di Cleone, e la parzialità
del tribunale popolare dell’Eliea che avrebbe perseguitato i ricchi e i nobili.
Come con Berlusconi c’è stata la psicosi del comunismo, allora c’era la fobia
della tirannide. Diffuse, entrambe, per coprire malaffare e malefatte.
Per esempio: se uno voleva comprare degli
scorfani, il venditore di sardelle che non li aveva, accusava l’appassionato di
scorfani di volerne fare provvista per la tirannide (Vespe, 495). Se uno chiedeva una cipolla per condire le alici,
l’ortolana, sprovvista di cipolle, gli domandava minacciosamente se voleva una
cipolla per la tirannide ( Vespe,
498). Sicché gli Eliasti, i giudici popolari, che, secondo Aristofane,
valutavano in modo arbitrario tali denunce assurde, erano corteggiati e
lusingati da tutti.
Una critica più seria, sostenuta da diversi autori (oltre Platone, Isocrate,
Aristotele, Senofonte, lo Pseudosenofonte, Polibio) sosteneva che il démos (popolo) non voleva sottostare
alla legge e che il suo krátos
(potere) in realtà era una forma di strapotere svantaggioso per le persone
educate e abbienti. La demokratía
dunque era una specie di dittatura del proletariato molto prima di Lenin.
Tucidide fa l’elogio finale di Pericle
dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola
libera, ma non si faceva condurre più di quanto la conducesse lui (II, 65, 8).
Morto Pericle nel 429, però le cose cambiarono in peggio.
Cleone, poi Alcibiade, poi altri meno noti commisero
errori politici e pure crimini nefandi come la repressione della rivolta di
Mitilene e il genocidio degli abitatati della piccola isola di Melo.
Dopo
la battaglia delle Arginuse (del 406) il popolo di Atene voleva condannare a
morte gli strateghi che pure vincitori, non avevano salvato la flotta e molti
marinai dal naufragio.
La proposta era illegale in quanto non
prevedeva di distinguere, secondo la legge, le responsabilità individuali degli
accusati. Durante il processo ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa era
stato inoculato il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave
se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva (Senofonte, Elleniche, I, 7, 12).
E’
questa la formula che caratterizza la degenerazione della democrazia secondo Polibio il quale sostiene che non è
democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e
preferisca; invece, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale
venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle
leggi. Quando prevale il parere dei più, allora possiamo parlare di democrazia
(Polibio, Storie, 6, 4, 4).
Ora il parere dei più non prevale, non viene
nemmeno messo in conto, e in questa fase nel nostro paese non c’è democrazia.
Da tanto tempo in Italia l’apparenza copre e
violenta la verità, come altre volte nella storia, e la giustizia corrisponde,
come sempre, all’utile del più forte.
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
Gran bel pezzo!
RispondiEliminaC'è da dire che noi Italiani non ci siamo conquistati la libertà, ce l'hanno regalata, dunque ce la possono anche tigliere.
alessandro